Elisa Cappelli rientra tra le educatrici che, dopo l’Unità d’Italia, hanno contribuito allo sviluppo di una lingua e di una cultura comuni. È inoltre particolarmente consapevole dell’enorme divario di genere esistente nella società italiana del suo tempo ed è convinta che possa essere superato attraverso un graduale, ma profondo, cambiamento culturale e per promuovere questo cambiamento fornisce esempi di alternative concrete.
In un periodo in cui le donne erano escluse dalle professioni e potevano lavorare solo nel campo dell’educazione e dell’assistenza, Cappelli si dedica alla prima, occupandosi non solo di insegnamento, ma anche di formazione delle docenti, pubblicando volumi didattici e libri di testo per le scuole primarie e, non ultimo, traducendo libri di vario genere dal francese e dall’inglese.
Come spesso accade per le donne del passato, le informazioni sulla sua vita sono scarse e disperse in istituzioni varie, quando non del tutto perdute. Quelle che riguardano la sua nascita si trovano nell’Archivio dell’Opera di Santa Maria del Fiore di Firenze, la chiesa cattolica dove sono conservati gli atti battesimali dell’epoca: Elisa era nata il 9 novembre 1852 ed era figlia «di Fabio Cappelli, di Michele e di Maria, di Angiolo Sani». Per reperire la data esatta della morte, l’8 ottobre 1940, bisogna invece rifarsi all’albero genealogico della Gens Ranchetti, un ramo discendente della famiglia, che è presente in Internet.
Il fratello Michele, nato nel 1854, era diventato un imprenditore di successo grazie all’invenzione di una innovativa lavorazione della lastra fotografica a gelatina secca, attività per la quale si era trasferito a Milano e aveva aperto una fabbrica. Per Elisa i genitori avevano previsto invece la frequenza della Scuola Normale, per avviarla all’insegnamento, al tempo l’unica prospettiva professionale dignitosa per una ragazza della classe media. La sua formazione e i contatti con l’ambiente culturale fiorentino del tempo, nonché una certa intraprendenza, le permisero di lavorare nell’ambito più vasto della cultura pedagogica e pubblicare scritti narrativi. Poche altre notizie sono disponibili sulla vita di Elisa Cappelli: una nota nella rivista Ars et Labor annuncia il suo matrimonio con Ovidio Colzi, colonnello della Fanteria italiana, nel 1906. È anche presente nell’elenco dei membri del Lyceum, un’associazione culturale attiva a Firenze e altre città italiane, nel 1931. A Firenze abitò nella villetta Colzi, in via Giramonte 1.

Per inquadrare al meglio la sua personalità è importante innanzitutto collocare questa giovane donna nell’ambiente professionale cui era destinata. Alla fine dell’Ottocento la Toscana era una delle regioni più alfabetizzate, grazie alle profonde riforme che, fin dalla seconda metà del XVIII secolo, il granduca Pietro Leopoldo aveva varato nel campo dell’istruzione, ispirato dalle teorie illuministe e dalla pedagogia di Johann Heinrich Pestalozzi.
Allo scopo di diffondere l’istruzione di base fra le classi lavoratrici il sovrano aveva istituito quelle che verranno in seguito ricordate come Scuole Leopoldine, attive fino al 1976.
Dopo l’unificazione il neonato Stato italiano aveva assimilato queste scuole, in un periodo in cui era in atto un dibattito acceso sulla lingua: nella vita quotidiana la popolazione della penisola si esprimeva in una varietà di dialetti diversi, con evidenti difficoltà di comprensione reciproca. Nel dibattito prevalse la corrente manzoniana e il toscano (lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio) fu ritenuto l’idioma più appropriato a diventare nazionale, ma fu solo con l’introduzione del biennio della scuola dell’obbligo, previsto dalla legge Coppino nel 1877, che i tassi di alfabetizzazione cominciarono lentamente ad aumentare e l’uniformità linguistica a stabilizzarsi. Si poneva comunque la necessità di individuare un percorso di formazione adeguato per chi insegnava nella scuola dell’obbligo: la stessa legge, al titolo V, suddivideva le scuole superiori in Professionali, Licei e Scuole Normali e suggeriva una programmazione differenziata.
Alle Normali spettava il compito di formare i formatori, che in un primo momento erano in larga parte uomini, con una rapida inversione negli ultimi decenni del secolo, come evidenziano le statistiche: «nel 1861-1862, 2947 maschi e 2795 femmine; nel 1875-1876, rispettivamente 1248 e 5227; nel 1881-1882, 1238 e 7482, fino all’ultimo anno scolastico del secolo, in cui i maschi erano 1323 e le femmine 19.864». Perciò, mentre gli uomini preferirono dedicarsi all’istruzione superiore, meglio retribuita, il campo dell’educazione di base fu occupato dalle donne, che si videro attribuita una vocazione specifica, in quanto “per natura” madri ed educatrici.
Di conseguenza l’insegnamento elementare perse la dimensione professionale: la Scuola Normale doveva fornire una preparazione sommaria, le maestre dovevano essere istruite, ma non troppo; nel 1869 la pedagogista cattolica Giulia Molino Colombini sosteneva che era giusto che le donne continuassero a leggere, anche da adulte, ma la lettura non doveva «distrarci dai nostri lavori femminili, vegliando sulla culla dei nostri bambini, sole nel silenzio della casa o nel rumore della conversazione». Il carattere oblativo dell’insegnamento venne ribadito nel 1864, quando il senatore Raffaello Lambruschini sostenne che la figura femminile era dotata di una «bellezza che piglia ora la forma di madre ora di suora della carità», fatta «di pazienza, di abnegazione di sé, di mansuetudine che acquista le proprie e le ire altrui, di compassione che sente i mali di tutti, di generosità che li soccorre, dimentica di sé medesima». A questa figura ingiungeva: «Pigli essa oggi la forma di maestra di scuola», per replicare nella scuola quelle doti che già nella casa aveva appreso a esercitare. Le donne, dunque, apparvero le “naturali” destinatarie cui affidare l’alfabetizzazione delle masse di nuovi italiani e italiane, e alla “vocazione” magistrale fu attribuita la stessa enfasi di quella materna, in una parola quella di una “missione” – concetto ancora tristemente supportato ai giorni nostri.
Alla “vocazione” corrispondeva uno stipendio minore di un terzo rispetto a quello degli uomini e una vita di disagio e di solitudine: le maestre erano soggette a un serrato controllo sociale e dovevano ricevere un attestato di moralità da parte del sindaco per poter continuare a esercitare la professione; erano quindi esposte al giudizio pubblico, alle maldicenze, ai ricatti.
Così testimonia, nel 1886, la giornalista Matilde Serao nel suo racconto Scuola normale femminile: l’esistenza della maestra, anzi della maestrina, termine più riduttivo che vezzeggiativo, non è che un susseguirsi di delusioni, privazioni e dispiaceri. Ancora Serao, nel suo noto articolo Come muoiono le maestre, riferisce le tristi storie di quattro compagne della Scuola Normale, morte per suicidio, per stenti e per motivi legati alla loro professione. Inoltre, se la Scuola Normale costituiva una via praticabile per l’accesso delle donne agli studi post-elementari, allo stesso tempo ne favoriva l’allontanamento dagli studi superiori e dalla formazione universitaria. La figura della maestra era socialmente tollerata, ma ogni aspirazione delle giovani donne italiane nei confronti di professioni culturalmente più elevate veniva duramente stigmatizzata.
Basti ricordare le rarissime laureate, alle quali era comunque interdetto l’esercizio della professione. Un esempio di questo conflitto fu Maria Montessori, che rifiutò di iscriversi alla Scuola Normale, come il padre e le aspettative sociali prescrivevano; infatti, nel suo immaginario di adolescente questa scuola rappresentava la rinuncia all’impegno intellettuale che desiderava per sé stessa. La professionalità delle maestre era comunque dura a morire, come dimostrano alcuni casi di significative innovazioni: Elena Raffalovich Comparetti istituì un asilo froebeliano a Venezia; Sibilla Aleramo fu insegnante nell’agro pontino; Rina Nigrisoli tentò un rinnovamento pedagogico a Portomaggiore; infine, Linda Malnati ricoprì, oltre al ruolo di insegnante, cariche politiche nelle prime associazioni di lavoratrici, mentre l’esperienza di educatrice di Maria Montessori assunse una rilevanza internazionale. Tali esempi mettono in evidenza la vivacità progettuale di maestre ed educatrici, capaci di elaborare programmi pedagogici innovativi in un contesto culturale e politico incerto in cui, di fronte all’esigenza di rinnovamento, i rapporti fa i generi restavano ancorati a posizioni arcaiche.
In questo panorama si inserisce l’opera di Cappelli: la sua produzione letteraria, pubblicata fra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento, aveva un indirizzo sia teorico che pratico. I suoi lavori teorici miravano a contribuire alla creazione di una κοινὴ, un codice linguistico comune per italiani e italiane, che secondo l’opinione dell’autrice era non solo un mezzo necessario per una più ampia comunicazione, ma anche un elemento identitario indispensabile alla nuova nazione. Dal punto di vista pratico, i suoi libri di testo cercavano di colmare il divario linguistico attraverso un’ampia varietà di letture ed esercizi. Tra il 1884 e il 1938 Cappelli pubblica ventisei tra manuali scolastici, libri di testo, opuscoli e volumi (ristampati in ottantadue diverse edizioni). Dei quindici libri di testo tre erano dedicati alle ragazze, quattro ai ragazzi e il restante a entrambi. Le altre pubblicazioni in questo campo erano dirette al miglioramento e alla correzione dell’ortografia e perciò rivolte a coloro che frequentavano le scuole primarie.
Come abbiamo già visto, l’interesse di questa scrittrice non era solo focalizzato sul miglioramento delle capacità di allieve e allievi, ma pure sulla formazione della classe docente. Pertanto, oltre ai manuali di ortografia e composizione, una parte considerevole della sua produzione era dedicata alla traduzione di saggi didattici dal francese, nonché a fiabe e racconti per l’infanzia. La sua opera più importante, la prima traduzione in italiano dell’Histoire universelle de la pédagogie di Jules Paroz, edita nel 1884, consentì l’accesso alle teorie pedagogiche di Johann Heinrich Pestalozzi anche a chi non conosceva il francese, dando così un importante contributo all’aggiornamento delle tecniche didattiche. Seguirono sei raccolte di storie e fiabe tradotte dall’inglese e dal francese, che furono ripetutamente ripubblicate. Collaborò con Ida Baccini, giornalista e scrittrice, per la raccolta Si muore; lei stessa scrisse alcuni racconti originali, pubblicati con il titolo Gli occhiali della nonna.
Oltre all’impegno per la scuola dell’obbligo e al miglioramento della sua lingua madre, Cappelli è stata attiva nel campo dell’insegnamento, in particolare quello dell’italiano rivolto alla numerosa popolazione straniera che raggiunse Firenze sulle orme di personaggi famosi come lo scultore danese Bertel Thorvaldsen, grande ammiratore di Antonio Canova, o il pittore finlandese Akseli Gallen-Kallela, esponente del movimento simbolista.
Nella seconda metà del XIX secolo molti scandinavi, soprattutto artisti, raggiunsero l’Italia, in un Grand Tour tardivo, per ammirare l’arte medievale e rinascimentale. È probabilmente in una di queste comunità che Cappelli incontrò la giovane svedese Ebba, che in seguito avrebbe accompagnato nel suo ritorno in patria. L’unico diario di viaggio di Cappelli, In Svezia, pubblicato nel 1902, è proprio il risultato di questo soggiorno estivo che si svolge dall’8 giugno al 29 luglio 1898. L’obiettivo educativo del libro è chiaramente espresso nel sottotitolo, Impressioni di viaggio – libro per la gioventù e lo scopo della scrittrice influenza anche lo stile narrativo, caratterizzato da chiarezza e semplicità. Attraverso il suo resoconto mostra a lettori e lettrici una società in cui, secondo le sue impressioni non solo di visitatrice, ma soprattutto di donna, il divario di genere era stato completamente superato ed entrambi i sessi, pur svolgendo ciascuno il proprio ruolo “naturale”, vivevano in armonia.
In quanto donna Cappelli percepiva l’urgenza di diffondere nel suo Paese modelli di comportamento responsabilizzanti, che incoraggiassero l’emancipazione femminile. Intuiva che, mentre l’Italia come nuova nazione stava attraversando un periodo di cambiamenti in rapida evoluzione, era fondamentale per le donne cogliere l’opportunità di migliorare il proprio status, contribuire al raggiungimento dell’uguaglianza e, in definitiva, svolgere il ruolo culturale e sociale che meritavano.
Nonostante Cappelli sia stata quasi del tutto dimenticata, una piccola casa editrice italiana specializzata in testi di nicchia, la Salani, ha recentemente ristampato tre suoi libri: un racconto, Storia di un gatto, nel 1988; la raccolta di racconti Gli occhiali della nonna, nel 1989; e un volume illustrato per l’infanzia, Il primo libro del bambino, lettura e scrittura: albo con 300 incisioni, nel 2012.
In copertina. Scuola castelbolognese, fine Ottocento.
***
Articolo di Rossella Perugi

Laureata in lingue a Genova e in studi umanistici a Turku (FI), è stata docente di inglese in Italia e di italiano in Iran, Finlandia, Egitto, dove ha curato mostre e attività culturali. Collabora con diverse riviste e ha contribuito al volume Gender, Companionship, and Travel-Discourses in Pre-Modern and Modern Travel Literature. Fa parte di DARIAH-Women Writers in History. Ama leggere, scrivere, camminare, ballare, coltivare amicizie e piante.