Carissime lettrici e carissimi lettori,
per fare un danno così non basta avere una lama affilatissima: serve una ferocia ancora più tagliente. Hanno parlato in questo modo i medici dell’ospedale napoletano dove è arrivata di notte una ragazzina di dodici anni con una profonda ferita sul volto che la trasfigurava e da cui usciva tantissimo sangue. A provocare il taglio era stato un coltello nelle mani di un ragazzino poco più grande di lei (sedici anni) che aveva deciso in questo modo (o forse peggio!) di punire la sua giovanissima ex fidanzata per averlo lasciato. Forse peggio: perché la profondità del taglio ha fatto sospettare, purtroppo, la premeditazione, l’intenzione di uccidere. In perfetto stile femminicidio. E, come nei femminicidi, anche per questo atto, che ha coinvolto due adolescenti (lei una bambina, trasferita e dimessa, infatti, dall’ospedale pediatrico), si è parlato di raptus. Ma ormai, lo sappiamo, l’atto improvviso di rabbia è sempre solo un’invenzione di chi ce lo racconta. Una dis-informazione di chi si pone subito dalla parte del carnefice, del maschio che perderebbe la testa per essere stato tradito, per l’abbandono realizzato o annunciato di chi da sempre ha giudicato oggetto, apparentemente affettivo, sicuramente sessuale, sociale, utile riferimento allo svolgersi della quotidianità.
«Ci vorranno chissà quanti interventi di chirurgiaplastica – scrive Massimo Gramellini sul suo Caffè quotidiano – per ridurre la cicatrice in faccia e chissà quali paroleper lenire quella invisibile che una storia simile lascia dentro. A noi, che la osserviamo dall’esterno, lascia un senso di incredulitàe di sgomento perché ci rivela un mondovicino, eppure sconosciuto. Dove[…] a sedici anni te ne vai tranquillamente a spasso con un coltello in tasca. Dove non esiste evoluzionedei costumi, ma solo bieca ripetizione di modelli arcaici, e le famiglie insegnano ancora ai figli maschi: che amore e possesso sono sinonimi, e che una sconfitta sentimentale rappresenta un affronto da punire con uno sfregio. Dove una bambina- perché, comunque, a dodici anni sei una bambina – subisce un orrore ingestibile, un orrore adulto, che la condanna a una vita intera di diffidenza e di rancore nei confronti degli uomini e dell’amore in genere». (Corriere della Sera, 13 luglio 2022). Noi aggiungiamo al commento dell’editorialista che, al di là dei metodi educativi accettati dalle singole famiglie, non è questione di orario tardo per una ragazzina a passeggiare per strada (come scrive l’autore riguardo all’avvenimento) o il ceto sociale (che in altri contesti potrebbe essere esteso a pensiero religioso o pigmentazione della pelle), ma riguarda esclusivamente la violenza. Una violenza maschilista, trasversale. Il resto appartiene ad altri contesti di discussione che non sono quelli appartenenti al reato commesso. Perché il rischio è sempre quello: di colpevolizzare la vittima, le sue abitudini come i suoi abiti o il non chiudere la porta di un bagno. Lo stupro, la violenza, l’uccisione deve essere condannata esclusivamente come reato contro la persona. Altrimenti si ritorna al discorso del «te la sei cercata» e la vittima non è più tale.
Altri uomini, molto più grandi, ancora più atroci perché più consapevoli, abitanti e regnanti di un altro Paese, molto lontano dal rione partenopeo, dieci anni fa hanno infierito e scaricato la loro rabbia, su un’altra ragazzina, anche lei giovanissima, che voleva anche lei la libertà, ma per altri motivi e per lei come per tutte le ragazze e le donne della sua terra e dell’Afghanistan.
Malala Yousafzai allora aveva 15 anni (era il 9 ottobre del 2012). Un gruppo di uomini armati salirono sullo scuolabus che stava riportando le ragazze a casa dopo le lezioni. Colpirono gravemente alla testa Malala e ferirono anche altre due ragazze, sue amiche, Zolanda e Ambrin. Succedeva in Pakistan, ma nel vicinissimo Afghanistan era l’epoca dei Talebani, quelli che sono ritornati oggi in un Paese ormai dimenticato da troppi. Ihsanullah Ihsan era il portavoce dei terroristi. Ha rivendicato la responsabilità dell’attentato, sostenendo che la ragazza «è il simbolo degli infedeli e dell’oscenità», minacciando di essere intenzionato a provare ancora ad ucciderla. Malala oggi (è nata il 12 luglio del 1997) compie 25 anni, si è sposata da poco e vive in Inghilterra. É la più giovane vincitrice del premio Nobel per la Pace, ricevuto il 10 ottobre del 2014 quando aveva appena 17 anni! La motivazione del Comitato per il Nobel norvegese è stata: «per la lotta contro la sopraffazione dei bambini e dei giovani e per il diritto di tutti i bambini all’istruzione». Auguri da parte di tutte e tutti noi, cara Malala!
La violenza sulle donne si può combattere anche in passerella. Lo ha fatto Martina Evatore, anche lei molto giovane, venti anni. Durante il concorso di Miss Venice Beach, ha sfilato indossando gli abiti che portava tre anni prima, quando tentarono di violentarla: pantaloni neri alle caviglie, scarpe bianche sportive, una maglietta e una giacca mimetica. Non sembra proprio un vestire “indecente” eppure un’amica, dopo quell’episodio, le disse proprio così: «Vestita così, te le cerchi». Come se la colpa di uno stupro dipendesse dalla vittima, dalla quantità di trucco, da cosa indossa o non indossa.
«Non è così – si legge in un commento sotto la foto postata della sfilata -. Ci sono vittime violentate con i jeans. Altre con la minigonna. Altre in tuta. Altre in felpa. Altre ancora in costume. E il motivo è semplice: la colpa di una violenza è solo e soltanto di chi commette quella violenza». Poi conclude con riconoscenza: «Grazie a Martina per averlo ricordato con straordinaria dignità».
Ci vuole un atto di ri-educazione sociale. Una mai sufficientemente ripetuta revisione dei principi su cui si basa il nostro vivere quotidiano, purtroppo a livello planetario. L’abolizione non deve certo riguardare la totalità dei maschi e del loro fare, ma la mentalità dominante, creata dalla supremazia durata nei secoli, che sottintende da sempre l’egemonia della visione maschilista del mondo. Una mentalità che purtroppo, lo si è detto giustamente anche in questo periodo, è adottata anche da tante donne che intraprendono un’ascesa al potere e lo fanno duplicando e non rinnovando e trasformando lo sguardo sul vivere.
Per raggiungere questa trasformazione bisogna cominciare sicuramente dai luoghi dell’educazione, in primis dalla famiglia, che però non sempre ha gli strumenti per farlo. Il testimone passa dunque alla Scuola, dove le donne e gli uomini di domani creano la loro formazione alla vita, aiutati/e dagli e dalle insegnanti con le lezioni, i contenuti, le azioni.
Nascono anche esperienze curiose per maschi che ricordano le nostre ore scolastiche femminili di educazione domestica: noi ragazzine a ricamare e cucire e i maschi a imparare a usare un martello. Spigolando tra le curiosità una scuola, un collegio privato spagnolo, insegna ai ragazzi, tutti maschi, a cucinare, stirare, cucire. Nella scuola (prevede anche la frequenza esterna) è contemplata, come extracurriculare, «l’ora di lavatrice e lavastoviglie». Gli alunni imparano «come gira la vita in casa – dicono alla scuola madrilena – così un giorno saranno partecipativi e tranquillamente si alterneranno nei compiti di solito fatti dalle donne di famiglia». In Italia una scuola piemontese ha trattato l’azzeramento delle differenze di genere con l’adozione del colore giallo per i grembiuli dei ragazzi e ragazzine. L’iniziativa è stata molto criticata e non senza fondamento. Già, parità di genere sui servizi domestici. Come l’increscioso episodio accaduto in un hotel sardo che non ha trovato donne per rifare i letti nelle stanze e ha aperto (?!) la possibilità di lavorare al personale maschile. Incommentabile e deludente!
Non possiamo non dedicare un pensiero a un grande uomo del giornalismo, a Eugenio Scalfari, che ci ha lasciati giovedì scorso a 98 anni. Giovedì era il 14 luglio e questo tempo del calendario, il tempo della conquista della Bastiglia, ben si addice, come è stato ricordato, al suo temperamento. Il direttore Scalfari è stato un grande trasformatore del giornalismo, e non solo di quello italiano. «Ha inventato un nuovo modo di fare giornalismo», ha commentato a caldo Marco Da Milano. Scalfari aveva dichiarato che il quotidiano fondato da lui (era il 1976), La Repubblica, doveva essere una voce importante della politica italiana e lo voleva palesemente e volutamente schierato politicamente, verso una precisa parte politica. Ma ebbe anche a dire che questa nuova creatura del giornalismo italiano, politicamente collocata, sarebbe stata anche una voce “scomoda” proprio per quella parte politica, «per tenerla viva e operante». Il quotidiano da lui fondato fu subito rivoluzionario, tanto che all’inizio non incluse la cronaca, ma in questo non ebbe successo. Ma lo ebbe, e tanto, per la forma, la veste con cui si presentava al pubblico, quando il resto della stampa andava in edicola con formati «da tovaglia» come si diceva, scomodi da sfogliare, difficili da tenere tra le mani. Da leggere comodamente anche in autobus, sul treno, viaggiando verso il lavoro o verso casa e tenersi informati/e.
Vorrei però chiudere con una notizia di consolazione, come amava definire questa ormai abituale conclusione la mia amica Piera alla quale lunedì scorso è stata dedicata una bella serata dai Solisti del Teatro guidati da Carmen Pignataro, nei Giardini della Filarmonica sulla via Flaminia, a Roma.
Vorrei anche completare questo editoriale con una storia, nata triste e poi riempita di generosità, e aggiungere, al posto della poesia rituale, una breve, ma efficace definizione sul significato dei libri. A scriverla un grande pensatore e artista, Umberto Eco, che non è nato a Bologna, ma vi ha vissuto e l’ha amata.
La storia è quella di una bancarella di libri famosa a tutte e a tutti a Roma, a piazzale Flaminio, appena oltre la famosa e splendida piazza del Popolo e a lato di villa Borghese e del Muro Torto. Titolare era Alberto, soprannominato il “professore”, che regnava su un patrimonio di oltre 6000 libri usati, presentati ottimamente a un pubblico di affezionati/e o ai mille curiosi e curiose di passaggio.
Le mani o la mano che ha appiccato l’incendio tra la notte di sabato e domenica scorsa e l’ha distrutta mandando in fumo migliaia di pagine, non sappiamo se sia maschile, o forse femminile. Sicuramente è stata una giovane donna, invece, a trasformare questa brutta storia vandalica in un bell’epilogo pieno di speranza, di amore e passione per la cultura.
Alessandra è una libraia della più dura periferia romana. Ha una piccola libreria a Tor Bella Monaca, quartiere difficile a sud della capitale. Le Torri, così si chiama la libreria, stava per chiudere a causa della pandemia e del rincaro dei prezzi. Ma è stata salvata dalla generosità dei e delle clienti e lettrici e lettori che da tutta Italia hanno donato la cifra necessaria a saldare i debiti e permettere ad Alessandra di andare avanti. Una storia incastonata nell’altra del cuore di Roma, come un diamante in un anello. La libraia di periferia ha ricambiato al mondo il gesto di generosità ricevuto e ha riparato le offese perpetrate da «mani vigliacche e ignoranti».
Ha lanciato un appello per una raccolta di libri da portare alla bancarella del professore! In una bellissima catena di solidarietà, lanciata proprio da chi aveva già conosciuto il valore della solidarietà degli altri. In soli tre giorni, grazie alla straordinaria sollecitudine di tante persone generose, di librerie, biblioteche, circoli di lettura, che si sono attivate immediatamente dopo l’incendio, grazie anche all’appello di Dacia Maraini che ha dichiarato: «Hanno voluto colpire la cultura, ora tutti dobbiamo dare una mano», la Bancarella del Professore è tornata in piena attività!
«I libri si recuperano. Gli incendi si possono spegnere. Ma violenza e sopraffazione non possono spegnere la parte buona e solidale della gente» ha scritto nel suo blog su un social chi si firma come Farfalla della gentilezza.
E ora la frase di Umberto Eco che ci rende l’essenza di ciò che il libraio di piazzale Flaminio e la sua salvatrice di Tor Bella Monaca hanno scelto come centro vitale della loro esperienza.
«Non ce ne rendiamo conto, ma la nostra ricchezza rispetto all’analfabeta (o di chi, alfabeta, non legge) è che lui sta vivendo e vivrà solo la sua vita e noi ne abbiamo vissuto moltissime. Ricordiamo, insieme ai nostri giochi d’infanzia, quelli di Proust, abbiamo spasimato per il nostro amore ma anche per quello di Piramo e Tisbe, abbiamo assimilato qualcosa della saggezza di Solone, abbiamo rabbrividito per certe notti di vento a Sant’Elena e ci ripetiamo, insieme alla fiaba che ci ha raccontato la nonna, quella che aveva raccontato Sheherazade. A qualcuno tutto questo dà l’impressione che, appena nati, noi siamo già insopportabilmente anziani. Ma è più decrepito l’analfabeta (di origine o di ritorno), che patisce di arteriosclerosi sin da bambino, e non ricorda (perché non sa) che cosa sia accaduto alle Idi di Marzo. Naturalmente potremmo ricordare anche menzogne, ma leggere aiuta anche a discriminare. Non conoscendo i torti degli altri l’analfabeta non conosce neppure i propri diritti. Il libro è un’assicurazione sulla vita, una piccola anticipazione di immortalità. All’indietro (ahimè) anziché in avanti. Ma non si può avere tutto».
(Umberto Eco, Perché i libri allungano la nostra vita in La bustina di Minerva, 2000).
Buona lettura a tutte e tutti.
Presentiamo gli articoli di questo numero, cominciando da quello che descrive la donna di Calendaria, Veronica Stolte-Hèiskanen, ungherese di nascita ma pioniera del cosmopolitismo culturale, madre degli studi STEM, che sostenne, contro il pensare comune, essere adatti alle donne e compatibilissimi con una vita affettiva o matrimoniale serena; continuiamo con un nuovo approfondimento della serie La donna nel Settecento. Moda, pettinature, cosmesi. Facciamo un salto di due secoli con l’autrice di Donne durante il ventennio fascista, «un episodio particolare e distinto del dominio patriarcale». Itinerario 3. Le Costantine e altre anime del leccese è una nuova puntata del percorso del Salento attraverso gli occhi delle grandi donne che l’hanno attraversato, tutto da scoprire. La passeggiata meditativa riguarda ancora una frazione di Siena. Nel verde di Taverne d’Arbia, con un ricordo di Oriana Fallaci. Ma si può camminare anche in montagna: «andare in montagna è un’esperienza umana e non solo semplice turismo», ci ricorda l’autrice della descrizione degli Itinerari a piedi tra le montagne della Grande Guerra sul Passo del Tonale, un’occasione per meditare sull’orrore della guerra, che, come scriveva Umberto Eco, deve diventare un tabù. Un tabù dovrebbe diventare anche la violenza di genere e per contribuire alla sensibilizzazione della popolazione su questo tema il 7 luglio si è inaugurata Una mostra di Toponomastica femminile nella Procura di Tivoli, intitolata a Francesca Morvillo. Di violenza su una preadolescente da parte di un pedofilo tratta anche il libro più famoso di Nabokov e l’articolo L’Equivoco Lolita ce ne dà una lettura convincente guidandoci a scoprire «uno dei fraintendimenti più curiosi e inquietanti che mai ci siano stati fra l’intenzione autoriale e la ricezione del pubblico». Di un’altra sottile forma di violenza, quella dell’abbandono, parla anche un altro articolo di questo numero, Le ore e i riti che si ripetono.
La recensione A Cagliari, nel 1905: I delitti della salina di Francesco Abate, ci presenta un “giallo” con una nuova investigatrice. Allison Robertson e Rosa-Nellie Toti. Di madre in figlia è la bellissima conversazione che una nostra collaboratrice racconta su due artiste, madre e figlia, che amano intensamente il mare. In questa settimana si è raggiunto il picco della nuova ondata dell’ultima variante Covid conosciuta. Ci è venuta in aiuto la rete, ma l’articolo Il ruolo dei Social Media: un potente strumento di comunicazione ci mette in guardia sui rischi che si possono correre, soprattutto da parte degli adolescenti, se si abusa di questo mezzo. Non solo la reviviscenza del virus e la guerra ma anche la siccità stanno sconvolgendo le nostre certezze. La saggezza della nonna, partendo da una serie di accorgimenti per non sprecare l’acqua, combattendo la crisi idrica, arriva a chiedersi: «Ma se sono le donne quelle che nella pratica sono disposte a sacrificare tempo e a spendere denaro per il bene dell’ambiente, perché ai vertici delle istituzioni che delineano le scelte politiche e gli obiettivi ambientali ci sono per lo più uomini?».
Finiamo, come sempre, con una gustosa ricetta: Spezzatino vegetariano. Buon appetito a tutte e tutti.
SM
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Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.