Giovanni Falcone: «Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta la dignità umana».
La parola “mafia” mi incute grande sgomento, ero una ragazzina quando per la prima volta sentii parlare di questa associazione criminosa, sorta in Sicilia sotto il regno borbonico e sviluppatasi poi a livello internazionale; ancora oggi persegue i propri interessi in modo illecito.
L’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso furono difficili per la città di Palermo, che si sporcò di centinaia e centinaia di vittime, tanto che questo periodo fu definito “seconda guerra di mafia”; all’interno della più malavitosa organizzazione avvennero delle spaccature irrimediabili che divisero le fazioni. Tra le vittime vi furono anche esponenti delle istituzioni italiane. Il giudice Rocco Chinnici, per porre fine a questa problematica, pensò di istituire un gruppo di giudici istruttori specializzato: un vero e proprio pool che, ispirandosi alla Procura di Torino, si occupasse delle indagini applicando la stessa metodologia d’investigazione utilizzata nella lotta al terrorismo cui dava ottimi risultati. Tra i giudici coinvolti c’erano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Giovanni Falcone nasce a Palermo il 18 maggio 1939, terzo figlio, dopo le sorelle Anna e Maria; il padre Arturo, medico e direttore del Laboratorio provinciale d’igiene e profilassi, la madre Luisa Bentivegna, casalinga. Cresciuto nel rione della Kalsa, antico quartiere di origine araba nel centro storico della città. A cinque anni inizia la scuola elementare al Convitto nazionale, ma in famiglia ha foggiato la sua personalità: l’intransigenza, il senso del dovere e lo sport, lo guideranno nella vita. Gli studi, dopo le scuole obbligatorie, li ha continuati al liceo classico Umberto I, dove si è appassionato allo studio critico della storia, guardando sotto un’ottica diversa le dinamiche sociali.
Completati gli studi superiori, entra all’Accademia navale di Livorno, da dove è stato trasferito allo Stato Maggiore per le sue inclinazioni al comando, ma proprio lì ha scoperto che la vita militare non faceva per lui, iscrivendosi alla facoltà di giurisprudenza, dove ha intuito che la magistratura era il suo percorso di vita. Durante gli studi, si è dedicato anche allo sport: atletica, ginnastica, canottaggio e nuoto, sua passione, che è riuscito a mantenere fin quando la vita blindata a cui è stato costretto glielo ha impedito.
Nel 1962 ha sostenuto il concorso in magistratura e in quello stesso anno ha conosciuto la moglie, Rita Bonnici.
La prima parte della sua carriera si sviluppa lontano dalla sua città: il suo primo incarico, nel 1965, è come pretore a Lentini in provincia di Siracusa, dove rimane fino al 1967; trasferito a Trapani, perfeziona la sua cultura giuridica e politica. È in questa città che avverrà il primo incontro con i clan e con un capomafia: Mario Licari; in seguito dirà di lui «mi imbattei in un boss di rango. Era Mariano Licari, un patriarca trapanese. Lo vidi in dibattimento, in Corte d’Assise. Era sufficiente osservare come si muoveva per intravedere subito il suo spessore di patriarca».
Alla fine il processo di Licari, fu trasferito in altra sede, per il cavillo della legittima suspicione, la ricusazione di una Corte ritenuta dagli imputati “prevenuta”, tanto da alterare lo stato delle cose per il suo svolgimento, per cui Trapani non poteva giudicare la sua mafia; per Falcone questa fu una sconfitta della giustizia. Nel carcere di Favignana come giudice di sorveglianza, il giovane magistrato, per la prima volta, rischia la vita: un terrorista appartenente ai nuclei armati proletari lo prende in ostaggio puntandogli un coltello alla gola e, in cambio del rilascio, pretende e ottiene di fare delle dichiarazioni alla radio.
Falcone nel 1978 chiede il trasferimento a Palermo ed è assegnato alla sezione fallimentare. Separatosi nel 1979 dalla moglie, approda alla giustizia penale e da questo momento inizia per lui l’avventura professionale e il sentimento di solidarietà umana della sua vita. Il suo rientro a Palermo non cambia solo professionalmente ma anche affettivamente, infatti qui conosce Francesca Morvillo (1945-1992), magistrata e accademica: si innamorano e si sposano nel 1986.
Morvillo è cresciuta con la passione per la toga, il padre Guido e il fratello Alfredo erano magistrati, proprio Alfredo lavorò con Falcone; si è laureata in Giurisprudenza con il massimo dei voti e la lode con una tesi su Stato di diritto e misure di sicurezza.
Nel corso della sua carriera ricopre le funzioni di giudice del tribunale di Agrigento, di sostituta procuratrice della Repubblica presso il tribunale dei minorenni di Palermo, di consigliera della Corte d’Appello, di docente in Legislazione del minore alla Facoltà di medicina e chirurgia di Palermo, presso la Scuola di specializzazione in pediatria.
Nel periodo in cui Falcone viene trasferito a Roma, Francesca Morvillo è parte della Commissione per il concorso di accesso in magistratura. I due sono molto innamorati, entrambi forti, non si allontanarno mai, condividendo difficoltà e rinunce: anche lei è vittima nell’attentato di Capaci che ha ucciso il magistrato e la sua scorta. La Presidenza della repubblica, nel conferire la medaglia d’oro al valor civile, ricorda Francesca Morvillo con queste parole: «Pur consapevole dei gravissimi pericoli cui era esposto il coniuge, gli rimaneva costantemente accanto sopportando gli stessi disagi e privazioni, sempre incoraggiandolo ed esortandolo nella dura lotta intrapresa contro la mafia. Coinvolta insieme al magistrato, in un vile e feroce agguato, sacrificava la propria esistenza, coniugando ai forti sentimenti di affetto, stima e rispetto verso il marito, la dedizione ai più alti ideali di giustizia».
Il pool creato da Chinnici inizia a dare i suoi frutti, nel maggio 1980 ha inizio l’inchiesta sui contatti siciliani del banchiere Michele Sindona e sul narcotraffico siculo-americano. Falcone comincia a leggere i documenti delle indagini e presto si rende conto di essersi imbattuto in un’inchiesta di enorme pericolosità che da Cosa nostra palermitana attraversa il mondo politico-finanziario di Michele Sindona, arrivando al gruppo legato all’imprenditore italo-americano Rosario Spatola negli Stati Uniti. Da ciò comprende che è necessaria una nuova coscienza per consolidare le indagini e cercare altre prove, come gli accertamenti patrimoniali sulla consistenza economica dei boss. Recatosi negli Stati Uniti, apre un canale di considerevole proporzione con il Federal bureau of investigation (Fbi) e i colleghi americani; mette insieme le informazioni ottenute dalla scoperta di qualche raffineria a Palermo e Trapani, gli spostamenti di chimici marsigliesi, contrabbandieri e i sequestri di grandi quantità di eroina in Sicilia, Milano e New York.
La sua grande capacità tecnica e la procedura di ricercare con cura ogni indizio gli consentono di superare il segreto bancario. Ottiene la collaborazione di istituti di credito e finanziarie, sia nazionali che internazionali, permettendogli di riconoscere i contorti raggiri di denaro che serviva a pagare la merce; scopre che i proventi di queste attività criminose erano investiti in attività lecite, dopo averli “ripuliti” attraverso le banche. Tutto ciò lo espone molto di più, tanto che quello stesso anno gli viene assegnata la scorta. Il processo “Spatola” si conclude con condanne esemplari, ma la reazione non si fa attendere: il 29 luglio 1983 una Fiat 126 verde, imbottita con 75 kg di esplosivo parcheggiata davanti all’abitazione di Rocco Chinnici, in via Federico Pipitone a Palermo, esplode uccidendo lo stesso Chinnici, la sua scorta e il portiere del suo condominio.
Al suo posto subentra il giudice Antonino Caponnetto, che persegue con coraggio ciò che aveva iniziato il collega, credendo fortemente nelle competenze di Falcone.
Il pool antimafia, composto da varie figure istituzionali di grande spessore, sostituisce il tipo di indagine, effettuato fino ad allora, frammentato con un’équipe che condivideva le informazioni, in modo da mettere insieme le dinamiche e le strategie di Cosa nostra.
Alla fine del 1984 l’impegno e i risultati ottenuti, gli permettono di arrestare Vito Ciancimino, sindaco di Palermo, con l’accusa di associazione mafiosa ed esportazioni di capitali all’estero; pochi giorni dopo vengono arrestati gli esattori di Palermo Nino e Ignazio Di Salvo: la città osserva attonita e Giovanni Falcone diviene il simbolo di una Sicilia che inizia a cambiare. Ancora una volta la mafia reagisce uccidendo il 28 luglio 1985 il commissario Beppe Montana, amico e braccio destro di Ninni Cassarà, componente della polizia italiana e stretto collaboratore di Falcone e di tutto il pool. Qualche giorno dopo, il 6 agosto, Cassarà, rientrando dalla questura nella sua abitazione di via Croce Rossa, scortato da due agenti, scende dall’auto per raggiungere il portone della sua abitazione e quando un gruppo di nove uomini, appostati sulle finestre e sui piani dell’edificio di fronte, spara sull’Alfetta con fucili mitragliatori d’assalto, rimangono uccisi un agente della scorta e lo stesso Cassarà, tra le braccia della moglie che aveva assistito all’agguato dal balcone della loro abitazione.
Falcone è sempre più in pericolo, infatti Caponnetto viene informato dal carcere che è partito l’ordine di uccidere Falcone e Borsellino, i due giudici che hanno il compito di scrivere la sentenza di rinvio a giudizio del Maxiprocesso; i giudici vengono trasferiti all’Asinara, un’isola sarda che ha ospitato, fino alla fine degli anni Novanta, un carcere di massima sicurezza. I due magistrati, assieme alle famiglie, per alcune settimane si trovano a vivere da reclusi; rientrano a Palermo dopo un mese per consultare alcuni documenti custoditi in cassaforte e completare il lavoro. A novembre del 1985 il pool deposita il rinvio a giudizio contro 475 imputati e il 10 febbraio 1986 inizia il Maxiprocesso, il più importante traguardo del pool antimafia: ventidue mesi di udienze svolte in un’aula bunker costruita appositamente, in grado di resistere anche ad attacchi missilistici e di dimensioni tali da contenere il gran numero di imputati. Il 16 dicembre 1987 il Presidente della Corte d’Assise, Alfonso Giordano, legge la sentenza: i magistrati, il pubblico ministero, i giudici popolari e centinaia di avvocati rimangono in piedi diverse ore per ascoltare il lungo elenco delle condanne. L’“astronave verde”, così definita dai giornalisti di tutto il mondo l’aula bunker per il colore delle pareti delle celle, diventa l’emblema dello Stato e della Sicilia.
Palermo, l’Italia scoprono come diceva Falcone che: «La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà una fine». Confermata la tesi di Falcone: “Cosa nostra è un’organizzazione unitaria e verticistica”, avvalorata da Tommaso Buscetta al maxiprocesso, nato a poche centinaia di metri dalla Piazza della Magione, in cui era cresciuto Falcone, ed è proprio l’ex boss a condurlo per mano nel labirinto di Cosa nostra. «Prima di lui non avevo, non avevamo, che un’idea superficiale del fenomeno mafioso – scrive Falcone nel libro Cose di Cosa nostra –. Ci ha fornito una chiave di lettura sulla struttura, sulle tecniche di reclutamento, sulle funzioni e soprattutto una visione globale ampia, a largo raggio del fenomeno. Una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice. È stato per noi come un professore di lingua che ti permette di andare dai turchi senza parlare a gesti». Le indagini del pool permettono così di ricostruire l’organigramma mafioso, svelando traffici illeciti e individuando i responsabili di 120 omicidi.
Dopo 349 udienze la corte si ritira in camera di consiglio, uscendone con il verdetto 35 giorni dopo: 346 le condanne, 114 le assoluzioni, 19 ergastoli e 2265 anni di carcere a capimafia, “colonnelli”, gregari e picciotti. Anche stavolta la reazione del successo non si fa attendere: Caponnetto va in pensione e tutti si aspettano che Falcone prendesse il suo posto all’Ufficio Istruzione, d’altronde era considerato un erede naturale, ma il Consiglio superiore della magistratura non la pensa così, tanto che viene nominato Antonino Meli, un magistrato di vecchia scuola che non condivide il metodo Falcone, a tal punto che smantella il pool, distribuendo i processi in vari uffici, facendo perdere il filo conduttore e rendendoli incomprensibili.
Da questo momento, per Giovanni Falcone comincia un periodo molto difficile, accusato di falsità espresse in lettere anonime inviate alle istituzioni, passate alla storia come le lettere del “corvo”. Il 20 giugno 1989 scampa a un attentato nella villa all’Addaura: un borsone con cinquanta candelotti di dinamite posto sulla scogliera, dove solitamente faceva il bagno, viene trovato per caso da un agente della scorta. “Menti raffinatissime” afferma il giudice, una manovra perfetta per far credere che il movente fossero le lettere diffamatorie del “corvo”. Dopo l’attentato, su interessamento diretto del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, Falcone è nominato dal Consiglio superiore della magistratura Procuratore aggiunto di Palermo. Il “corvo” intanto continua ad avvelenare il clima del Palazzo di Giustizia e, malgrado sia sempre più isolato, Falcone continua; così come l’amico e collega Paolo Borsellino.
Giovanni Falcone nel 1988 collabora con Rudolph Giuliani, procuratore distrettuale di New York nell’operazione Iron Tower, inchiesta che smantella due famiglie mafiose, quella dei Gambino e degli Inzerillo, coinvolte nel traffico di eroina; nel 1990 coordina un’indagine facendo arrestare trafficanti colombiani e siciliani. Il clima sempre più ostile del Palazzo accresce il rapporto teso con il procuratore Pietro Giammanco che sistematicamente ostacola il suo lavoro; Falcone si rende conto di essere stato lasciato solo e di non riuscire più a lavorare a Palermo.
È allora che decide di accogliere la proposta del ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli, ovvero di ricoprire il ruolo di direttore degli affari penali al Ministero, per contrastare con una più incisiva azione il fenomeno della criminalità organizzata; per dare un segno tangibile e assicurarsi una collaborazione qualificata e competente sotto il profilo tecnico, la scelta su Falcone è considerata la migliore. S’insedia a novembre del 1991, semplificando e razionalizzando il rapporto tra pubblico ministero e polizia giudiziaria; istituisce un coordinamento tra le varie procure con esclusive competenze di contrasto alla mafia direttamente dai capi degli uffici, al fine di garantire la circolazione delle notizie su tutto il territorio nazionale; suggerisce la costituzione di un ufficio centrale nazionale che prende il nome di Direzione nazionale antimafia, nota come Superprocura. Non appena Falcone viene candidato a questo nuovo ufficio, si ripete il copione, con l’ostilità di molti colleghi che lo accusano di volersi ritagliare uno strumento di potere sulla sua persona. Si susseguono tanti i provvedimenti legislativi; tra i più significativi: limitare l’uso del contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenire l’utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio; le misure urgenti per lo scioglimento dei consigli comunali, provinciali e degli organi di altri enti locali, conseguente a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso; introdurre una incentivazione premiale alla collaborazione di associati alle organizzazioni di tipo mafioso e della criminalità, dapprima chiuse dal muro dell’omertà.
Data importante per le vite di Falcone e Borsellino è il 30 gennaio del 1992, quando la Cassazione riconosce valido l’impianto accusatorio della sentenza di primo grado del Maxiprocesso; vengono ripristinati gli ergastoli e le condanne per boss e gregari annullati in Appello. È adesso che Totò Riina condanna a morte Giovanni Falcone. L’apice del successo segna l’inizio della fine della vita del giudice, che pur sapendo da anni di avere un conto aperto con Cosa nostra, non viene fermato da nulla, sacrificando la propria vita per combattere questo fenomeno terribile così come diceva Falcone, lasciandoci impressa la sua eredità morale e professionale.
Il 23 maggio del 1992 Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani rimangono uccisi dalla mafia a Capaci, lungo l’autostrada che da Trapani porta a Palermo, dopo che erano atterrati all’aeroporto di Punta Raisi con un volo diretto da Roma.
Un aneddoto viene sempre ricordato quando si parla dell’“attintatuni”: colui che pigiò il tasto per far saltare i 100 kg di tritolo è stato Giovanni Brusca che, come ha raccontato dopo, ebbe un attimo di esitazione, avendo notato le auto di scorta rallentare a vista d’occhio: alla guida della Croma c’è lo stesso Falcone con a fianco la moglie e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza gli sta ricordando che avrebbe dovuto restituirgli le chiavi dell’auto, allora Falcone cerca di dargliele, ma l’autista gli chiede di reinserirle per evitare il rischio di incidente. Dopo questo rallentamento, Brusca attiva il radiocomando che causa l’esplosione. La prima blindata del corteo viene investita in pieno dall’esplosione e sbalzata dal manto stradale in un giardino di olivi ad alcune decine di metri di distanza, oggi Giardino della Memoria Quarto Savona Quindici, uccidendo sul colpo gli agenti Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo; la seconda Croma, guidata da Falcone, si schianta contro il muro di asfalto e i detriti, innalzatisi per via dello scoppio, proiettano violentemente il giudice e la moglie contro il parabrezza. Falcone muore durante il trasporto in ospedale, la moglie in ospedale, l’unico superstite della Croma bianca è proprio l’autista.
Ricordo perfettamente quel pomeriggio, non lo dimenticherò mai, ero in auto e stavo percorrendo lo svincolo di via Belgio, avevo appuntamento con un’amica per andare al cinema; improvvisamente gli elicotteri delle forze dell’ordine iniziano a sorvolare il cielo azzurro di Palermo, il frastuono delle sirene della polizia, dei carabinieri e delle ambulanze irrompono in quel sereno pomeriggio: si immettono in autostrada direzione aeroporto; subito penso che sia caduto un aereo, ma la musica della radio viene interrotta da un comunicato: c’è stato un attentato in autostrada al giudice Giovanni Falcone e alla sua scorta. Rimango così sconvolta dalla notizia, che spero sia un errore, ma tutto viene confermato e non riesco più a fare nulla. Tutto si ferma.
Dopo questo attentato la città si svegliò e scese in piazza per gridare forte il suo NO alla mafia, riunendosi sotto la casa di Falcone dove si trova il Ficus macrophilla columnaris magnolioides, l’albero sempreverde divenuto simbolo di rivolta e riscatto; negli anni sono stati appesi tantissimi messaggi, una sorta di luogo dove ci si reca laicamente per continuare a dire NO alla mafia. Nel 2005 è stato designato albero monumentale di interesse nazionale.
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Articolo di Giovanna Martorana

Vive a Palermo e lavora nell’ambito dell’arte contemporanea, collaborando con alcuni spazi espositivi della sua città e promuovendo progetti culturali. Le sue passioni sono la lettura, l’archeologia e il podismo.
Come dimenticare quelle stragi. Buona ricostruzione della vita di Falcone. Grande magistrato!
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