Virtuosa e mostro  

Parte prima 

Gli archetipi universali sono elementi che ricorrono in tutte le culture a prescindere dalla posizione geografica e dal periodo di riferimento. Esempi sono: la celebrazione della madre e del padre, l’esistenza di un essere onnipotente e onnisciente creatore del mondo su cui esercita il controllo, un diluvio che ha spazzato via la maggior parte dell’umanità, il concetto di peccato.  

Un altro elemento ricorrente è costituito dalla meraviglia e dal terrore che circondano quello che fino a qualche decennio fa era ancora un mistero: la creazione della vita. È facile immaginarsi i nostri antenati, quando i primi sapiens avevano appena preso coscienza di sé, guardare con nuova curiosità come il ventre delle femmine della loro specie un giorno cominciasse a gonfiarsi sempre di più, come ogni tanto si manifestassero delle protuberanze sotto la pelle tesa come se qualcosa si stesse muovendo dentro la pancia, finché le femmine non sono colte da doglie e cominciano a spingere, e poi ecco: nasce un’altra creatura, un piccolino o una piccolina, gridando al mondo la sua venuta e smaniando per respirare. Per i sapiens è questione di istinto, non vivono in un tempo in cui è loro permesso il privilegio delle elucubrazioni: vogliono proteggere quell’ammasso di pelle e ossa appena nato, la madre avvicina al seno la sua bambina o il suo bambino sapendo in modo intuitivo che è lì che troverà nutrimento; alcuni membri del gruppo incoraggiano la donna a mangiare e a riposarsi, mentre i più forti partono in cerca di cibo per aiutare la puerpera a riprendersi da quello sforzo; come nei mesi precedenti al parto le daranno le razioni più grandi e di maggiore qualità e si organizzeranno per difendere lei e la prole, obiettivi privilegiati dei predatori. Il tempo passa, e quella piccola creaturina che per mesi era stata solo in grado di gridare, fare i suoi bisogni e dormire, cresce e comincia a camminare; se la malattia o un altro animale non pone fine a quella vita prematuramente, crescerà un nuovo membro della comunità e il ciclo potrà ricominciare. 

Quando i sapiens diventano “il predatore definitivo”, possono finalmente dedicarsi ad altro che non sia l’immediata sopravvivenza: sviluppano un gusto estetico e abbelliscono i loro rifugi con piante profumate o dipingendo scene quotidiane usando un misto di acqua e polvere colorata; la notte analizzano il cielo e segnano sulle pareti delle caverne le stelle che più catturano la loro attenzione; studiano l’ambiente che li circonda e lo sfruttano per migliorare la tecnologia in loro possesso. Quando iniziano a capire come manipolare il fuoco è la svolta: le stagioni fredde non sono più una condanna a morte, la carne cotta è più tenera, digeribile e saporita, e la notte non fa più paura come un tempo perché il calore e la luce della fiamma tengono lontani gli animali. Non a caso il dono del fuoco da parte di una divinità è un altro archetipo universale e, cosa più importante, permette di manipolare i metalli: le armi sono più letali e si creano i primi aratri che consentono di seminare e di sradicare le piante commestibili e metterle in punti più comodi per la comunità; alcuni animali vengono addomesticati e aiutano nella caccia e nella raccolta. Così nascono i primi gruppi stanziali, che non si muoveranno più in cerca di cibo e risorse ma modificheranno il territorio in cui vivono affinché esso si adatti alle loro necessità. Dopo un processo durato millenni, fatto di tentativi ed errori, le comunità di sapiens come le conosciamo oggi si allargano abbastanza per formare i primi villaggi e le prime città. 

Con ora molto più tempo libero a disposizione, qualche sapiens si pone delle domande e una fra queste è, probabilmente, come e perché si crea la vita. Presto si prende consapevolezza del fatto che è necessario che un maschio e una femmina si accoppino affinché il ventre di lei cominci a gonfiarsi dopo qualche tempo. E quindi i maschi sapiens riflettono: il loro ruolo è indispensabile, ovvio, ma cosa succede esattamente? Cosa fanno le femmine per far crescere il loro ventre, per creare una vita? Cosa fanno quando non sono sotto lo sguardo di un uomo, e nessun altro se non magari altre femmine può vedere cosa fanno? Usano forse il seme maschile in qualche modo? Lo mischiano con altri ingredienti? A ben pensarci, non è forse vero che il maschio si sente molto stanco e spossato dopo aver copulato con una femmina? È forse opera di quest’ultima, sta in qualche modo rubando la sua essenza vitale? E perché un bambino o una bambina cresce dentro la pancia di una femmina, ma non in quella maschile? Cosa ha la femmina che l’uomo non ha? 

Oggi, con gli occhi di persone che vivono nel 2022 e che sanno – almeno si spera – come avviene la nascita di una nuova vita, queste domande paiono divertenti, quasi sicuramente ridicole. Ma provate ad immedesimarvi nei primi uomini e nelle prime donne, che non hanno la benché minima idea di cosa sia un ovulo o uno spermatozoo, che per la prima volta cercano di razionalizzare una cosa che fino a quel momento hanno conosciuto solo tramite istinto animale: provate ad immaginare il senso di confusione che comporta il gonfiore improvviso e apparentemente immotivato del proprio ventre, al vedere piccoli movimenti sotto la pelle, a notare come il corpo di una donna cambia per mesi finché un giorno non si piega in due dal dolore e poi, dallo stesso punto in cui lei si era unita con un maschio della sua specie, esce fuori un neonato o una neonata. Si sa come avviene, ma non si riesce a capire il perché avvenga. 

La vergine delle rocce, Leonardo da Vinci

È su questo ‘perché’ che si fonda il mistero della creazione della vita che ha accompagnato l’umanità da quando abbiamo compreso di essere umani e che è alla base di secoli di tentativi di controllare e politicizzare il corpo delle donne. Il perché il corpo femminile necessiti di essere sorvegliato è intuitivo: la società va avanti grazie alle donne. Una donna, unica padrona del proprio ventre e della propria sessualità, è in grado di determinare l’esistenza o la scomparsa di intere linee famigliari ed essendo colei che si prende cura della prole, ha potere di vita e di morte su di essa quando non sorvegliata, o è in grado di manipolare i suoi figli contro il proprio padre educandoli a tradirlo. Ed è sì necessario il seme maschile, ma di qualunque maschio, non per forza quello di un compagno: mater semper certa est, pater numquam solevano dire gli antichi romani, rinomati per il controllo ferreo che esercitavano sulla sessualità delle donne.

Un uomo è educato a non sprecare risorse per chi non fa parte della sua famiglia e la prole di un altro non è sua preoccupazione; tuttavia, come provare che quella prole non è sua? I test di paternità sono stati inventati lo scorso secolo, e i sapiens esistono da 300000 anni: abbiamo 2999 secoli in cui il dubbio della paternità ha flagellato generazioni di uomini, specie in società che hanno sviluppato una forte separazione fra gli spazi dedicati alle donne e quelli dedicati agli uomini, gli spazi comuni sono pochi e vi si può sostare solo per brevi periodi e di solito sotto la supervisione di membri più anziani del gruppo. Diventa così ovvia l’importanza del controllo della sessualità femminile e ciò è stato fatto attraverso molti metodi che spaziano dalla violenza, soprattutto di natura sessuale, all’educazione. 

Soffermiamoci su quest’ultimo punto: per secoli l’educazione è passata attraverso storie inventate, già i primi uomini e donne avevano intuito il potere che l’intrattenimento era in grado di esercitare sulla coscienza e il comportamento dei bambini e delle bambine. «Attenzione a dove vai, che ci sono mostri fuori pronti a divorarti in un sol boccone» è una frase sicuramente familiare a tutte/i noi, a prescindere da sesso e generazione. La mitologia di un popolo è un modo eccellente per identificarne i valori. Ad esempio, le vicende che portarono alla nascita di Atena ed Efesto nel mito greco sono esemplificatrici dell’opinione verso l’uomo e la donna di questo antico popolo. Alcuni fanno precedere la nascita di Atena a quella di Efesto, altri viceversa, ma al fine del nostro ragionamento non è importante. 

Efesto forgia i fulmini di Zeus, Rubens

Riassumo qui la nascita dei due dei secondo la Teogonia: adirata per i continui tradimenti del marito, Era decide di vendicarsi concependo un figlio da sola, Efesto; il bambino è tuttavia fortemente deforme ed Era, disgustata, lo bandisce dall’Olimpo. Efesto è disprezzato e deriso dagli altri dèi, ma la sua abilità nel costruire armi e armature non conosce rivali; perciò mantiene legami con i suoi parenti anche dopo aver deciso di vivere in solitudine nella sua fucina nell’Etna. Nel frattempo, adirato e sconvolto da quanto Era ha fatto, Zeus continua a giacere con altre donne mortali e dee, fino a quando non riesce a sedurre una delle figlie del titano Oceano, Meti, che rimane incinta. Una profezia lo avverte che la progenie di Meti sarà più forte di lui e, temendo di essere spodestato come accadde a suo padre Crono, decide di eliminare Meti, divorandola dopo averla convinta a trasformarsi in una goccia. Meti, tuttavia, non si arrende: dentro il corpo del suo ex amante inizia a costruire un elmo e una lancia per la figlia che ha in grembo. Il rumore del martello da lei usato provoca dei mal di testa tremendi a Zeus, che va a chiedere aiuto ad Efesto. Questi decide di usare un’ascia contro il cranio del re degli dèi e dalla ferita esce già adulta Atena, dea della saggezza, vestita con l’armatura forgiata da sua madre. Zeus, contento di essersi così vendicato dell’affronto della moglie “partorendo” a sua volta, renderà Atena la sua figlia prediletta. È facile qui notare quel misto di disprezzo per la donna e curiosità per la gravidanza tipico delle società occidentali. Il messaggio di questa storia non può essere più chiaro: la donna ha bisogno del seme maschile, se facesse da sola partorirebbe figli deformi; se l’uomo potesse, invece, portare avanti una gravidanza farebbe sicuramente un lavoro migliore della donna, partorendo una prole già autonoma. E anzi, nel mito greco non è neanche l’ultima volta che un figlio esce direttamente dal corpo di Zeus: il dio Dionisio nasce dalla coscia del padre dopo che questi vi aveva cucito il cuore del figlio, caduto vittima dell’ira di Era. Ma questi sono solo miti: nella realtà, l’uomo greco non può fare a meno delle donne, nonostante moltissimi di loro scrivano fiumi di inchiostro su quanto non le sopportino, su quanto la loro stessa esistenza sia una punizione divina, frustrati dal fatto che necessitano di una compagna per poter tramandare il proprio nome.  

Nascita di Atena, particolare di un vaso

Inoltre, nel racconto possiamo osservare un’altra delle ansie maschili legata alla gravidanza: la profezia afferma che la progenie di Meti sarebbe stata più forte del padre e avrebbe avuto il potenziale di spodestarlo; per questo Zeus architetta un piano per uccidere Meti. La nascita di Atena non è voluta, è un caso fortuito dovuto alla tenacia materna; fatto sta che Zeus, colpito dalle doti di Atena, la prende sotto la sua ala protettiva ed è lui a educarla in prima persona mentre Meti non viene, apparentemente, coinvolta. È illuminante notare che nella crescita della dea che andrà a simboleggiare la saggezza e la virtù non partecipino entrambi i genitori ma solo il padre – e Atena è rinomata per essere una delle divinità più leali a Zeus. Questi miti potrebbero raccontare molto altro ancora della mentalità greca e delle complesse relazioni dei loro nuclei famigliari, ma ai fini del nostro percorso possiamo fermarci qui.  

Come abbiamo visto, la consapevolezza del proprio ruolo nel generare la vita non cancella l’ansia che crea questo fenomeno, perché l’uomo non sa come la donna mette il feto nel suo grembo. E l’ansia genera mostri: l’uomo non può controllare cosa cresce dentro il ventre di una donna, non sa cosa essa faccia per creare una vita, ma sa che il processo deve includerlo, se lui stesso non partecipa non può esserci vita. Controllare la sessualità della donna vuol dire avere almeno un minimo di controllo su un processo altrimenti inconoscibile per lui, e il miglior modo per esercitarlo è la violenza. Non solo fisica, non tutte le donne si fanno abbattere da pugni e calci. Educarle fin da piccole è molto più efficace. Ed è così che nascono due figure femminili cardini del mondo occidentale: la virtuosa e il mostro.

Circe offre una coppa a Odisseo,
JW Waterhouse, 1891

La virtuosa, che racchiude in sé tutto ciò che una donna perfetta dovrebbe essere secondo i parametri della società presa in riferimento – Lucrezia, che si suicidò per salvare l’onore del marito dopo essere stata violentata dal re Tarquinio il Superbo; Maria, che partorì Gesù da vergine accettando la sua missione senza mai mettere in discussione quanto deciso da Dio; le fanciulle dei poemi cortesi, che si affidano a Dio nelle loro sventure in attesa che il cavaliere venga a portarle in salvo. E il mostro, una donna che conserva di umano solo il volto e il busto, dal fascino conturbante che attrae gli uomini e li porta alla rovina – Lilith, prima moglie di Adamo e rinnegata da Dio perché pretendeva di avere il controllo sull’uomo nonostante fosse donna; Medusa, unica mortale delle Gorgoni il cui sguardo pietrificava chiunque lo incrociasse; Circe, la strega che trasformava in porci tutti gli uomini che arrivavano sulla sua isola per non essere disturbata dai loro tentativi di sedurla.  La virtuosa e il mostro sono le figure che hanno educato generazioni di donne chiarendo quale sarebbe stata la loro fine qualora la loro sessualità sfuggisse al controllo delle figure maschili della famiglia, padre e marito in testa: la virtuosa vive una vita lunga e pacifica, il mostro viene ucciso da un uomo. Erano anche un avvertimento per quest’ultimo allo scopo di trovare una virtuosa da sposare e stare lontano quanto più possibile da donne conturbanti. Ma si sa, solo perché si è state/i educate/i in una determinata maniera non vuol dire che quegli insegnamenti saranno seguiti alla lettera. E gli uomini spenderanno secoli a decantare il fascino delle donne “mostruose”, di donne in pieno controllo del proprio corpo, a disperarsi per essere caduti nelle loro braccia, portati alla rovina perché incapaci di resistere al proprio desiderio.  

***

Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.

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