Nel XVII secolo i cambiamenti all’interno della società europea sono molteplici. I colpi di coda della Controriforma si concretizzano con l’emblematico evento del rogo di Giordano Bruno proprio in apertura di secolo, nell’anno 1600. Ma la strada verso una ridiscussione dei canoni ideologici tradizionali e del principio dell’Ipse dixit era stata aperta e verrà battuta da molte menti innovative (basti pensare solo a Galilei, Newton, Bacone, Cartesio). È certamente un secolo di crisi sociopolitica, teatro della Guerra dei Trent’anni e di conseguenti cambi di equilibrio – se si può dire – geopolitico, ma come ogni epoca di smarrimento, confusione e destabilizzazione, è un momento di cambiamento e rinnovamento nella storia.
Dal punto di vista letterario, lo stile barocco inonda questi anni in linea con le esperienze artistiche, tutte volte a suscitare stupore e maraviglia nel lettore come nello spettatore. Altresì, seguendo il filo della nostra riflessione e rilettura dei classici in ottica di genere, non ci si stupisce di continuare a leggere storie e immagini in cui le donne continuano a essere tradizionalmente rappresentate. Del resto, il Seicento non è stato un periodo particolarmente facile – ancor più degli altri – per le donne (ne parla diffusamente Florindo Di Monaco in questo bel contributo).
Giovanbattista Marino, in un sonetto della Lira, riprende il mito della metamorfosi di Dafne, che si trasforma agli occhi di Apollo, acceso dio, in alloro, dopo una fuga estenuante e drammatica: «Stanca anelante a la paterna riva,/qual suol cervetta affaticata in caccia/correa piangendo e con smarrita faccia,/la vergine ritrosa e fuggitiva». Ancora, nell’Adone – la cui esile trama è incentrata sugli amori di Venere e il giovane Adone – torna la metafora della rosa, che richiama sensualità e passione erotica, oltre a essere tramite di innamoramento tra i protagonisti. Nel sonetto Bella schiava il poeta sembra rompere lo stereotipo della rappresentazione della donna tipica della tradizione, ovvero dai capelli d’oro e con la pelle di colore bianco pallido: la destinataria del testo virtuosistico è, infatti, una donna nera ma schiava, serva del poeta, che (nonostante sia nera!) egli elogia come bella: «Nera sì, ma se’ bella, o di Natura/fra le belle d’Amor leggiadro mostro».


Di contro, sono diverse le donne che si distinguono nella scrittura letteraria, come Lucrezia Marinella e Petronilla Paolini Massimi (che opera perlopiù a cavallo tra Seicento e Settecento), autrici assolutamente sconosciute a scuola (e, ai miei tempi, all’università), eppure due donne di penna virtuose, in nulla inferiori ai grandi classici della loro epoca. Marinella compone un trattato sull’importanza delle donne intitolato Della nobiltà ed eccellenza delle donne, co’ diffetti e mancamenti degli uomini, ma non solo: è autrice di un poema tipicamente barocco, pubblicato ben prima dell’Adone di Marino (qual gioco della sorte i loro cognomi in paronomasia!), ovvero Amore innamorato e impazzato, la cui edizione del 1618 è dedicata a Caterina de’ Medici, in una cornice di struttura epica encomiastica al femminile (cfr. Federico Sanguineti, Per una nuova storia letteraria, Argolibri, Ancona 2022, pp. 167-169). Paolini Massimi è poeta eccezionalmente brava e val la pena ricordarla anche solo per il sonetto Sdegna Clorinda a i femminili uffici, vero e proprio manifesto della parità di genere, in cui l’autrice si identifica con la Clorinda tassiana ribadendo che non ci sono limitazioni a ciò che una donna può compiere nel mondo e nella società (il titolo stesso è emblematico), l’unico a non credere in questo è l’uomo tiranno: «Mente capace d’ogni nobil cura/ha il nostro sesso: […]/So ben che i fati a noi guerra non fanno,/[…]/sol del nostro valor l’uomo è tiranno». Ho dovuto attendere molti anni e i miei studi personali per scoprire i nomi di queste donne: mi chiedo, perché le istituzioni deputate alla cultura e all’istruzione compartecipano a processi di oblio che ci appaiono incomprensibili? Non si tratterebbe di sostituire un modello con un altro (paradigma quantomai deviante e tristemente attuale, quello della sostituzione…), bensì di far coesistere modelli differenti che concorrono allo stesso obiettivo e hanno pari valore e dignità.
Terribile, poi, la rappresentazione della donna come prostituta in un sonetto di Anton Giulio Brignole, dal titolo La cortigiana frustata, in cui l’io lirico soffre delle frustate che la donna riceve, che le inondano la schiena di gocce di sangue (grandine di rubini) ma non la privano della sua bellezza, in un testo che tende a rendere sensuali le ferite e il sangue, dunque la violenza che la donna subisce macabramente: «Sul dorso, ove la sferza empia flagella,/grandine di rubini appar disciolta;/già dal livor la candidezza è tolta,/ma men candida ancor non è men bella./Su quel tergo il mio cor spiega le piume/e per pietà di lui già tutto esangue,/ricever le ferite in sé presume./In quelle piaghe agonizzando ci langue».
Il Settecento è il secolo dell’Illuminismo, della Rivoluzione francese, della fondazione di un pensiero che apre la strada alla modernità. L’Accademia dell’Arcadia apre le porte alle poete e alle scrittrici, come la stessa Petronilla Paolini Massimi, Luisa Bergalli e Faustina Maratti, artiste straordinariamente fervide. Parallelamente, la rappresentazione del femminile comincia a risentire del cambiamento di cui è investita la società europea del tempo e, in particolar modo, la classe sociale sempre più emergente come la borghesia (ne parla ampiamente ancora Florindo Di Monaco in questo contributo).


Nel 1753 va in scena una delle commedie più famose di Carlo Goldoni, La locandiera, la cui protagonista è Mirandolina, gestora di una locanda dove passano diversi personaggi maschili che cadono letteralmente ai suoi piedi, convinti di poterla facilmente conquistare offrendole doni e protezione, tranne uno, il misogino Cavaliere di Ripafratta, inizialmente disdegnoso delle donne e di Mirandolina in particolare: «Cavaliere – neanche per questo verso vi riuscirà di far con me quello che avete fatto col conte e col marchese. […] Il cielo me ne liberi. Non voglio donne». Ma la donna sa come raggirare con garbo e seduzione la ritrosia e il disprezzo dell’uomo – seppur sempre una seduzione velata, affidata al sapiente uso delle parole e mai esplicitamente allusiva all’eros se non attraverso un continuo gioco di finzioni e simulazioni – per cui il cavaliere finisce con l’essere il più sedotto della triade maschile della commedia. Sedotto e abbandonato, perché quando al lettore sembra che l’epilogo della vicenda vada naturalmente verso una unione tra i due, giunge il finale inaspettato: Mirandolina rifiuta il cavaliere che le ha chiesto amore, compassione, pietà (ma non la mano) e accetta di sposare il cameriere Fabrizio. La figura di Mirandolina colpisce per la sua capacità di condurre i giochi e non di subirli: ci chiediamo, però, se si tratta di reale emancipazione femminile. La risposta potrebbe apparentemente essere positiva, ma a leggere tra le righe, anzi a rileggere tale straordinario classico della nostra letteratura, forse occorre andare a fondo della riflessione. La giovane locandiera conclude la sua vicenda con l’asservirsi a quello a cui l’ha destinata suo padre, ovvero sposare Fabrizio, adatto al suo rango e capace di poterla aiutare a “sistemarsi”, non riscattandosi, dunque, del tutto da una linea di orizzonte di senso patriarcale. Mirandolina ha dimostrato fierezza, audacia, senso dell’humor, in fondo ha solo giocato innocentemente come conviene a una fanciulla, ha scherzato e si è dilettata nell’arte frivola della seduzione, ma una volta maritata avrà qualcuno che la comanderà: «Sono una povera donna senza grazia, senza brio, incapace d’innamorar persone di merito.

Ma Fabrizio mi vuol bene, ed io in questo punto alla presenza loro lo sposo […]. È stato uno scherzo, una bizzarria, un puntiglio. Ero fanciulla, non avevo nessuno che mi comandasse. Quando sarò maritata, so io quel che farò […]. Signori miei, ora che mi marito, non voglio protettori, non voglio spasimanti, non voglio regali. Sinora mi sono divertita, e ho fatto male, e mi sono arrischiata troppo, e non lo voglio fare mai più». L’autore, del resto, è un uomo e ha dato alla storia di questa donna la coerente conclusione che poteva profilarsi nella sua testa. Chissà quale scelta avrebbe fatto Mirandolina se, in carne e ossa, si fosse staccata dalla pagina e avesse potuto avere vita propria, slegata dalla volontà del suo autore, in cerca di un suo finale, come un novello personaggio pirandelliano…
Siamo ancora lontani da un’idea di emancipazione seria e profonda, che tocchi le radici del patriarcato smarcando la donna dall’idea di essere completa solo se maritata e disposta ad abbandonare giochi e frivolezze. Perché si può essere don Giovanni solo con i pantaloni e non con la gonna!
Chi tenta, invece, timidamente di rovesciare la tradizionale e tramandata misoginia è Vittorio Alfieri nella satira intitolata Le donne, in cui lo scrittore piemontese, non volendosi allineare all’opinione comune, afferma che le donne sono superiori agli uomini, ma spesso ne imitano i difetti per compiacerli: «eco al volgo non faran mie carte:/dirò sol, ch’ove gli uomini son buoni,/specchio voi siete d’ogni nobil arte». Una voce timida in tal senso ma significativa.
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Articolo di Valeria Pilone

Già collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione.