Carissime lettrici e carissimi lettori,
dodici donne che camminano lungo un percorso di duecento metri. Forse, anche loro, sfidanti e coraggiose, hanno camminato per quei Cento passi che simbolicamente rimandano, in ogni angolo della terra, dalla forza energizzante dell’arte alle prepotenze e ai soprusi di chi si sente arrogante e vuole sottomettere.
Sono le donne dell’Afghanistan che hanno voluto opporsi, al grido di «giustizia, giustizia», contro chi le vuole rimandare indietro nel tempo di oltre un ventennio e contro il nuovo governo dei talebani che le vuole fermare, come ha fatto la settimana scorsa per la breve manifestazione al centro di Kabul, in un Paese quasi completamente dimenticato dal resto del pianeta.
La protesta femminile del 10 maggio a Kabul si è estesa a macchia d’olio, ma non è riuscita a cambiare ancora nulla in un mondo dove le promesse del governo, teocratico e oscurantista, valgono davvero poco. «Vogliamo essere considerate come creature viventi, esseri umani. Non come schiave imprigionate in un angolo della casa», aveva dichiarato una delle donne che manifestavano contro quel terribile decreto che afferma che, se una donna «non ha cose di vitale importanza da fare all’esterno è meglio che resti in casa – e continua – Le donne che non sono né troppo giovani né troppo anziane devono coprirsi il volto, tranne gli occhi, come indicato dalla Sharia, (la legge islamica ndr) per evitare di provocare quando incontrano uomini che non siano mahram (i parenti stretti come padri, fratelli, mariti ndr) e devono indossare un chadori (l’espressione afghana per indicare il burqa ndr) poiché è tradizionale e rispettoso».
Ma le donne afgane abituate ad essere libere e dal carattere forte stanno uscendo di casa in tante indossando la mascherina anti Covid-19 3 e l’Hijab, il velo che copre solo il capo alla maniera dell’islam arabo, lasciando scoperto il viso.
Così i venditori di burqa, fiutando avidamente l’affare, dopo il decreto firmato dal leader supremo dei talebani, Haibatullah Akhunzada, hanno aumentato il prezzo dell’abito femminile, caricandolo del 30% in più del suo valore. Ironia della sorte, hanno dovuto, secondo le dichiarazioni fatte da uno di loro a Reuters, abbassarli di nuovo per l’assenza di un’impennata, sperata ma non realizzata, degli affari!
Il regime talebano considera le donne meno di un oggetto. Khalid Hanafi, ministro ad interim per la Propagazione della virtù e la Prevenzione del vizio (ben strano ministero!) in una conferenza stampa ha spiegato, più che minacciato, che a rispondere di eventuali violazioni saranno anche il padre, il marito o il parente maschio più vicino alla donna. Per non essersi fatti…obbedire da una o più donne della loro famiglia i maschi avranno, alla prima infrazione, un ammonimento e poi la condanna a tre anni di carcere, in seconda istanza e quindi, in ultima istanza, la perdita del lavoro con il licenziamento. «Un incoraggiamento alle adesioni» hanno commentato dai Palazzi del potere di Kabul. Tra le conseguenze, anche quella di mettere ancora più in ginocchio un Paese già colpito fortemente dalle privazioni, anche alimentari, e di addossare alle donne la colpa di tutto questo.
La Reuters ha riferito le parole di alcune donne (due dottoresse e un’insegnante, i pochi lavori ancora concessi alle donne) che hanno mostrato la loro preoccupazione: «Siamo medici, facciamo operazioni e dobbiamo lavarci le mani fino ai gomiti», ha detto una dottoressa sottolineando che coprirsi il viso e indossare indumenti larghi interferirebbe fortemente con il lavoro. Tutto questo, e altro ancora, è una palese violazione dei diritti umani.
Notizie non freschissime di cronaca? Forse. Ma siamo in un momento, che dura da molto tempo, in cui i media sono eccessivamente monocordi e troppo spesso battono su una notizia, dai giornali/telegiornali e soprattutto ai talk, dando poca attenzione al resto. Senza chiaramente nulla togliere alla gravità estrema delle situazioni che si sono succedute, dalla pandemia alla guerra in Ucraina dove le donne stanno pagando un prezzo molto alto di invasione e violenza fisica, si rischia di dimenticare tanto di ciò che continua ad accadere nel mondo. Come è successo nel periodo più terribile del Covid-19 quando sembrava fossero scomparse dalle cronache le violenze casalinghe quando proprio i centralini di aiuto hanno squillato con molta più frequenza per segnalare sopraffazioni psicologiche e fisiche subite soprattutto dalle donne in un periodo di costrizione negli interni.
Storie di donne. Storie di coraggio. Come quella di Shireen Abu Akleh, la giornalista, molto nota al pubblico di Al Jazeera, dove lavorava da anni, uccisa l’11 maggio scorso durante uno scontro a fuoco nel campo profughi di Jenin. Abu Aklel è stata uccisa mentre raccontava quella che da settimane è la nuova battaglia di Jenin, tra palestinesi e forze armate israeliane. Quando è stata uccisa Abu Aklel indossava il giubbotto con la scritta cubitale Press che ora siamo abituate/i a vedere soprattutto dalle immagini che ci vengono dalla guerra in Ucraina. L’identificazione come appartenente all’informazione non ha evitato il colpo alla testa che l’ha uccisa. «L’omicidio della corrispondente del network Al Jazeera è un caso penale, quanto politico e diplomatico – scrive l’Huffpost (14 maggio 2022) – Le responsabilità politiche e la dinamica dell’accaduto difficilmente potranno restare segrete. Forse passeranno in secondo piano o saranno addirittura insabbiate. Ma nessuno potrà mai negare che Abu Akleh sia prima di tutto una vittima del conflitto e dell’occupazione. Con le sue storie di abusi, violenze e di ordinaria prevaricazione. Che, come era prevedibile, non è mancata durante la cerimonia a Gerusalemme». Infatti la bara con il corpo della giornalista portata a spalla e barcollante sotto i manganelli della polizia israeliana ha dato l’impressione di una seconda esecuzione culminata con la caduta a terra, che rimanda simbolicamente alla prima, quando la giornalista è stata colpita. Il feretro aveva appena lasciato la chiesa greco- maronita alla porta di Jaffa, nella città vecchia, dopo la cerimonia funebre, seguita da una folla di migliaia di persone che volevano accompagnarla fino al cimitero del monte Sion, mentre le campane di tutte le chiese vicine suonavano in segno di saluto. La carica della polizia israeliana ha davvero lasciato dentro, per chi ha visto il filmato, l’amarezza di una violenza corporale perpetrata anche verso il corpo della stessa giornalista, ancora di più delle immagini di lei morente a terra mentre si tentava un’inutile rianimazione.
La violenza sui corpi femminili, che siamo costrette a trattare di nuovo, anche in tempi ravvicinati, va oltre (e non è cosa da poco) le infelici e tristi proposte di un’imprenditrice, anche lei dunque donna, che esige delle dipendenti tutte al di sopra degli anta così da essere libere da impegni fisici e familiari, forse sforando anche brutalmente gli orari conquistati dal diritto del lavoro. In India, è notizia di questi giorni, un reportage di France Tv indica un’usanza orribile che avviene tra le piantagioni di canna da zucchero di Maharashtra, nel distretto di Beed. Le ragazze, reclutate dai 10 anni in su, vengono spesso (il 36%) sottoposte a isterectomia, l’asportazione totale dell’utero per evitare gravidanze, ma anche fastidiosi dolori mestruali che farebbero rallentare il lavoro.
E mentre qualche settimana fa una direttrice (ahinoi anche lei una donna) di un supermercato, a Pescara, ha minacciato letteralmente di «calare le mutande» a tutte le dipendenti se non si fosse presentata spontaneamente chi di loro aveva lasciato nel bagno un assorbente usato fuori posto, dalla Francia arriva la notizia della concessione di una giornata di congedo retribuito, possibile per tutte le lavoratrici di un mobilificio di Labège, non lontano da Tolosa. Le dipendenti possono fermarsi e assentarsi dal lavoro durante il giorno più doloroso del loro ciclo mestruale. In un’intervista rilasciata a France Bleu il direttore generale del mobilificio ha spiegato che la misura è vantaggiosa per tutti. Non solo per le donne. «Le dipendenti non devono produrre nessun certificato medico e non c’è bisogno di autorizzazioni. In caso di cicli dolorosi basta informare il manager. Lavoriamo in un clima di flessibilità e così evitiamo imprevisti durante la produzione. È importante che nel luogo di lavoro ci siano fiducia e benessere, così facendo speriamo di spingere altre aziende a seguire il nostro esempio». Un bell’esempio, infatti, anche se per ora è in via sperimentale per un anno. Anche la Spagna ha pensato a livello nazionale ad una proposta simile, ma per ora è ancora un disegno di legge che includerebbe anche la distribuzione gratuita degli assorbenti nelle scuole. Per il resto, oltre alla Scozia, che è stata la prima nazione al mondo a fornire assorbenti gratuiti, grandi storie di progresso in proposito non ce ne sono.
Comunque proprio in India, nel 2020, una multinazionale dell’alimentazione (presente in 24 paesi) ha riconosciuto il permesso per dismenorrea. Altri piccoli esempi positivi sono in Corea e Taiwan e poi in qualche singola azienda che ha adottato il provvedimento, come in Francia, solo al suo interno.
In Italia è stata presentata una proposta di legge (nel 2016) per l’istituzione del congedo per le donne che soffrono di dismenorrea. L’iniziativa partiva da dati ben chiari: «Tra il 60 e il 90 per cento delle donne soffre durante il ciclo mestruale e questo causa tassi dal 13 per cento al 51 per cento di assenteismo a scuola e dal 5 per cento al 15 per cento di assenteismo nel lavoro». Con la legge di bilancio 2022 è però andata in porto la riduzione dell’Iva sugli assorbenti che non saranno così considerati al pari di un bene di lusso e abbassano le tasse dal 22% al 10%! Un buon passo che però è ancora lontano dall’abolizione totale come succede in Usa, Canada, Colombia, Sudafrica, Rwanda, Kenya (dal 2004), Libano, India, Australia e Malaysia. In Scozia sono gratuiti dal 2020 gli assorbenti, ma anche altri prodotti dell’igiene mestruale, mentre la Gran Bretagna ha optato per una tassazione al 5%.
Cercavo una poesia leggera e insieme ironica. Ho pensato ad Aldo Palazzeschi (1885-1974, all’anagrafe era Aldo Pietro Francesco Giurlani e Palazzeschi era il cognome della nonna paterna acquisito dal poeta per fare teatro). A ben vedere il poeta fiorentino non appartiene a nessuna corrente letteraria, si allontana dal Futurismo di Marinetti (si dichiara più propenso allo scherzo, all’ironia e al riso): «Bisogna rieducare al riso i nostri figli, al riso più smodato e più insolente, al coraggio di ridere rumorosamente». Non esprime neppure il languore dei crepuscolari sostituendo lo scherzo al sospiro. Più che all’esaltazione della macchina e della velocità, a Palazzeschi interessano soprattutto la carica demistificatoria del riso e il sovvertimento dei canoni tradizionali attraverso il gioco e il paradosso dissacrante (come si vede bene nel “manifesto” di poetica E lasciatemi divertire). La poesia Chi sono? compare per la prima volta nella raccolta Poemi del 1909 e costituisce un ottimo identikit del profilo poetico di Palazzeschi, in cui il verso libero si fa lo strumento con cui ribaltare l’immagine tradizionale del letterato-poeta per contrapporgli quella di un poeta-giocoliere, un “saltimbanco” che, tuttavia, non priva di valore l’espressione poetica, ancora in grado «mettere una lente» sul cuore dell’uomo. Palazzeschi, che in Francia ha incontrato poeti del calibro di Apollinaire, smentisce la figura del poeta-vate e prende nettamente la strada dell’ironia.
Chi sono?
Son forse un poeta?
No, certo.
Non scrive che una parola, ben strana, la penna dell’anima mia:
“follia”.
Son dunque un pittore? Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell’anima mia:
“malinconia”.
Un musico, allora? Nemmeno.
Non c’è che una nota
nella tastiera dell’anima mia:
“nostalgia”.
Son dunque… che cosa? Io metto una lente davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia.
(Poemi 1909)
Buona lettura a tutte e a tutti
Eccoci alla lettura della rivista di oggi. Cominciamo, come sempre, con la donna di Calendaria, descritta nell’articolo Isala Van Diest, la prima medica belga, che è stata vicina al femminismo inglese e ha combattuto la tratta e la prostituzione. Continuiamo con le nostre serie: La donna nel Rinascimento. Impegno culturale e rivendicazioni femministe ci racconta che in quest’epoca «una minoranza femminile, da considerarsi un’élite, riesce in certo qual modo a emanciparsi ritagliandosi un proprio spazio di libertà nell’ambito della cultura, sia essa letteratura, arte o scienza». Elisa Cappelli: un’insegnante in viaggio è la puntata di questa settimana di Viaggiatrici del Grande Nord, che ci racconta di una donna dedita all’insegnamento, alle traduzioni di testi pedagogici innovativi e alla formazione dei e delle docenti, che nel resoconto di un suo viaggio in Svezia ha modo di raccontare una società paritaria. Le passeggiate toponomastiche meditative proseguono con Pavia. Via suor Benedetta Cambiagio, o sull’importanza dell’istruzione, che affronta lo spinoso tema degli effetti della dad sulle nuove generazioni. Per Fantascienza, un genere (femminile). Annalee Newitz l’autrice di questa serie si cimenta con le questioni grammaticali di genere per raccontare una scrittrice arrivata in età matura alla science fiction le cui opere di critica al sistema capitalistico sembrano essere particolarmente interessanti. Per gli anniversari in questo numero ricordiamo la nascita di un grande leader politico nell’articolo Enrico Berlinguer. L’arte del coraggio, in cui si mettono in luce le sue prese di posizione nei confronti dell’Urss e la sua grande modernità e lungimiranza nella comprensione delle istanze dei giovani, dei problemi delle donne e dell’importanza della questione morale. Questa settimana ricorre anche il trentennale della strage di Capaci e un articolo Trent’anni – 23 maggio 1992 ore 17:56:42 , la ricorderà raccontandoci la vita e la carriera di uno dei giudici più preparati e coraggiosi che si sono battuti contro la mafia, lasciandoci pagine indimenticabili per imparare a riconoscerla. Ancora di Rinascimento ma per presentare una Mostra e una serie di eventi ad essa collegati, insieme ad altri suggerimenti culturali fiorentini, tratta l’autrice di Donatello, il Rinascimento in mostra a Firenze.
Nella Sezione Le Storie Quelle strane disgrazie è il racconto di un soggiorno in un ostello dell’Appennino, che offre alla viaggiatrice una serie di spunti e riflessioni sulla vita e sulla sorte delle donne.
«La dislessia non è una porta murata, ma una porta chiusa a doppia mandata. Per aprirla bisogna trovare la chiave giusta». Ce lo ricorda l’autrice di Dsa e allora?! Donne da cui prendere esempio che ripercorrerà in chiave femminile le difficoltà e i successi delle persone a cui è diagnosticato un disturbo specifico dell’apprendimento.
Le donne e la Formula 1 ci presenterà invece le pioniere di motorsport, sottolineando le poche presenze femminili nelle gare di Formula 1. Le recensioni di questa settimana sono due: Libere sempre di Marisa Ombra, una lunga lettera di una partigiana di 87 anni e a una giovane adolescente ricca di spunti e di riflessioni; ed Eclissi di Costituzione di Tomaso Montanari, che racconta in Un libretto corsaro di critica radicale i molti tradimenti della nostra Carta fondamentale perpetrati da questa strana formula di governo con l’invito a ciascuno e ciascuna di noi ad esporsi per denunciarli. Chiudiamo, come sempre con una ricetta appetitosa: Crema di patate e frutti di mare, augurando a noi tutti e tutte buon appetito.
SM
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Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.