La donna nel Settecento. Moda, pettinature, cosmesi

La moda femminile in stile rococò è caratterizzata da eleganza, raffinatezza e cultura con un pizzico che non guasta di capricciosità, stranezza e civetteria. Al contempo, però, si nota un desiderio di ritorno alla semplicità e alla comodità; insomma, voglia di uno stile di vita rilassato e sereno.

Corsetto femminile di moda nella prima metà del ‘700

Per tutto il Settecento due sono i capi principali dell’abbigliamento femminile: il busto e il panier. Il primo, conosciuto anche come corsetto, rinforzato con le stecche di balena, presenta un’ampia scollatura, copre tutto il torace e spinge il più possibile in alto il seno che si vuole prosperoso ed enfatizzato per accentuare la femminilità. Attillatissimo in vita, sul dietro è chiuso con una molla o con una chiave. È un vero e proprio strumento di tortura per le donne della nobiltà, che lo indossano, volenti o nolenti, fin da piccole in modo da abituarsi allo scomodo e rigidissimo indumento che, secondo le credenze dell’epoca, fa invece bene al sesso debole perché sorregge e mantiene perfettamente eretta la colonna vertebrale, ritenuta più fragile e delicata di quella maschile, e pertanto bisognosa di un sostegno.

Nel 1770 vede la luce una famosa opera di Bonnaud, La degradazione delle specie umane mediante l’uso del corpo di balena, dove si elencano i danni che il corsetto può arrecare alle donne, poiché è come una corazza che ostacola la respirazione e fa affluire sangue in eccesso alla testa.
Il panier, che ricorda nella forma un grosso cesto di pane (al quale deve il suo nome), consiste in una sottogonna rigida, ovvero un’intelaiatura di vimini fatta di più cerchi concentrici, dalle amplissime dimensioni, che nella parte più bassa possono arrivare a una circonferenza di 5-6 metri. È così largo che le signore devono passare di traverso dalle porte. Sopra il panier e il busto si porta una sopravveste (manteau), una gonna (jupe), e la pettorina triangolare, a forma di V (pièce d’estomac). Poiché è la Francia a dettare legge in fatto di moda, questa tipologia di abito viene chiamata robe a la française.

Dama con panier e pouf,
Claude-Louis Desrais, Galerie des Modes
Mary, nata Norris, con esempio di panier, Arthur William Davis, Trittico Mr Peter Ducane, 1747
Robe à la française,
1740-1760

L’attributo femminile per eccellenza, simbolo di seduzione e femminilità, è il vitino di vespa, che non deve superare i quaranta centimetri. Secondo i canoni del tempo, una bella donna deve avere un giro vita così sottile che un uomo può stringerlo fra le sue mani.

Rose Bertin, Jean-François Janinet, 1780

La sarta più nota del XVIII secolo è Rose Bertin, che veste niente meno che la regina Maria Antonietta di Francia e la maggior parte delle dame d’oltralpe. Rose, una donna dalle umili origini, nel 1770 apre a Parigi la sua boutique di moda Le Grand Mogol, dove confeziona abiti su misura per le sue clienti, le donne dell’alta nobiltà. È la forte amicizia con la sovrana che le regala un’immensa popolarità anche al di fuori dei confini francesi, è lei che sovrintende ai costumi della frivola corte di Versailles, tanto da essere chiamata ministra della moda dai suoi nemici. Le sue creazioni sono esportate in tutta Europa e Parigi diviene la capitale mondiale della moda e del lusso.

In un’epoca in cui non ci sono ancora le sfilate delle mannequins sulle passerelle, sono le bambole Pandora le ambasciatrici delle ultime novità da un capo all’altro del continente. La maggior parte sono in legno ma alcune anche di cera, ceramica o gesso, vestite con stoffe pregiate come broccato, seta o cotone. I primi acquirenti delle bambole Pandora sono le sarte e i rivenditori di stoffe, per mostrare ai clienti i loro prodotti, poi le signore della nobiltà per tenersi aggiornate e vestire all’ultima moda.
La stilista crea quasi tutti gli abiti di Maria Antonietta fino al 1792, anno in cui la regina viene detronizzata. Durante la rivoluzione, Rose Bertin emigra a Londra e qui continua a lavorare e a servire i suoi vecchi clienti, tramite gli emigrati finché nella vecchiaia si ritira a vita privata lasciando l’attività ai nipoti. Muore a 66 anni nel 1813.

Dame della corte viennese, Bernardo Bellotto, 1760, Kunsthistorisches Museaum, Vienna

A dettare i canoni estetici del Settecento sono le corti, soprattutto quella di Francia. Il francese è la lingua dei salotti, da oltralpe vengono le idee nuove in fatto di cultura, arte e moda. Di Versailles ce n’è una sola. È in magnifiche sale, tra riflessi di specchi dorarti, sfavillio di marmi e pareti tappezzate di sete e di arazzi, che una folla variopinta di gentildonne si aggira come in uno scenario di fiaba, all’insegna di una rigorosissima etichetta.
Nel parco dedicato ad Apollo, tra fragranza di fiori e cinguettii di uccelli, nella perfetta geometria di aiuole e zampilli che tritoni e delfini lanciano al cielo, dame e damigelle vivono in una magica atmosfera da sogno.

Per questa beata aristocrazia è bello godere la vita. Uno stile di condurre l’esistenza che trova la migliore espressione nel rococò, la corrente artistica che si svolge lungo tutto l’arco del regno di Luigi XV (1715-1774). Galante e frivolo, elegante e raffinato fino a sfociare nella leziosaggine e nell’affettazione, traduce una visione della vita assai più serena dell’inquieto e tormentato barocco. Amante del bello ma senza eccessi, nella moda capelli il rococò si manifesta con pettinature basse nelle quali la chioma segue garbatamente il contorno del capo, impreziosita, se si vuole, da un fiore o da morbide e lunghe ciocche che sfuggono lungo il collo, le dragonnes. È il tapé, termine che vuole indicare una cosa fatta a regola d’arte. Si adoperano ciprie profumatissime per imbiancare i capelli. Dilagano le parrucche di ogni tipo e foggia. Parrucca che viene parrucca che va… con la farina di grano o di riso che nella sola Parigi, in una giornata, viene sperperata come cipria sulle aristocratiche parrucche, tanto che si potrebbero sfamare diecimila bocche. Si sprecano più di cinque chili di cipria all’anno per imbiancare viso e capelli di una sola signora. Dilaga la moda di collezionare parrucche per cambiare testa ogni giorno o più volte nella stessa giornata. Il record è di Madame de Pompadour che ne ha più di cinquecento, comprese quelle da notte.

Tapè di inizio secolo
Tapè più strutturato di moda a metà secolo

Il paesaggio sereno e bucolico vagheggiato dalla poesia dell’Arcadia rivive nelle leziose bergères, cappelli di paglia a larga falda, annodati sotto il mento con grandi nastri colorati, ispirati dal costume delle pastorelle. Si chiamano anche pamele, dal nome della protagonista di un fortunatissimo romanzo di Samuel Richardson, che vede la luce nel 1740.
La signora s’alza dal letto, si dà un’occhiata nello specchio, ancora con la cuffia in testa va nel boudoir, il locale dove l’aspetta la quotidiana toilette mattutina. La cameriera addetta all’acconciatura sta sul chi vive.
«Ma già tuo dolce imperio
la fida ancella invita;
ella s’appressa e all’opera
stende la destra ardita.
Già dal notturno carcere
i crini aurei sprigiona
ed all’eburneo pettine
gl’indocili abbandona».

La Toilette, Pietro Longhi, Ca’ Rezzonico, 1760
La Toilette intima, François Boucher, collezione privata, 1760

Così il poeta Ludovico Savioli. La scena iniziale del secondo atto della Manon Lescaut di Puccini presenta un bellissimo interno settecentesco. Seduta allo specchio Manon, capricciosa come tante dame sue contemporanee, si prepara per un ricevimento, durante il quale dovrà esibirsi nel ballo e nel canto. Il fratello le suggerisce quali nèi scegliere.
«Dispettosetto questo riccio!
Il calamistro, presto!
presto! Or… la volandola!
Severe un po’ le ciglia!…
La cerussa!
Lo sguardo vibri a guisa
di dardo!
Qua la giunchiglia!
Il minio e la pomata!
Ed ora, un neo!
Lo sfrontato!…
il birichino!…
No?… il Galante!…
Non saprei…
Ebben… due nei!
All’occhio l’assassino!
e al labbro il voluttuoso!»
Un parrucchiere si affanna attorno a Manon, coperta fino ai piedi da un accappatoio bianco; corre di qua e di là, prende il ferro caldo, c’è ancora una ciocca da domare.

Finora, a pettinare le donne sono state sempre e solo le donne. Nel 1740, per la prima volta la mano di un uomo si immerge nelle voluminose onde di una muliebre chioma per districarla, stenderla, sollevarla, avvolgerla, fissarla. Il marito della dama è tutt’altro che geloso se affida la sua dolce metà a un lezioso damerino, alias cicisbeo, che la coccola da mattina a sera.
Un francese, il primo coiffeur di professione, Louis Champagne, apre un salone a Parigi. È il primo nella storia a pettinare le signore in un pubblico locale. Diventa ricchissimo, viaggia in tutta Europa chiamato da una corte all’altra, e spiazza per un po’ di tempo le cameriere, acconciatrici private. Con lui la Francia esporta il termine chignon (derivato dal latino volgare catenio, “anello di catena”) per indicare il nodo di capelli sulla nuca.
Anche i suoi successori guadagneranno un sacco di soldi. Un altro parrucchiere d’Oltralpe, Légros, verso la metà del secolo fonda un’accademia di acconciatura (Académie de coiffure), la prima delle centinaia e migliaia di scuole per parrucchieri che nasceranno come funghi molto più tardi, e organizza sfilate di modelle con parrucche da lui ideate. I primi acconciatori in Italia mettono piede nelle sontuose, raffinatissime dimore veneziane, per preparare degnamente le gentildonne ai balli in maschera e alle feste mondane frequentissime sul Canal grande. Uno scrittore che vive e opera a Venezia, Iacopo Vittorelli, in un apposito poemetto in ottave, Il tupé, edito nel 1772, tesse le lodi delle nuove acconciature e di chi è così bravo a realizzarle.
Le nobili matrone, a tu per tu col nuovo arrivato, il parrucchiere, si lasciano andare e diventano tutte d’un colpo allegre, spiritose, disinvolte.
Scrive Giuseppe Parini ne Il Giorno:
«… e le matrone,
che da’ sublimi cocchi alto disdgnano
volgere il guardo a la pedestre turba,
non disdegnan sovente entrar con lui
in festevoli motti allor ch’esposti
a la sua man sono i ridenti avori
del bel collo e del crin l’aureo volume».

In una commedia di Francesco Albergati Capacelli, Il saggio amico (1769), un parrucchiere, che da noi si chiama conzateste, confessa: «Alcune di queste signore non disdegnano di fare l’amore con noi, ed hanno il comodo di vederci ogni giorno poiché è pronto il pretesto di essere da noi acconciate…»

Subito dopo la metà del secolo, si nota nelle acconciature un’evoluzione che tocca il culmine quando nel 1774 Maria Antonietta diventa regina di Francia. Frivola e capricciosa, la diciannovenne sovrana trasforma tout court le aggraziate pettinature rococò nelle acconciature più voluminose ed elaborate che si siano mai viste né mai più si vedranno sulle teste femminili.
La madre, l’imperatrice d’Austria Maria Teresa, decisamente contraria a queste stravaganze, manifesta il suo disappunto in una lettera indirizzata alla figlia: «Dicono che ti pettini i capelli alti 36 centimetri, per non parlare di tutti i nastri e le piume che completano l’acconciatura. Una regina carina, piena di fascino come te, non ha bisogno di tutte codeste assurdità».

Maria Antonietta con acconciatura a pouf, Jean-Baptiste Andrè Goutier-Dagoty
Maria Antonietta pettinata à la Zephyr, incisione di Mari-Louise Adélaide Boizot, Bibliotèque Nationale de France
Maria Anotnietta in abito di corte, Elisabeth Vigée La Brun, 1779

Il pouf, che vuol dire “cuscino, imbottitura”, è l’acconciatura che le dame italiane chiamano tupé o tuppé. I capelli, tesi in alto dalle radici fin quasi a un metro dalla testa e mantenuti eretti con complicatissime armature di fili di ferro, enormi forcine e moltissima pomata, sono infarciti di piume, grossi fiocchi, gale, coccarde, perle, trine, merletti, fiori in cera, pennacchi e ghirlande di foglie. Impossibile descrivere le innumerevoli creazioni che si accavallano di anno in anno sulle nobili teste di Francia e d’Europa.

Il parrucchiere Léonard all’opera

Léonard-Alexis Autié, o semplicemente Léonard, nato nel 1751, è l’ideatore e l’inesauribile creatore di questi mastodontici e spettacolari pouf. A lui è affidato la testa femminile più preziosa del continente, il capo di Maria Antonietta, lo stesso che finirà sotto la gelida lama della ghigliottina il 16 ottobre 1793. Nelle sue mani, come in quelle di un abilissimo illusionista, scivolano in un pirotecnico gioco inventivo, avvolti in una nuvola odorosa di cipria, pettini, aghi, spilloni, nastri, e quant’altro… Capo mio fatti capanna! Sulla testa e in mezzo alla massa dei capelli si può mettere tutto ciò che si vuole.

I parrucchieri ricorrono alle scale per realizzare in ore e ore di lavoro costruzioni così alte che il loro vertice può venirsi a trovare addirittura a un metro di altezza rispetto alla fronte della paziente dama, la cui bocca sta, a volte, a metà strada tra i piedi e l’apice del pouf. Le signore, felici di portare sulle loro teste ogni ben di Dio, che può pesare fino a cinque chili, alleviano con un raschietto d’avorio, il grattoir, il prurito dovuto agli sciami di pidocchi (ai quali beninteso il poeta Anton Maria Narducci ha dedicato un secolo prima un dolcissimo sonetto chiamandoli “gemme”, “volanti Amori” e “fere pasciute di nettarei umori”) che proliferano nella massa di capelli veri e posticci sovraccarichi di polveri, creme, unguenti e pomate, e schiacciati dal peso delle imbottiture.

Journal Des Dames, in cui viene fatta conoscere per la prima volta l’acconciatura del pouf, 1774

E non è l’unico sacrificio a cui vanno incontro pur di essere belle e fare a gara tra loro in lusso ed eccentricità. Per non sciupare i toupet dalle spropositate dimensioni, resistono fino a tre giorni senza coricarsi; sdraiate su una poltrona, con la testa appoggiata su un cuscino, soffrono di emicrania cronica. Devono abbassarsi e camminare trasversalmente per passare sotto le porte, incontrano difficoltà a salire e scendere dalle alte carrozze, a malapena riescono a stare sedute in carrozza perché, anche togliendo i cuscini, la sommità della pettinatura sfiora il tetto della vettura e sono costrette, le poverine, a starsene accoccolate sul fondo. Per confezionare migliaia di queste architetture, nella sola Francia occorrono più di centomila chili di capelli all’anno. Spesso le donne che non hanno di che vivere vendono questa unica loro ricchezza, ma la materia prima è comunque insufficiente ad alimentare la colossale industria delle parrucche per cui bisogna importare massicci quantitativi di capelli veri dall’Oriente e, in più, rasare tutte le donne decedute negli ospedali e raccogliere ciocche di capelli dovunque si trovino, perfino tra i rifiuti.

Masse di contadine e popolane analfabete, mal pettinate e peggio ancora vestite, nascondono matasse di capelli arruffati sotto logori fazzoletti inzuppati di sudore per la fatica. È perciò tanto più evidente il contrasto tra le semplici e trascurate acconciature della povera gente e queste traballanti costruzioni ambulanti che torreggiano sulla testa delle aristocratiche, architettate per guardare dall’alto in basso chi non è di sangue blu e nemmeno azzurrognolo.
I pouf sono decine e decine, non c’è limite alle stravaganze dei parrucchieri e alle bizzarrie delle loro esigentissime e incontentabili clienti.
Ce ne dà un’idea Carlo Gozzi:
«I parrucchier ch’acconciavan la testa
non è da dir se facea disperare:
oggi i capelli corti volea questa,
doman gli volea lunghi accomodare.
All’impossibil menava tempesta,
minaccia il parrucchier di bastonare;
se qualche scusa il misero allegava,
con la granata via lo discacciava».

Pouf detto alla ques-à-co, che simula con le piume un punto interrogativo
Pouf con carillon nascosto tra i capelli e coppia danzante
Pouf adorno di gingilli e cincaglieria

Ogni gentildonna non solo fa dell’acconciatura uno status symbol (più alta e farcita è, più ti faccio vedere chi sono io) ma anche vuole esprimere attraverso la sua foggia sentimenti, carattere, stati d’animo. Tutto è concesso a Sua Maestà la Moda. E allora dammi oggi il mio pouf quotidiano, intima la dama al parrucchiere. Da alcune teste viene fuori un carezzevole suono di carillon: damine e cicisbei in miniatura, mossi da corde invisibili, improvvisano eleganti passi di minuetto. La coiffure à la Montgolfier imita l’aerostato che s’alza in volo il 5 giugno 1783. Altri modelli, detti alla giardiniera, alla lattaia, alla mugnaia, alla pastorella, si ispirano al mondo bucolico con fiori spontanei, grappoli d’uva, cesti di fiori e frutti, gabbie di uccelli, e tutto questo in testa alle vezzose signore che si trastullano a vestirsi da lattaie, da contadinelle, da pastorelle…
Le donne innamorate si fanno inserire tra i capelli bambole, cofanetti, lettere, catenine, statuine in biscuit e i regalini avuti in segreto dall’amico del cuore.
Le mogli degli alti ufficiali portano sul capo soldatini e interi battaglioni schierati in ordine di battaglia. La donna superba si fa pettinare “al Colosseo” per sentirsi rivivere in testa i fasti dell’antica Roma. Qualcuna preferisce acconciarsi come le ninfe dei boschi, felice di trascinarsi sul capo, incedendo a passo di lumaca, il peso di un giardino traboccante di fiori o di un fantastico paesaggio con mulini a vento e capanne, boschetti, ameni prati e ruscelli: il cosiddetto pouf “al giardino inglese”. Chi, al contrario, ama il mare, si fa calare sui capelli una nave con tanto di alberi e vele spiegate al vento. La signora presa da esotiche frenesie chiede acconciature all’asiatica, alla turca, alla circassa…

Pouf à la fregate (detto anche à la Belle Poule dal nome della nave da combattimento francese)
Pouf al giardino inglese
Pouf con soldatini della moglie di un ufficiale

Ce n’è per tutti i gusti e per tutte le teste. Comprese le vaporose cuffie in tulle o in pizzo posate sulle imbottiture di capelli. La moda cambia di anno in anno, come risulta da una commedia di Goldoni: «Ma non sapete, signore, che quello che si usa un anno, non si usa l’altro? – Sì, è vero. Ho veduto in pochissimi anni cuffie, cuffiotti, cappellini, cappelloni; ora corrono i cappuccietti; m’aspetto che l’anno venturo vi mettiate in testa una scarpa».
E ancora Gasparo Gozzi: «Il mio maggiore spasso è verso la sera, quando il sole comincia a dar campo alle signore di passeggiare. Non vi potrei dire quante fogge di cuffie e di cappellini vanno intorno e come fra loro, senza parere, si guardano quel che hanno indosso».

Pouf da dietro
Pouf con voliera
Pouf con fiori e nastri

Il secolo dei lumi ama poco l’acqua, ritenuta nemica della bellezza. Un giornale consiglia alle lettrici di non lavarsi il viso che una volta ogni otto o dodici giorni. I ritratti di Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena ben esemplificano lo stereotipo femminile dell’epoca: incarnato bianco come cera, volto coperto da uno spesso strato di biacca, guance e bocca rosse, sopracciglia marcate e ben disegnate, fronte alta e spaziosa.

Madame Henriette, Jean-Marc Nattier, 1754

Un denso strato di biacca regala all’incarnato una tinta pallida tra la cera, l’avorio e la porcellana, le sopracciglia sono scurissime e ben disegnate, il cinabro e il carminio, spalmati in dodici diverse gradazioni, accendono di rosso fuoco le guance e le labbra che sono piccole. Si usano tutte le sfumature del rosso per truccare perfino le palme delle mani e i seni che fanno capolino dagli attillatissimi corsetti. È una bellezza tutta artificiosa come sottolinea il poeta Giambattista Casti: «Se squaglia il sol biacca e cinabro/il senil volto appare pallido e scabro/la floscia gota e la grinzosa pelle/e la femmina allor cangiata tutta/da bella che parea diventa brutta».

L’abuso dei cosmetici, dei quali si ignora il potere nocivo per la salute, miete molte vittime tra le dame del tempo: tra le più illustri, la nobile irlandese Maria Gunning, più nota come contessa di Coventry, una personalità di primo piano nell’Inghilterra di re Giorgio II, osannata per il suo charme, che per coprire il minimo inestetismo e apparire in tutto il suo splendore finisce per avvelenarsi il sangue con il piombo e il mercurio contenuti nei suoi belletti, specialmente nella cerussa veneziana, finché chiude gli occhi nel 1760 a soli ventisette anni.

Il 13 gennaio 1727, la Facoltà di medicina di Colonia riconosce ufficialmente l’acqua di Colonia, chiamata Aqua Mirabilis, ottenuta con una formula a base di arancio, cedro, limone, bergamotto, lavanda e rosmarino, scoperta da Giovanni Paolo Feminis, un italiano emigrato in Germania. In breve la città tedesca, già nota per la sua inimitabile cattedrale, con la sua fortunata essenza diviene la capitale mondiale del profumo.
Già verso la fine del Seicento sono comparsi per la prima volta i nei che raggiungono la massima diffusione durante il Settecento, l’età d’oro del maquillage e dell’esaltazione della bellezza femminile. Per aumentare la loro sensualità, le donne considerano i finti nèi imprescindibili attributi di bellezza e fascino. I nei in stoffa, che i Francesi chiamano grains de beauté, chicchi di bellezza, sono di tutte le forme e dimensioni: tondi, a mezzaluna, a forma di stella, di cuore, di croce. Sul viso delle dame sfilano carrozze e cavalli in miniatura, Veneri e amorini, diavoli con tanto di coda, corna e bidente, comete, animaletti, fiorellini… Possiedono un loro particolare linguaggio e un codice comunicativo con un significato che cambia a seconda della posizione sul volto. Nasce addirittura una scienza, la nevologia. Posto sulla fronte indica una donna altera e orgogliosa, chi ce l’ha sulle tempie è ostinata e decisa, vicino all’occhio è provocante. Una donna sfacciata se lo incolla sul naso; sulla guancia, il galante, rivela chi è disponibile ad avviare una relazione amorosa; sull’angolo della bocca, il baciante, è indizio di chi desidera un bacio; chi se lo appiccica sulle labbra è maliziosa, chi lo preferisce sul labbro inferiore è discreta e riservata.

A Venezia le donne portano la moretta, una mascherina ovale in velluto nero, che viene mantenuta aderente al viso stringendo tra i denti un bottoncino posizionato all’altezza della bocca. Poiché impedisce di parlare, è chiamata anche “muta”. Nascondendo il proprio viso le dame acquistano un fascino particolare soffuso di mistero.

Una stravagante Merveilleuses

Agli sgoccioli dell’ovattato secolo di ciprie, parrucche, profumi e riverenze, passata la gelida tramontana del Terrore, lo spirar dello zefiro di una ritrovata serenità nel periodo che va sotto il nome di Direttorio fa germogliare una singolare fioritura di donne, passate alla storia come le Merveilleuses (pendant femminile dei coevi Incroyables). Le elegantone del 1797, le spensierate Meravigliose, quanto a gusto e sciccheria non sono da meno dei loro cavalieri: dalle loro antenate greche e romane copiano mantelli e tuniche leggerissime, aderenti e trasparenti, alla Cerere e alla Minerva, alla Flora e alla Diana e, ai piedi, coturni di ellenica memoria e sandaletti allacciati sopra le caviglie. Le regine della moda e del gusto si chiamano Fortunée Hamelin, Juliette Récamier, Madame de Staël e Madame Raguet, che si ritiene una Minerva terrena e una Giunone rediviva.
Si arriva agli eccessi del lusso e della stravaganza fin quasi a offendere il buon costume quando una dama di razza come Thérèse Tallien, soprannominata “Nostra Signora del Termidoro”, e uno stuolo di amiche passeggiano nei boulevards e nei giardini pubblici pavoneggiandosi in stoffe diafane che lasciano indovinare perfettamente, con la biancheria intima, le loro scultoree forme. Contro le ultras del buon senso un coro di voci grida allo scandalo.
Dietro le sfacciate provocazioni di un abbigliamento succinto ai limiti dell’indecenza, più che una visione filosofica, si nascondono, tuttavia, una mentalità e uno stile di vita che non possono essere passati sotto silenzio. Si sogna un ritorno all’età dell’oro, identificata con l’antichità greco-romana. Si sfiora per un attimo la certezza di vivere in un’età beata, sia pure effimera e transeunte. Si reclama una liberazione totale da impacci e sovrastrutture.
Al di là della mera ostentazione e sfoggio di un bel corpo e di una statuaria figura, le donne della jeunesse dorée, le figlie del Direttorio, sollecitate da una frenesia liberatoria, traducono nell’aspetto esteriore tutte le idee protofemministe che si sono affacciate alla ribalta con una miriade di scritti e salottiere querelles. Come dire: tutti i nodi di una secolare insofferenza e di un prolungato malessere (schiavitù, sottomissione e status di inferiorità) vengono clamorosamente al pettine, sia pure in maniera eccessivamente vistosa che pecca di eccentricità.

NOTA: Tutti i disegni allegati per esemplificare le acconciature del secolo sono di Colette D’Addio.

In copertina: caricatura dell’Academié de Coiffure, 1788.

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Articolo di Florindo Di Monaco

Florindo foto 200x200

Docente di Lettere nei licei, poeta, storico, conferenziere, incentra tutta la sua opera sulla Donna, esplorando l’universo femminile nei suoi molteplici aspetti con saggi e raccolte di poesie. Tra i suoi ultimi lavori, il libro La storia è donna e le collane audiovisive di Storia universale dell’arte al femminile e di Storia universale della musica al femminile.

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