Corsi e concorsi. L’identikit imperfetto dell’insegnante competente

Nel mese di maggio la mia amica d’infanzia Sara (poliglotta, antropologa giramondo, tre lauree, una delle quali in lingua e cultura cinese, più svariati master di cui ho perso il conto… il tutto senza rinunciare alla maternità) ha provato senza successo il concorso per diventare insegnante di ruolo. La prova scritta per la classe di scienze umane si svolgeva qui tra le valli, proprio nella scuola dove insegno io. L’ho ospitata con gioia, dopo parecchio tempo. E consolata, quando è tornata con stampato sulla faccia quel mezzo imbarazzo di chi ha appena ascoltato una barzelletta che non fa mica tanto ridere. Ora, Sara ha dalla sua anni di esperienza educativa con bambini/e e ragazzi/e di tutto il mondo. Una cultura indiscutibile. Una capacità relazionale che le viene dallo scoutismo, ma anche da una storia di vita ricca di incontri e di equilibri da trovare. Sentendola parlare, non si direbbe mai che ha un bagaglio culturale così vasto, tanta è la semplicità e l’immediatezza del suo eloquio. La si ascolta con piacere e con interesse, conosce una quantità immensa di aneddoti curiosi che aiutano, meglio di ogni altra cosa, a entrare nelle questioni più spinose che riguardano l’umano. Sara è l’insegnante che vorrei per le mie figlie, tanto per intenderci. Così come Laura, altra mia carissima amica precaria della scuola, che ha tirato su da sola tre figli in giro per il mondo, ha una laurea in scienze dell’educazione, parla quattro lingue e si occupa di formazione di ragazzi/e e adulti/e da una vita. O come Cesco, che fa il professore precario di religione da venticinque anni, sempre adorato dai suoi alunni/e, una fantasia e una disponibilità unici, un intuito educativo da Oscar, una formazione solidissima e un’esperienza da vendere.
Potrei continuare, ovviamente, ma mi fermo qui, perché sono certa che ognuno/a di voi conosce almeno altrettante persone che, pur avendone la vocazione, le caratteristiche e i titoli, non sono ancora insegnanti di ruolo. La domanda vien da sé: come diavolo selezioniamo il corpo docente in questo disgraziato Paese? Il Miur ha deciso che Sara non sarebbe stata un’insegnante all’altezza del compito perché, scandalo degli scandali, non ha saputo abbinare frasi tratte da testi di scienze umane (molte delle quali riferite non ai concetti-chiave, ma a corollari secondari) ai relativi autori. Eh già, come si fa a insegnare pedagogia se non si conosce, riga per riga, ogni singolo testo di Dewey? La cosa ridicola è che non esiste corso di formazione, rivolto a noi docenti ed erogato dallo stesso Miur, che non precisi che la mera verifica della conoscenza dei contenuti non è sufficiente ai fini di una corretta valutazione. Il Ministero, come sempre, predica in un modo e agisce esattamente al contrario. Va da sé che la domanda sia immensa: come si fa a selezionare i/le docenti migliori, posto che l’attuale metodo è palesemente desueto, scorretto dai punti di vista epistemico e pedagogico, nonché spesso controproducente?
Enrico Galiano, insegnante fondatore della webserie Cose da prof, in un recente scritto ha riportato una interessante riflessione, a partire dalla traccia d’esame dell’ultimo concorso per la classe di lettere. Ecco cosa scrive: «Il/la candidato/a illustri un’attività didattica avente per argomento il mito dei morti in Pascoli, secondo il critico Cesare Garboli. E il bello è che nella traccia è anche specificato: da presentare in una classe terza, in una piccola scuola in una cittadina di provincia, con al suo interno alunni con background migratorio e due alunni con disabilità. E certo, perché io a Gurpreet, indiano del Punjab che non parla mezza parola di italiano, vado a spiegare Cesare Garboli, come no! (…) Non se ne può più di questi metodi che mettono sempre la parte nozionistica al centro di tutto. Non se ne può più della formula-esame soprattutto: con la commissione dietro la cattedra che valuta gli insegnanti senza… la sola cosa che proprio non dovrebbe mancare: una classe! (…) un buon insegnante lo devi vedere all’opera. Come parla con Gurpreet. Come si rivolge ad Amina, Cosa fa per aiutare Sara, che a casa ha due libri, di cui uno di ricette. In che modo sostiene Francesco, dislessico, che è convinto di essere stupido». Come non essere d’accordo col collega Galiano, che tra l’altro insegna in una piccola scuola media di periferia (proprio come il mio amico Cesco, di cui parlavo sopra) e ha quindi uno sguardo estremamente pragmatico sul proprio ruolo di educatore/formatore?

Ma la questione è ancora più complessa, a mio avviso. Un/a buon/a docente deve avere alcune caratteristiche irrinunciabili:
1. deve saper mettere al centro non ciò che sa, ma chi ha davanti (competenze relazionali), per poter donare ciò che sa (competenze culturali) nel modo più efficace possibile (competenze comunicative);
2. deve saper adattare il proprio fare al gruppo con cui lavora e ai tempi/alle esigenze formative che cambiano (ecletticità; competenze psico-pedagogiche);
3. deve trasmettere un senso di ricerca, stimolare curiosità, indicare una direzione verso il Senso delle cose (competenze filosofiche);
4. deve saper valutare le/gli alunni in maniera equa e costruttiva (competenze docimologiche);
5. deve aver ben chiaro che sta formando non l’alunno/a ma la persona (competenze educative);
6. deve saper creare un clima di collaborazione e apprendimento attivo in classe, in modo che ognuno/a sia risorsa per l’altro/a, con particolare attenzione agli/lle alunni/e più fragili (competenze collaborative e inclusive);
7. deve saper utilizzare sufficientemente bene gli strumenti che le nuove tecnologie mettono a disposizione e insegnare ad alunni e alunne a fare altrettanto (competenze informatiche).

Sette punti come quelli delle coccinelle, o come i nani di Biancaneve. Ma che in realtà hanno lo spessore di giganti. Verrebbe da pensare che tutte queste qualità, tutti questi saperi sono quasi impossibili da trovare in una persona sola, con la conseguenza che toccherà sempre accontentarsi di docenti mediocri. Invece la scuola italiana è strapiena di eccellenze, di insegnanti meravigliosi/e e completi/e, solo che non hanno valorizzazione né selezione intelligente alla base.
A questo proposito, vogliamo parlare dell’ultima trovata del Governo sulla figura del Docente Esperto? Uno per scuola (perché la soglia è fissata a ottomila), con un aumento di stipendio di circa 5 mila euro all’anno, dopo averne trascorsi 9 a formarsi (e aver speso, che so, 6 mila euro ad andar bene tra spostamenti, materiali e iscrizioni). Alcune domande sorgono spontanee:
1. chi potrà permettersi di frequentare percorsi formativi così lunghi e impegnativi? Non le mamme di figli piccoli, non chi ha a casa disabili o anziani, non chi fatica ad arrivare a fine mese, magari con un doppio lavoro. Siamo alle solite: le opportunità sono date sempre ai soliti noti, aumentando per l’ennesima volta le diseguaglianze;
2. chi garantirà sulla qualità dei corsi di formazione? Già ora ci sono in circolazione tanti di quei corsi farlocchi che c’è da piangere, figurarsi con la possibilità di accreditarli per i docenti esperti… Aiuto!
3. il docente esperto è ancora solo quello che ha studiato di più, che sa di più a livello teorico? Ma basta con questa impostazione nozionistica, che serve solo a svalutare la figura docente! Non se ne può davvero più;
4. formiamo così docenti esperti! Bene, perché gli/le altri/e che cosa hanno? Inesperienza, incompetenza, incapacità, ignoranza? Grazie di cuore, è sempre di grande soddisfazione sentirsi valorizzate/i come professioniste/i di livello!

Io ho un sogno. Una super commissione di Dirigenti Scolastici/che con esperienza almeno trentennale dentro la scuola – quella vera, non quella che hanno in mente questi del Ministero – che prepari una griglia di valutazione per docenti, valida su tutto il territorio nazionale, capace di tenere dentro tutte le competenze richieste per il ruolo. E poi vedete voi, se preferite avere valutatori/trici esterni/e che, griglia alla mano, vengano ad assegnare punteggi a ciascun/a docente o prediligete la formula fai-da-te, con autovalutazione guidata. Il senso è che ciascuno/a potrebbe fare i conti con i propri punti di debolezza e di forza, avere finalmente una cartina di tornasole (ovviamente non perfetta, ma che potrebbe costituire un primo punto di partenza) della propria professionalità. Se dipendesse da me (ma io sono una che dà all’educazione un’importanza assoluta, quindi so di essere particolarmente severa a riguardo), mi affiderei a valutatori/trici esterni/e e fisserei un livello minimo di punteggio da raggiungere, sotto il quale il/la docente in questione dovrebbe essere mandato/a a fare formazione sul campo per almeno due anni, con affiancamento di colleghi e colleghe migliori, con successiva rivalutazione. Se ancora il punteggio risulterà troppo basso, tanti saluti. Mi spiace, ma le nuove generazioni meritano il meglio. In barba ai Sindacati, che, se il mio sogno divenisse realtà, inizierebbero con la solita indignata alzata di scudi. Senza rendersi conto, forse, che gli scudi si portano meglio se i destrieri non sono tutti colossali somari, usciti da scuole che non sanno selezionare né valorizzare docenti di livello.

***

Articolo di Chiara Baldini

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Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.

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