«Non è vero che le donne non sono mai scese in battaglia. Semplicemente, l’uomo le ha dimenticate».
Ho letto Fiore di roccia, romanzo di Ilaria Tuti, tutto d’un fiato e mi è piaciuto moltissimo. Ha suscitato in me fortissime emozioni, perché parla di guerra e in questo momento leggere le conseguenze nefaste, terribili, disumane che essa provoca agli esseri umani acuisce l’angoscia, l’impotenza e la tristezza che stiamo provando di fronte alle immagini strazianti dell’Ucraina che invadono di dolore le nostre case; perché parla di donne, e averlo terminato pochi giorni prima dalla Giornata internazionale dei diritti delle donne mi ha ricordato quanta strada abbiamo fatto e quanta ancora ce ne resta da percorrere per una reale parità ed equità di trattamento in tutti i campi, ma soprattutto per il riconoscimento di quella dignità che spesso viene sottratta alle donne sotto varie forme.
L’autrice – nata il mio stesso giorno a Gemona del Friuli – racconta in forma di romanzo una vicenda storica, ovvero quella delle Portatrici della Carnia, zona friulana bellissima, che ho avuto il piacere di visitare nell’estate del 2020. Le Portatrici erano tutte donne tra i dodici e i sessant’anni che durante la Prima guerra mondiale rifornivano quotidianamente i soldati sul fronte carnico, salendo sulle montagne attraverso sentieri impervi e diversamente non raggiungibili, con le gerle sulle spalle, ovvero ceste in legno, vimini, viburno o corde intrecciate a forma di cono rovesciato, con grande senso della fatica e del sacrificio. «Le Portatrici erano donne semplici ma di una forza straordinaria, abituate da secoli a sostenere la famiglia nelle condizioni più avverse. Il fatto di non essere state militarizzate fece sì che l’Italia se ne dimenticasse per molto tempo, negando loro anche il sostegno economico che invece spettò ai soldati che avevano combattuto nel conflitto».

Il testo è corredato alla fine di pagine con indicazioni bibliografiche tenute presenti dall’autrice e una bella descrizione del suo metodo e dei sentimenti che l’hanno condotta nel lavoro di ricerca e scrittura. Leggendo questo libro ho provato empatia con la protagonista, Agata Primus, che è anche la voce narrante, e con la prima Portatrice ricordata nel romanzo, Maria Plozner Mentil, l’unica donna a cui è stata intitolata una caserma militare nel nostro paese. Dopo che il prete di Timau aveva rivolto un appello alle donne per aiutare i soldati al fronte, fu lei – vincendo le titubanze delle compagne del paese – che disse: «Anin, senò chei biadaz ai murin encje di fan (andiamo, altrimenti quei poveretti muoiono anche di fame)».
E riecheggiano ancora le parole di Agata nelle mie orecchie, parole enormemente e tragicamente attuali: «Ho scelto di essere libera. Libera da questa guerra, che altri hanno deciso per me. Libera dalla gabbia di un confine, che non ho tracciato io. Libera da un odio che non mi appartiene e dalla palude del sospetto. Quando tutto attorno a me era morte, io ho scelto la speranza».

Ilaria Tuti
Fiore di roccia
Longanesi, 2020
pp. 320
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Articolo di Valeria Pilone

Già collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione.