La donna nel Seicento, soprattutto se aristocratica o borghese, non è libera. Se si sposa, deve unirsi all’uomo che le hanno scelto i genitori. Se rinuncia al matrimonio, si deve fare monaca. Insomma o la famiglia o il convento.

Il XVII secolo eredita dai secoli precedenti la piaga sociale più grave, la più grande violenza psicologica che si possa fare a una donna: la monacazione forzata. Il caso più famoso: la Monaca di Monza, al secolo la contessa Marianna de Leyva, divenuta suor Virginia, nata a Milano nel 1575 e qui morta nel 1650, costretta dal padre a entrare in convento a tredici anni, resa universalmente celebre dal Manzoni nei Promessi Sposi.
Perché le donne, soprattutto le nobili, sono costrette a farsi monache? Perché il patrimonio, l’insieme dei beni di famiglia, casa e terreni, unico e indivisibile, deve passare in eredità tutto e solo al figlio primogenito, non deve essere diviso tra più eredi, proprio per salvaguardare e mantenere intatto il patrimonio. La monacazione forzata è durata fino alla fine dell’Ottocento (vedi Storia di una capinera di Verga, romanzo del 1871 che ha per protagonista Maria, costretta a entrare in convento all’età di sette anni e a restarvi per tutta la vita come monaca di clausura).
C’è nel Seicento, precisamente a Venezia, una donna che con estremo coraggio denuncia apertamente e senza peli sulla lingua il dramma delle monache forzate perché lo vive sulla sua pelle. Questa donna, eroina e martire della libertà, si chiama Elena Cassandra Tarabotti. Nasce nella città lagunare nel 1604, muore a 48 anni nel 1652. È la prima di sei figlie femmine, ha anche cinque fratelli maschi. Secondo il padre, non è bella, ha un difetto fisico, nessuno la sposerà, non è donna da marito. Il suo destino è segnato: nel 1617, a tredici anni, contro la sua volontà viene chiusa nel convento benedettino di Sant’Anna dove prenderà i voti perpetui con il nome di suor Arcangela. Il convento sarà la sua prigione, il suo carcere per 35 lunghissimi anni. Le mura del monastero saranno la sua tomba da viva. Sfoga tutte le sue frustrazioni in sei libri con cui dà voce a tante donne sue consorelle sepolte vive come lei che vivono lo stesso calvario, una via crucis vita natural durante. I titoli dicono tutto: La tirannia paterna, La semplicità ingannata, L’Inferno monacale, Il Paradiso monacale. Lei condanna con estrema durezza il padre-padrone che le ha tolto la libertà: il padre non ha il diritto di decidere il destino delle figlie. Elena, unica monaca femminista della storia, rivendica la dignità della donna e condanna le disuguaglianze di genere.

«Se quando nasce una figliuola al padre,
la ponesse col figlio a un’opra uguale,
non saria nelle imprese alte e leggiadre
al frate inferior né disuguale;
[non al frate inferior né disuguale]
se la ponesse fra l’armate squadre
seco o a imparar qualch’arte liberale:
ma perché in altri affar viene allevata,
per l’educazion poco è stimata».

Musica in convento
Se il padre trattasse maschi e femmine allo stesso modo, le donne dimostrerebbero di non essere in nulla inferiori ai fratelli. Ma alle figlie femmine viene negata l’istruzione, lo studio, la cultura. E infine la libertà di essere se stesse. «Dio non vuole – dice suor Arcangela – il sacrificio di vergini rinchiuse a forza» e la «verginità del corpo imprigionato con la contrazione del cuore vagante». Condanna la stessa società veneziana che non fa nulla per impedire il sacrificio delle vergini. Invece, le donne sono più libere fuori d’Italia e possono farsi una cultura.
«L’infelici monache, quando si sono lasciate condur nella carcere d’un chiostro infernale per loro, non dalla voce dello Spirito Santo, ma dalle fallaci promesse e da gl’astutti inganni de’ tiranni parenti, all’hora che la speranza è inaridita, s’avveggono esser prese alla rete».
Poche donne si fanno monache per fede. Alcune preferiscono entrare in convento pur di non sposarsi con un uomo imposto dalla famiglia. Altre lo fanno per avere un tetto e un vitto sicuro, e anche protezione e istruzione.

In genere le donne si sposano molto giovani. Però sono costrette a prendere per marito l’uomo che viene scelto loro dai genitori. Ecco un’altra piaga sociale, un’altra violenza contro il genere femminile. Nel Seicento non è la donna che sceglie il futuro consorte, lo sposo glielo scelgono il padre e la madre. Non esiste il matrimonio d’amore, ma solo di interesse e di convenienza. Il matrimonio viene combinato, è un vero e proprio contratto tra due famiglie. A volte sono combinati dalle famiglie quando gli sposi sono ancora piccoli: spesso viene scelto il futuro marito a una bambina che ha appena quattro o cinque anni.

La donna maritata deve essere una buona moglie, una buona madre, una buona donna di casa. Sa leggere e scrivere, conosce le arti domestiche (filare, cucire, tessere, cucinare e governare la casa), ha una buona educazione religiosa, insomma è tutta casa e chiesa, l’immagine stereotipata della donna “angelo del focolare”.
I momenti di svago e di ricreazione – parliamo sempre delle nobili – si svolgono in casa, tra familiari e parenti. Uomini e donne si riuniscono separatamente, si usa così fin dagli anni dell’infanzia. Stanno insieme solo in occasione di feste o di ricevimenti ufficiali, molto fastosi. Poi ci sono le cerimonie e le funzioni religiose.

In Francia le dame aristocratiche hanno una vita sociale molto più intensa che non in Italia. Le gentildonne dei salotti francesi conversano liberamente dei più svariati argomenti, si confrontano e discutono con gli uomini di morale, di religione, di filosofia, di costumi. A Parigi, nel salotto della marchesa di Rambouillet, si riuniscono le cosiddette Précieuses, le Preziose, dame sofisticate e artificiose, che fanno sfoggio di cultura e di eleganza, raffinatissime nel vestire, affettatissime nei gesti e nel parlare.
Le donne del popolo e le contadine sono relativamente più libere. Però, anche nelle famiglie povere i genitori costringono spesso le figlie a farsi monache per un altro motivo: perché non hanno i soldi per dare loro sia pure un minimo di dote; infatti una donna che si sposa è obbligata a portare la dote, che varia a seconda della ricchezza della propria famiglia.

Parigi, Louvre, 1670 circa

Le popolane aiutano i maschi nel lavoro dei campi; è un lavoro durissimo, che dà pochi guadagni e, in tempi di carestie e di guerre, non riesce a sfamare la numerosa prole. Le donne raccolgono il fieno, sarchiano la terra, tosano le pecore, raccolgono il lino e la canapa, e poi la filano e la tessono. Coltivano l’orto, vendono le verdure e gli ortaggi, badano alle vacche, mungono il latte, preparano burro e formaggio, curano la stalla e il pollaio con gli animali da cortile. Un’attività esclusivamente femminile è l’allevamento dei bachi da seta, un lavoro che proprio nel XVII secolo diventa molto importante.


(1670–71 circa), National Gallery
of Ireland a Dublino
Le donne povere, oltre ai lavori domestici, lavorano anche fuori per guadagnarsi da vivere. Molte fanno le serve nelle case delle famiglie nobili, alcune vi restano per tutta la vita. Altre lavorano a giornata come bambinaie, lavandaie, filatrici e operaie tessili nelle fabbriche di stoffe.
Le donne hanno un minimo di autonomia in qualche settore: acquistano e gestiscono negozi, pagano le tasse, svolgono mestieri che solo oggi riteniamo adeguati anche a una donna: troviamo maestre, farmaciste, mediche, miniaturiste, rilegatrici di codici, ecc.
La durata della vita è bassa, in media 45 anni. Si mangia poco e male, a causa delle guerre e delle carestie, i viveri scarseggiano. Sotto il profilo alimentare il secolo barocco è uno dei più poveri. Molte donne muoiono di malattia, per denutrizione o per parto. Come sempre, c’è una grande differenza tra l’alimentazione dei nobili e quella dei poveri. La carne, il manzo, gli arrosti, il pesce di mare fresco, difficile da reperire e da trasportare, perché facilmente deperibile, sono cibi costosi, riservati alle tavole dei ricchi. Così anche il tè e il caffè che diventano popolari in Europa insieme allo zucchero, usato indifferentemente sia per preparazioni dolci che salate. Sulle mense del popolo si trovano di più le carni ovine e il pesce conservato: aringhe affumicate, carpe salate o essiccate e merluzzo, stoccafisso e baccalà.
Le condizioni igienico-sanitarie sono pessime, di qui tante malattie infettive: tifo, tubercolosi, vaiolo. Nel Seicento si hanno due terribili epidemie di peste: nel 1630, quella divenuta celeberrima per l’accurata descrizione che ne fa Manzoni nel suo romanzo, e l’altra nel 1656. In entrambe muore più del 50% della popolazione, un vero collasso demografico in tutta Europa.

Nei primi anni del Seicento la Spagna detta ancora legge in fatto di moda. L’abito ha una linea geometrica a forma di due coni: il corsetto è strettissimo e attillato, la gonna, detta verdugale, è molto ampia e rigida. Si usa un colletto di merletto increspato, rigido e inamidato, a forma di nido d’ape e di ruota: la gorgiera (dal francese gorge, gola). Intorno al 1630 la gorgiera è sostituita da grandi colli piatti di lino che ricadono morbidamente sulle spalle.


Alla moda spagnola subentra quella francese. La splendida corte di Parigi diventa il centro della moda europea. L’abito femminile, più sciolto e meno rigido, comprende un corpetto attillato con ampia scollatura, una sottoveste e una veste di diverso colore, con o senza strascico.
Le dame veneziane, influenzate dalla moda francese, sfoggiano vestiti scollati con corpetto stretto alla vita e gonne rigonfie a campana. Ai piedi indossano zoccoli con tacchi altissimi fino a 30 o 40 centimetri, chiamati calcagnini o calcagnetti, e per camminare si fanno sorreggere da due ancelle.


La bionda Maria de’ Medici, andata sposa al re di Francia Enrico IV, si fa ammirare con la testa meticolosamente arricciata. Alla corte di Luigi XIII va di moda una frangetta, detta garcette: ai lati della testa i capelli sono raccolti sulle orecchie e inanellati a sboffi, mentre la massa è racchiusa sulla nuca in una maestosa crocchia.
Altrove le fogge sono diverse. Sulla testa delle principesse spagnole si innalzano spettacolari architetture a forma di elmo. In Olanda si usano le cuffie. In Lombardia le spose si pettinano come Lucia descritta da Manzoni nel suo capolavoro: «I capelli, spartiti sopra la fronte e raccolti dietro il capo in cerchi molteplici di trecce trapassate da lunghi spilli d’argento che si dividevano all’intorno quasi a guida dei raggi di un’aureola».


Nella Francia del Re Sole, dal capo delle dame scendono lunghe ciocche arricciate che a volte sono sottili e sinuose come serpenti. Alla salottiera marchesa di Sévigné piace cambiare testa: dai capelli, rigonfi a palloncino sulle orecchie, pendono curiosi cavaturaccioli. La nuova pettinatura in suo onore si chiama “alla Sévigné”. Più tardi un’altra dama, la marchesa di Montespan, conquista il cuore di Luigi XIV: aggiunge fra i capelli grosse perle per dare l’idea del firmamento in una notte stellata. La nuova favorita del re, la marchesa di Maintenon, porta i capelli “à la hurluberlu” con le ciocche arricciate a cavolfiore e due lunghi tortiglioni che ricadono sulle spalle, le passagères.



Un giorno, per caso un’altra favorita del sovrano, madame de Fontanges, si scapiglia durante una battuta di caccia; si sfila una giarrettiera ornata di pizzi e nastri e si lega i capelli alla bell’e meglio. È il 1678. Al re l’acconciatura improvvisata piace tanto che la fontange, così chiamata in onore della dama, diviene moda di corte per ben trentacinque anni e si diffonde anche in Italia con il nome di cresta. In realtà, diventa un’acconciatura molto elaborata e complessa, formata da un’alta cuffia di tulle, trine e merletti increspati a cannoncini sostenuta da un’armatura di fili di ferro che si innalza fino a venti centimetri sopra la fronte dove compaiono due simpatiche virgole, le cruches.
Di pari passo con il gusto barocco, le donne amano truccarsi, spesso si preparano da sole i cosmetici. Si preferisce il colorito pallido, simbolo di nobiltà. Per nascondere le rughe e gli inestetismi del viso si spalma abbondante cerone, ottenuto con il piombo bianco puro. Si ingrandiscono gli occhi con la belladonna o l’atropina; le sopracciglia sono sottili e scure, sulle palpebre si stende una crema blu, marrone o grigia. Per le labbra si usa un rossetto ricavato dalla cera d’api. C’è anche un rossetto a bastoncino, ricavato da una pasta semisolida a base di terra rossa seccata al sole. Va di moda la bocca piccolissima col labbro inferiore più carnoso del superiore.



Le donne aristocratiche hanno un livello medio di istruzione e di cultura. Tuttavia, ci sono alcune figure femminili di notevole valore. In primis due veneziane. Una delle primissime donne laureate al mondo è Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, nota anche come Elena Lucrezia Corner, nata nel 1646 e morta nel 1684 a 38 anni. Figlia di un nobile della Repubblica di Venezia, ha una ricca cultura, a diciannove anni diventa oblata benedettina, conosce latino, greco, ebraico, spagnolo, studia teologia e filosofia. Nel 1678, a 32 anni, si laurea in filosofia, ma poiché è donna non le è permesso insegnare.

Grande donna di cultura è la veneziana Lucrezia Marinelli (1571-1653): «standosene nella sua camera tutto il giorno rinchiusa, e attendendo con vivo spirito a gli studi de le belle lettere, vi ha fatto meraviglioso profitto», scrive uno storico. Lucrezia si occupa di letteratura, filosofia, musica. Il libro più importante, pubblicato nel 1600, si intitola Le nobiltà, et eccellenze delle donne: et i difetti, e mancamenti de gli huomini. È diviso in due parti: nella prima Lucrezia fa l’elogio delle donne; nella seconda critica i difetti degli uomini. Il suo libro è un coraggioso manifesto femminista. Le donne non sono per niente inferiori agli uomini, è l’educazione che le rende inferiori. L’autrice invita le donne a svegliarsi dal lungo sonno e a far valere i loro diritti, in pratica combattere per la parità dei sessi. «Io vorrei, che questi tali uomini facessero questa esperienza, che essercitassero un putto e una fanciulla d’una medesima età e amendue di buona natura e ingegno nelle lettere e nelle armi, che vedrebbono in quanto minor tempo e più peritamente sarebbe instrutta la fanciulla del fanciullo. E anzi lo vincerebbe di gran lunga… Il sesso donnesco, il quale è più delicato del sesso virile et anco men robusto, per non essere assuefatto alle fatiche, vien tiranneggiato et calpestato da gli insolenti et da gli ingiusti huomini… ma se le donne, come io spero si sveglieranno dal lungo sonno, dal quale sono oppresse, diverranno mansueti et umili questi ingrati e superbi uomini».

Una poetessa vissuta tra due secoli, Petronilla Paolini Massimi (1663-1726), preconizza la figura della donna militare, una soldatessa. Petronilla è una donna straordinariamente attuale, una femminista ante litteram. Vittima di un marito violento e padrone, esprime in poesia la sua infelicissima condizione di schiava e di reclusa. La donna non ha niente da invidiare agli uomini, è solo la tirannide maschile che la fa sentire inferiore. A dieci anni, nel 1673, è costretta a sposare un uomo di trentasei anni che le può essere padre. Gli dà tre figli maschi, ma il marito esercita su di lei ogni sorta di violenze e di soprusi. Alla fine si va a chiudere in un convento, preferendo il monastero a un uomo che le proibisce perfino di vedere i figli e di scrivere poesie. Entrata nell’Arcadia di Roma, adotta lo pseudonimo di Fidalma Partenide. Ritrova un minimo di serenità solo quando nel 1707 il vecchio coniuge muore, lei ha 44 anni e può finalmente riabbracciare i figli, ma nel frattempo uno è morto senza vedere la mamma. Lei si spegne a Roma nel 1726 a 63 anni. Il sonetto più famoso è un po’ il suo manifesto femminista, con il quale condanna la disuguaglianza dei sessi. La donna può fare ciò che ha fatto Clorinda, combattere ed essere in tutto uguale agli uomini. E le militari di oggi le danno ragione.
«Sdegna Clorinda a i femminili uffici
chinar la destra, e sotto l’elmo accoglie
i biondi crini e con guerriere voglie
fa del proprio valor pompa a i nemici.
Così gli alti natali e i lieti auspici
e gli aurei tetti e le regali spoglie
nulla curando, Amalasonta coglie
de’ fecondi Licei lauri felici.
Mente capace d’ogni nobil cura
ha il nostro sesso: or qual potente inganno
dall’imprese d’onor l’alme ne fura?
So ben che i fati a noi guerra non fanno,
né i suoi doni contende a noi natura:
sol del nostro valor l’uomo è tiranno».

C’è una donna, anzi una regina, che vive in pieno Seicento e sfida i suoi tempi fin dalla nascita, una donna peraltro istruitissima, ma anche modernissima, la regina Cristina di Svezia. È una regina diversa da tutte le altre, la testa coronata più libertina, originale e scandalosa di tutti i tempi. Nasce con un clitoride da uomo, che dà a tutti l’impressione che sia nato un maschietto. Figlia unica del re di Svezia, viene educata proprio come un uomo, si veste da uomo e vive come un uomo. «Da bambina provavo una vera avversione per tutto ciò che dicevano e facevano le donne. Non potevo sopportare i loro abiti stretti e vezzosi. Non mi interessava nulla del mio incarnato, del mio corpo e del resto del mio aspetto. Disprezzavo tutto ciò che mi ricordava il mio sesso… Detestavo i vestiti lunghi e volevo solo indossare gonne corte».
Nata nel 1626, sale al trono a soli sei anni, regna dal 1632 al 1654. È poliglotta, studia dieci ore al giorno, è collezionista d’arte e mecenate. Ha un sogno: fare di Stoccolma una nuova Atene. Invita a corte scienziati e scienziate, filosofi e folosofe. E fa della capitale svedese una delle corti più raffinate d’Europa. Androgina e bisessuale, scandalizza i sudditi con i suoi comportamenti, soprattutto per il grande amore che la lega alla sua dama di compagnia Ebba Sparre. A 28 anni, decisa a non sposarsi mai per tutta la vita, rinuncia al trono: «Non sopporto l’idea di essere usata da un uomo come un contadino usa i suoi campi». Si reca a Roma, da luterana si converte al cattolicesimo. Riceve comunione e cresima dal papa in persona. Nell’Urbe organizza la sua piccola corte e crea l’Accademia Reale, un cenacolo di intellettuali, letterati/e, artisti/e e musicisti/e. Muore nel 1689 e viene sepolta nella Basilica di San Pietro, seconda donna ad avere tale onore dopo Matilde di Canossa.
In copertina. Louise Moillon, La venditrice di frutta e verdura (1630). Museo del Louvre, Parigi.
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Articolo di Florindo Di Monaco

Docente di Lettere nei licei, poeta, storico, conferenziere, incentra tutta la sua opera sulla Donna, esplorando l’universo femminile nei suoi molteplici aspetti con saggi e raccolte di poesie. Tra i suoi ultimi lavori, il libro La storia è donna e le collane audiovisive di Storia universale dell’arte al femminile e di Storia universale della musica al femminile.