Edith Stein, filosofa dell’empatia   

Il 9 agosto del 1942 moriva, all’età di cinquant’anni, in una camera a gas nel lager di Auschwitz quella che oggi conosciamo come santa Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein. La prima volta che mi imbattei nei suoi scritti, io di anni ne avevo venti e mi colpirono molto la modernità e la grandezza del suo pensiero, capace di tenere insieme filosofia, psicologia e spiritualità.

Un concetto, in particolare, riecheggia da allora con frequenza nella mia professione: l’idea che la parte più complicata della vita non sia tanto portare la croce che ci è assegnata, quanto guardare gli altri esseri umani portare la propria, senza potergliela togliere. Io lavoro con la disabilità. Quante volte mi sono ritrovata nelle parole di Edith, parlando con madri stanche, con ragazzi/e sofferenti, con famiglie segnate dalla fatica e dal dolore! Quanto il senso di impotenza ha divorato anche me, di fronte alle narrazioni di giornate affannose, alle lacrime di chi deve combattere ogni giorno contro la malattia, il disagio, l’indifferenza, i limiti. Forse per questo Edith mi è così cara: sa parlare come poche altre al mio cuore di insegnante.  

L’interesse di questa straordinaria filosofa e mistica per il destino altrui, più che per il proprio, nasce dall’incontro con il pensiero di Husserl e dalla proposta che egli le fece, all’Università di Gottinga tra il 1913 e il 1914, di lavorare a una tesi di laurea sul tema dell’empatia. Un concetto nuovo, per l’epoca, e ancora poco definito. Il risultato fu un testo corposo e straordinariamente interessante, che le valse la lode, benché il lavoro di stesura fosse più volte interrotto a causa dello scoppio del conflitto mondiale e delle numerose attività di volontariato per curare feriti di guerra e malati di tifo cui Edith scelse di dedicarsi. Ma forse fu proprio la sua capacità di coniugare teoria e vita, studi e pratica quotidiana a rendere questa ebrea, monaca convertita al cristianesimo, una figura tanto speciale nel panorama filosofico del Novecento. Stein divide il processo empatico in tre fasi distinte, ma necessarie (chi si intende un poco di filosofia, ben capirà come riecheggino, in questa impostazione teorico-argomentativa, contenuti hegeliani). La prima è l’emersione del vissuto, cioè la lettura di un’espressione emotiva sul volto di qualcuno/a.

La seconda è l’esplicitazione riempiente: lo stato d’animo dell’altro/a, con il quale ci si immedesima, diventa anche il nostro vissuto. L’ultima e fondamentale fase è l’oggettivazione comprensiva del vissuto esplicitato: l’attenzione torna a essere rivolta allo stato d’animo dell’altro/a, colto come vissuto altrui tramite una distanza arricchita dalla consapevolezza di averlo attraversato anche noi. Perché ci sia davvero uno stato empatico devo quindi “far posto”: dopo essersi immedesimati è necessario compiere un passo indietro e guardare quello stato d’animo come un oggetto. La portata di questo assunto è enorme e arriva addirittura a una nuova definizione ontologica.

Questo percorso, infatti, mostra che l’asse dell’essere si sposta dalla capacità del pensiero e sentimento personali, al punto mediano di incontro tra due individui; come a dire che l’essere ha una struttura relazionale, che c’è essere nel momento in cui l’altro/a mi propone un suo vissuto, mi costringe a ridefinire ciò che sto vivendo. E l’esistenza di Edith Stein pare essere la traduzione concreta di ciò che il suo pensiero esprime. L’attenzione al prossimo, e soprattutto la dimensione dell’incontro (con le persone e con Dio) costituiscono l’asse portante di ogni sua scelta di vita. Nata da una famiglia di ebrei tedeschi, commercianti di legname, ultima di sette figli (cinque femmine e due maschi), ebbe un percorso di vita segnato da numerosi travagli interiori e decisioni inaspettate.  

Tra i 15 e i 16 anni lasciò gli studi, nonostante gli ottimi risultati, per dedicarsi alla libera lettura. In quello stesso periodo abbandonò la religione ebraica per abbracciare un convinto ateismo. Fu solo dopo aver visto una donna qualunque entrare in una chiesa a pregare con le borse della spesa, che Edith sentì di dover fare posto nel suo cammino a una chiamata nuova. Il primo giorno del 1922 si fece battezzare. Si adoperò sempre, con scritti, lezioni e conferenze, per promuovere il ruolo della donna nella società e nella Chiesa. Lesse e studiò la biografia di santa Teresa d’Avila (a cui si deve certamente l’invito, che Edith fece proprio, a non accettare nulla come verità che sia privo di amore e nulla come amore che sia privo di verità, poiché l’uno senza l’altro sono solo menzogna) e gli scritti di Tommaso d’Aquino e nel 1931 divenne lettrice all’Istituto di pedagogia scientifica a Münster.

Le leggi razziali del governo nazista la obbligarono tuttavia a dimettersi nel 1933. L’anno successivo entrò nel monastero carmelitano di Colonia dove le fu dato il nome di Teresa Benedetta della Croce. Per proteggerla dall’avanzata del nazismo, il suo ordine la trasferì al convento di Echt nei Paesi Bassi, ma neppure questo servì. La conferenza dei vescovi olandesi, il 20 luglio 1942, fece leggere in tutte le chiese del Paese una lettera contro il razzismo nazista. In risposta a questo aperto affronto, il 26 luglio Adolf Hitler ordinò l’arresto di tutte le persone ebree anche convertite (fino a quel momento risparmiate). Edith e sua sorella Rosa, pure lei convertita, vennero catturate dalla Gestapo e internate nel campo di transito di Westerbork prima di essere trasportate al campo di sterminio di Auschwitz e condotte alle camere a gas.  

Edith Stein fu canonizzata da Giovanni Paolo II l’11 ottobre 1998 in Piazza San Pietro. Il 1º ottobre 1999 il papa la nominò anche patrona d’Europa affermando che: «Teresa Benedetta della Croce non solo trascorse la propria esistenza in diversi Paesi d’Europa, ma con tutta la sua vita di pensatrice, di mistica, di martire, gettò come un ponte tra le sue radici ebraiche e l’adesione a Cristo, muovendosi con sicuro intuito nel dialogo col pensiero filosofico contemporaneo e, infine, gridando col martirio le ragioni di Dio e dell’uomo nell’immane vergogna della “Shoah”. Ella è divenuta così l’espressione di un pellegrinaggio umano, culturale e religioso, che incarna il nucleo profondo della tragedia e delle speranze del Continente europeo». Non è molto noto, ma la patrona d’Europa è dunque la filosofa dell’empatia. Quasi un invito a tutte/i noi a guardare il prossimo con occhi diversi, con occhi che sanno accogliere, prima di giudicare; con cuori che sanno mettersi in ascolto, prima di alzare muri.  

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Articolo di Chiara Baldini

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Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.

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