La dura vita di una pioniera

Maria Velleda Farnè è stata la prima donna a laurearsi (in medicina) all’Università di Torino. Di lei però si conosceva solo il nome, la data del conferimento della laurea (18 luglio 1878, la seconda in Italia ottenuta da una donna, dopo quella, sempre in medicina, di Ernestina Paper) e la notizia che la dottoressa Farnè era stata nominata archiatra della Regina Margherita. Ora invece uno studio accuratissimo di Paola Novaria, archivista dell’ateneo torinese – Maria Velleda Farnè (1852-1905). Ritratto in chiaroscuro di una pioniera in “Annali di Storia delle Università italiane, 1/2022” – ne ricostruisce la vita, dandole una voce e rintracciando anche una fotografia che ce ne rivela l’aspetto.

Foto della laurea di Farnè

Un ritratto inedito, quindi, ottenuto attraverso l’analisi di una serie di documenti che riguardano la dottoressa Farnè e le sue frequentazioni, ma anche la sua famiglia e soprattutto il padre, nella convinzione che è nella storia paterna che occorre scavare per capire il senso della scelta insolita e coraggiosa della giovane, di puntar sullo studio, sulla professione, sull’indipendenza piuttosto che su un più comune destino di moglie e madre di famiglia.
Maria Velleda nasce a Bologna nel 1852. Il padre, Enrico, è uomo di legge, letterato dilettante e polemista politico di fede mazziniana; in lui una forte aspirazione all’unità d’Italia si accompagna a un acceso sentimento antiaustriaco. La delusione che segue la prima infelice guerra di indipendenza non ne appanna le convinzioni politiche e l’ardita visione progressista. La madre, Adele Gommi, appartiene a una illustre famiglia di Imola. Con tutta probabilità è il padre a volere per la sua secondogenita l’insolito nome di Velleda (era una sacerdotessa druidica vissuta nel I secolo dopo Cristo); insieme al nome, che già prelude a un destino d’eccezione, Enrico trasmette alla figlia la propria fiducia nella scienza e nel progresso, che si tradurrà poi nella scelta degli studi universitari, ma ispirerà anche un paio di articoli comparsi su una rivista femminile a firma della dottoressa, su argomenti riguardanti l’igiene, gli unici scritti che si conoscono di lei, oltre alle poche lettere per ora ritrovate. Dopo l’annessione di Bologna al Regno di Sardegna nel 1860 e l’istituzione del Regno d’Italia, Enrico, che aveva intrapreso la carriera giudiziaria, si trasferisce con la famiglia a Torino, dove per vent’anni esercita l’ufficio di pretore.

Qui la giovane Maria Velleda compie privatamente gli studi, presentandosi poi il 14 agosto 1872 a sostenere l’esame di maturità al Liceo Cavour di Torino, proveniente da «scuola paterna». Non esistevano ancora licei femminili ed era impensabile che una ragazza frequentasse il liceo insieme ai maschi. La sua preparazione appare lacunosa alla commissione esaminatrice e viene rimandata. A ottobre ripara qualcosa ma non tutto, e solo in seguito ottiene il diploma, riuscendo a iscriversi al secondo anno del corso in Medicina e Chirurgia: ben decisa a diventare medica, aveva infatti frequentato il primo anno pur non avendo ancora la licenza. All’Università Maria Velleda incontra insegnanti di fama: Jacob Moleschot, Michele Lessona (convinto sostenitore dell’istruzione femminile), Giulio Bizzozero, Angelo Mosso, Cesare Lombroso, esponenti della cultura positivistica in ascesa. Risale al periodo dei suoi studi universitari l’unica fotografia che ci rimane di lei, ritratta in sala anatomica a fianco del professor Giacomini, di anatomia umana, e vicino a un cadavere dissezionato, unica donna in mezzo a nove uomini. Uno scatto rivelatore.

Unica fotografia di Maria Velleda Farnè

Nel 1878 affronta l’esame di laurea e il quotidiano La Stampa ne dà notizia, ricordando la laurea in legge ottenuta, un secolo prima, da Pellegrina Amoretti a Pavia. L’anno seguente muore, a Torino, Enrico Farnè: un duro colpo per la giovane Maria Velleda. Inizia a praticare come libera professionista, dal momento che le donne non potevano aspirare a entrare come “medichesse” – così venivano chiamate – negli ospedali: non esisteva una legge ostativa, ma nessun direttore sanitario sarebbe stato capito se avesse assunto una donna. Anche come libere professioniste, comunque, le laureate in Medicina, allora vere mosche bianche, incontravano molta difficoltà a farsi una clientela, anche fra le donne e nelle specialità che sembravano più adatte a loro, come pediatria e ginecologia. Lo comprova la storia non solo di Maria Velleda, ma di tutte le (pochissime) mediche del tempo, e lo conferma un’indagine del 1902 (Vittore Rava, Le laureate in Italia: notizie statistiche), informandoci che per le donne gli ostacoli che le limitavano nella professione non erano d’ordine legale, ma dipendevano dal costume.
Una svolta significativa, per la giovane dottoressa, avviene nel 1881, quando è iscritta, a titolo onorario, fra il personale sanitario della Real Casa, per interessamento di Margherita di Savoia. Non è chiaro come si arrivasse a ciò. Sicuramente la Regina era in visita a Torino il giorno della laurea di Farnè e forse l’eco del fatto straordinario l’aveva raggiunta. Probabile anche una raccomandazione di persone vicine alla Corte a favore della giovane rimasta orfana del padre, ma non priva di conoscenze famigliari di un certo peso.
Nel gennaio del 1886 compare un articolo su di lei sul Corriere di Roma, a firma di Matilde Serao e preceduto da un ritratto – l’unico attribuibile con sicurezza, servito peraltro a identificare la donna fotografata in sala anatomica. Veniamo a sapere da questa fonte che la dottoressa ora risiede a Roma, e anche che sarebbe inserita fra il personale medico ordinario di Casa Savoia, non in quello onorario. Ma è sicuramente un errore della Serao, perché se così fosse stato Maria Velleda avrebbe goduto di uno stipendio regolare e non sarebbe caduta in povertà, come invece tutta una serie di segnali ci dicono che avvenne, da un certo momento in poi. Evidentemente per una donna raggiungere l’autonomia economica attraverso l’esercizio della professione era un’impresa disperata a quei tempi. Anche per una donna come la dottoressa Farnè, che non mancava di appoggi e conoscenze importanti, a Roma frequentava dame dell’aristocrazia e colte signore borghesi, godeva della fiducia di Margherita di Savoia, insomma era ben introdotta negli ambienti che contano. Matilde Serao la presenta, in un secondo articolo su di lei sul Corriere di Roma, come «tranquilla e laboriosa creatura», circondata dalla simpatia e dall’affetto dei colleghi e ben lontana dall’attivismo politico di un’altra medica, Anna Kuliscioff (che Serao come è noto detestava), e assicura che «giammai nessuno si è sognato di porre ostacoli alla sua carriera». Lo scopo di queste osservazioni era, evidentemente, mostrare quanto fossero ingiustificate le proteste delle femministe, ma ci crediamo senz’altro: per i suoi colleghi la dottoressa Farnè non era certo una pericolosa concorrente!
Di fatto, da un certo momento in poi, si infittiscono le pressanti richieste di denaro presso la Regina, richieste non sempre accolte in toto. Nel 1899 la dottoressa rinuncia al libero esercizio della professione, molto probabilmente per sottrarsi all’imposta sulla ricchezza mobile: un altro segno di grave crisi economica. La stessa cosa fa Ernestina Paper. I medici che non avevano una condotta (la figura del medico condotto era stata istituita dalla riforma Crispi nel 1888) avevano difficoltà a farsi una clientela, a maggior ragione se donne. E i Comuni, obbligati dalla riforma ad assumere i medici condotti, si guardavano bene dallo scegliere per questo ruolo una medica. Nessun sostegno a Maria Velleda poteva giungere dalla propria famiglia, ché anzi la dottoressa si trovò a doversi occupare della madre anziana e del fratello, a loro volta in crisi, tanto che per far fronte ai debiti dovettero rinunciare alla casa di Torino.
Nel novembre del 1905, improvvisamente, su questa vita cala il sipario. Maria Velleda Farnè, pur continuando a risiedere a Roma, muore cinquantatreenne, sola, a Rivalba, un borgo collinare vicino a Torino, in una villa appartenente a parenti e utilizzata come abitazione per le vacanze. A denunciare la morte, di cui non si conosce la causa, è un nipote. Viene seppellita nel cimitero locale, ma la sepoltura non è stata ritrovata.
Sembra di cogliere una nota di amarezza e di velata polemica nel finale dell’articolo, dove si dice che La Stampa di Torino, pur non avendo dato notizia del decesso della dottoressa Farnè, «già nel 1921 inaugura la serie delle citazioni che la ricordano unicamente come la prima laureata dell’Ateneo torinese, sancendo quel passaggio da individua operante in specifici contesti, sociali e professionali, con crescenti difficoltà, a pioniera degli studi universitari e fulgido emblema di emancipazione femminile». Lo studio di Paola Novaria, attento ai fatti documentabili, non attenua il fulgore di quell’emblema ma, nel dipingere il ritratto di Maria Velleda Farnè, alla luce accosta le ombre che sicuramente ci furono e che conferiscono spessore e tridimensionalità alla complessa vicenda umana della prima laureata torinese.

Foto convegno al Palazzo del Rettorato, Torino, 2022

L’articolo è stato presentato in un convegno di studi al Palazzo del Rettorato a Torino il 18 luglio scorso. Una seconda presentazione avverrà a Roma il 23 settembre, una terza ancora a Torino, il 18 novembre, quando nella sede del Rettorato, in via Verdi 8, sarà inaugurata una lapide (la prima con un nome femminile) in ricordo della dottoressa Farnè.

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Articolo di Loretta Junk

qvFhs-fC

Già docente di lettere nei licei, fa parte del “Comitato dei lettori” del Premio letterario Italo Calvino ed è referente di Toponomastica femminile per il Piemonte. Nel 2014 ha organizzato il III Convegno di Toponomastica femminile. curandone gli atti. Ha collaborato alla stesura di Le Mille. I primati delle donne e scritto per diverse testate (L’Indice dei libri del mese, Noi Donne, Dol’s ecc.).

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