«Pensiamo da creature e ci decliniamo femmine»

Nicoletta Vallorani è non solo «la scrittrice femminista di fantascienza più sensibile e compiuta» nel panorama italiano contemporaneo (così Claudia Durastanti su Tuttolibri del 3 settembre 2022), è anche docente universitaria e saggista affermata; nella sola giornata di sabato 8 ottobre, prima della convention milanese Stranimondi 2022, è stata protagonista di tre incontri, partecipatissimi: In cerca di altre mappe (elaborare storie e narrative in grado di proporre altri futuri possibili), Di corpi abitati e terre desolate (raccontare le contraddizioni dell’epoca che stiamo vivendo), Daniela Piegai, una vita senza tempo (omaggio alla grande scrittrice italiana, antesignana della scrittura d’immaginazione femminile e femminista).
Sessantatré anni compiuti in febbraio, Vallorani è docente di Letteratura inglese e angloamericana all’Università degli Studi di Milano; il suo incontro con la fantascienza data al 1981, quando si laurea all’Università di Pescara, sotto la guida di Carlo Pagetti, con una tesi in letteratura americana contemporanea che la accosta a tre grandi scrittrici di science fiction attive negli Stati Uniti, in quegli anni: Joanna Russ, Alice Sheldon (alias James Tiptree jr.) e Vonda McIntyre. Alla stessa Alice Sheldon, nonché a Octavia Butler e Nora K. Jemisin, dedicherà altrettanti approfondimenti all’interno del volume Corpi magici. Scritture incarnate dal fantastico alla fantascienza (con Anna Pasolini), edito da Mimesis nel 2020. Alla fine degli anni Ottanta, quando ormai si è trasferita a Milano, collabora con Oriana Palusci, studiosa di letteratura fantastica e fantascientifica scritta da donne, nella traduzione dei racconti della bella antologia (con una copertina, ahimè, improbabile e deviante) Aliene, amazzoni, astronaute, pubblicata da Mondadori nel 1990.
Nel 1992, vince il Premio Urania con il romanzo Il cuore finto di DR, poi pubblicato sul n. 1215 della celebre rivista il 3 ottobre 1993, ovvero l’anno successivo rispetto a quello di attribuzione, come prevede la regola di questo importante riconoscimento nell’ambito della fantascienza italiana. Intreccia poi l’attività di scrittrice di romanzi e racconti, capace di attraversare i generi (science fiction, hard boiled, noir) con quella di docente, studiosa, traduttrice, affrontando con sguardo consapevole mutazioni sociali e geografie urbane.
Tra un incontro e l’altro, Nicoletta accetta volentieri di rispondere, con vivacità e immediatezza, a tre domande con focus sulla propria attività di fantascientista e femminista; in questo ottobre così segnato dal climate exchange (di cui la speculative fiction si occupa e preoccupa da tempo), l’aria è tiepida e dunque ce ne stiamo piacevolmente sedute sui gradini della Casa dei Giochi di via Sant’Uguzzone, salutando e scambiando anche qualche parola con altre donne, di tutte le età, che costituiscono la variegata “metà del mondo” science fiction italiano.

Nicoletta, quando è iniziato il tuo amore e il tuo rapporto con la fantascienza, e ancora, come donna in un universo maschile, quali difficoltà hai incontrato?
Io ho cominciato a leggere fantascienza molto tardi e sono entrata dalla via maestra, nel senso che la prima persona che mi ha parlato di fantascienza era il docente con cui ho fatto la tesi, Carlo Pagetti; direi che è stato il primo a introdurmi alla fantascienza all’università. Quindi ho cominciato a leggere le cose più belle, le cose che valevano; il problema della fantascienza è poi questo, che se entri dalla strada sbagliata, come succede a molte mie studentesse, a molti miei studenti, non ti appassioni assolutamente. Invece io ho cominciato a leggere Ursula Le Guin e Joanna Russ, e mi sono assolutamente appassionata.

Nicoletta Vallorani a Flush, Bologna, 17 settembre 2022. Foto di Roberto Del Piano

L’altro pezzo che manca al mio amore per la fantascienza è il pezzo del Club City [una delle esperienze più importanti del fandom italiano, n.d.r.]. Quando sono arrivata a Milano, ero abbastanza dispersa, come ovvio che fosse, e il Club City mi ha accolta a braccia aperte. Tu parli di difficoltà a inserirmi nel mondo della fantascienza, ma in realtà di difficoltà relazionali non ce ne sono mai state: io sono sempre stata trattata come una principessa in questo contesto, ed era anche un contesto molto vivo, un contesto che ha prodotto la prima fanzine totalmente femminile, anche dal punto di vista grafico, Un’ala, e quindi devo dire che io di problemi di inserimento nella fantascienza non ne ho avuti. Forse sono stata anche fortunata, perché poi il primo romanzo che ho scritto si è aggiudicato il Premio Urania.

Le difficoltà in realtà sono venute dopo, perché è vero che dal punto di vista editoriale la fantascienza non è particolarmente fortunata e ha questa ipoteca pesante di narrativa scritta male, e un po’ di narrativa scritta male c’è, ma come in tutti i generi letterari; per cui dentro questi due contenitori, uno affettivo e uno più accademico, mi sono ricavata una mia strada e non ho fatto tutta questa fatica. Le difficoltà sono venute dopo, quando cercavo di piazzare i romanzi, perché Urania va benissimo, è fantastica, però Urania allora pubblicava solo un autore italiano all’anno, e quindi non c’erano grandi spazi. Poi c’era l’editore Nord, che pubblicava Daniela Piegai, che è una maestra ed è stato un riferimento fondamentale per me, però anche lì non è che ci fosse tutto questo spazio e io ero anche alle prime armi, avevo bisogno di formarmi, per cui negli anni ho un po’ transitato tra i generi: forse la cosa importante da dire è che non mi sono mai sentita costretta ad andare in una certa direzione piuttosto che un’altra. Magari avevo difficoltà a pubblicare, però potevo scrivere quello che volevo, che per me è la cosa fondamentale.

Tu sei docente universitaria e fantascientista. Come vivi questi due aspetti della tua attività? In ambito accademico, la tua attività di scrittrice di science fiction ti procura qualche sguardo “di traverso”?
Sì, ancora adesso. Ancora adesso nel senso che fino a tempi relativamente recenti io ho tenuto i due percorsi molto separati, e non essendo poi famosissima era anche relativamente facile; però mi ricordo come fosse ieri quando un mio collega, che poi adesso è rettore dell’Università degli Studi di Milano, mi ha detto: «Ma sì, io ti conosco, ho letto l’Urania in treno − che è uno stereotipo proprio – ah, però è scritto bene», altro stereotipo, perché ci si aspetta che un romanzo di fantascienza sia scritto di necessità con sciatteria e un po’ tirato via. Allora per molti anni io mi sono un po’ adeguata a questo modello, nel senso che ho tenuto la fantascienza a margine dei miei corsi universitari.
In anni più recenti, seguendo sempre il tracciato di Carlo Pagetti ma anche di Oriana Palusci − anche lei è stata mia docente e poi amica, ed è veramente un serbatoio di informazioni fondamentali sulla fantascienza femminile − ho incominciato a inserire i romanzi di fantascienza nei corsi, il discorso sulla fantascienza nei corsi, però sempre mascherandolo; la fantascienza era un termine che non poteva essere nominato: si diceva distopia, utopia, narrativa di speculazione, un po’ il giochino che fa Margaret Atwood quando dice «Io non scrivo fantascienza, scrivo speculative fiction», che è una definizione più nobile.
Lì ho scoperto una cosa interessante: io, come dico sempre, sono convinta di essere brava come insegnante, come scrittrice non so, però come insegnante sì, e questo mi aiuta molto a far passare delle cose che altri docenti non riescono a far passare, per cui per fiducia studentesse e studenti hanno cominciato a leggere fantascienza; alla fine del corso, con una certa regolarità, avevo sempre il gruppetto che veniva a chiedere: «Prof, mi consiglia qualche altro romanzo da leggere come questi, perché mi sono piaciuti tanto…».

Nicoletta Vallorani a Flush, Bologna, 17 settembre 2022. Foto di Roberto Del Piano

Io direi che adesso, invece, è un momento assolutamente felice, nel senso che il numero di studenti che chiedono tesi di fantascienza, anche da discipline che non sono la letteratura, è in aumento: proprio ieri parlavo con una studentessa che non seguo io come tesi, ma sono correlatrice, che in effetti viene da scienze politiche, è una filosofa politica, e lei sta facendo un lavoro sulla fantascienza femminile e femminista − e mi chiedeva consigli − con un docente che è un filosofo, e quindi è una specie di rivoluzione che abbia dato una tesi di questo tipo. Per cui i tempi stanno cambiando, stanno cambiando anche nell’editoria, forse anche noi stiamo cambiando, stiamo diventando capaci di far sentire un pochino di più la nostra voce.

La documentazione c’era già, quindi è una voce che riesce ad affermarsi… Abbiamo pensato tanto, abbiamo pensato e abbiamo studiato tanto, e adesso tutto questo lavoro viene fuori, secondo me, anche nell’università.

Scrittura al femminile, scrittura delle donne sulle donne, femminismo, nei tuoi testi, sia di saggistica sia di fantascienza. Per la saggistica, comunque, lo do un po’ per scontato…
Sì, per la saggistica lo diamo un po’ per scontato, nel senso che ho sempre seguito, che seguo da anni la scrittura delle donne, la scrittura delle donne mi interessa. È facile che sia interstiziale, nella fantascienza è ancora più interstiziale; mi interessa, quindi, che cosa succede in quei contesti, come fanno le donne a far sentire la propria voce sia in ambito narrativo che in ambito saggistico. Quando Joanna Russ scrive negli anni Ottanta How to Suppress Women’s Writing [Vietato scrivere. Come soffocare la scrittura delle donne, edito da Enciclopedia delle donne nel 2021, n.d.r.] l’autorità principale che riconosce in questo volume è Virginia Wolf: c’è una cucitura importante con la tradizione femminista, con le origini della tradizione femminista, con il pensiero femminista che si è evoluto negli anni, che ha sviluppato dei percorsi altamente innovativi e che in effetti a me interessa molto.
Dopo di che, la definizione di femminismo, la definizione di me stessa come femminista è anche una cosa abbastanza recente, nel senso che il mio primo incontro con il femminismo milanese è stato, lo confesso, deludente: mi sembrava un ambiente molto scucito dalle esigenze vere delle donne, un ambiente che era classifying feminism, come dice Angela Davis, cioè un femminismo delle donne che sono privilegiate, bianche, che stanno bene, che hanno avuto la possibilità di studiare… Mi sembrava sganciato, completamente, persino da me, che comunque avevo studiato ed ero privilegiata, però arrivavo da un posto di provincia e cercavo di inserirmi in un contesto, in una lotta che non era stata la mia.
Poi, come è sano che accada, anche il femminismo è cambiato, per cui adesso sì, mi definisco femminista nel senso che mi interessa dare spazio e voce proprio alle donne che non hanno voce, non a quelle che lo guadagnano facilmente. Mi interessano le esperienze che anche adesso anagraficamente sono abbastanza lontane dalla mia età; io però trovo che le ragazze giovani, anche quelle poche che riescono a raccogliersi intorno ai principi femministi, siano tanto determinate e facciano dei discorsi veramente tanto interessanti. Il mondo è loro: io, dalle retroguardie, posso costruire le basi di questa nuova battaglia, che non sarà la mia, e però finché posso la sostengo.

Joanna Russ, Vietato scrivere. Come soffocare la scrittura delle donne, Libreria delle donne, 2021
Angela Davis, Donne razza e classe, Alegre, 2018

Ruolo di insegnante e mentore, femminismo, passaggio di consegne da una generazione all’altra sono tutti temi che rinviano all’ultimo romanzo di Vallorani, Noi siamo campo di battaglia, pubblicato da Zona42 nel maggio scorso, a concludere (forse) «l’esplorazione narrativa dei temi sociali che fondano il nostro vivere comune – così la quarta di copertina del libro − cominciata con Eva (la memoria, la guerra, la cura) e poi proseguita con Avrai i miei occhi (il femminicidio, la coscienza artistica, la solitudine)», il primo di questi edito da Einaudi nel 2002 e ristampato nel 2021 da Zona42, che ha pubblicato il secondo nel 2020.

Nicoletta Vallorani, Noi siamo campo di battaglia,
Zona42, 2022

Composito nella struttura a più livelli (si alternano e intrecciano le voci di più personaggi, nonché vicende in apparenza slegate ma destinate a congiungersi), raffinato e originale nella prosa (scabra e staccata la sintassi, espressivo e musicale il lessico), Noi siamo campo di battaglia vede come protagonista la città, entità vivente e collettiva, ed ecco la voce di ragazze e ragazzi della «generazione compost» che si fanno luogo, in una Milano (come di consueto nelle opere della scrittrice) post-apocalittica e degradata.
«I problemi ci sono. Non è che a diventare noi spariscono. Che questo è il primo sbaglio delle utopie. Noi siamo pari ma restiamo diversi. Come la città, siamo pezzi che si combinano e ricombinano nel tempo e non sempre nello stesso modo. Siamo voci riconoscibili dentro la voce della città. Ma siamo comunque noi, plurali. E pensiamo da creature e ci decliniamo femmine. Perché questo è un segno della storia che cambia: per riscriverla, bisogna prima di tutto modificare la lingua che la racconta, perché nelle parole sta scritto quello che siamo come comunità. È ora di chiamarci femmine come comunità. Semplicemente, è il tempo giusto: non perché i maschi non ci siano, ma perché per secoli ci sono stati troppo. È il momento femminile ora anche per i maschi».

Lukas, Amina, Luce, Attilio, Nina, Han e Biz, adolescenti irrisolti portatori di altrettante ferite, che pure (come ogni insegnante che ami di «un amore dissennato» i propri allievi e allieve ben sa) non si esauriscono in quelle ferite, né tanto meno sono quelle ferite; adolescenti che trovano equilibrio precario e mutevole in uno stare insieme che non è banda ma spirito di comunità; che sanno di essere una generazione inascoltata e sacrificata dal mondo adulto, e tuttavia non smarriscono la capacità di farsi disobbedienti e antagonisti; giovani donne e uomini che infine, a ragione, vedono nell’anziana prof di qualche tempo prima, quasi impazzita dal dolore per la morte della compagna nella «quinta onda» della nuova terribile peste, un riferimento credibile, grazie alla sua inesausta capacità di raccontare storie, di trovare nel mito gli archetipi dell’agire umano del tempo presente. Carla, “la prof”, è una figura straordinaria, il perno della vicenda, cui dà senso anche nel finale, struggente e bellissimo, del libro. Carla sa che nei «giorni dell’orco» − quando domina l’orrore − la salvezza, intesa come capacità di mantenere la propria umanità, risiede nei piccoli gesti antichi della semina, della cura, del raccolto, non soltanto per rispondere alla necessità di procurarsi alimenti, ma soprattutto, nella scuola di un tempo ora vivaio collettivo, per tornare a sentire «il respiro della terra» e guardare al futuro; e sa che l’opposizione si anima «sollevando le mani a sostenere il mondo», nel gesto non violento impresso nella memoria di chi fu a Genova nel luglio 2001.
Dallo stato di emergenza (quando il suono delle sirene è il più familiare) e dalla catastrofe climatica (quando l’estate diventa infinita), alla dittatura e alla repressione, ma anche alla resistenza: e questa si agisce moltiplicandosi e insistendo, facendo giardino, perché – dicono le giovani, ragazze e ragazzi − «Noi siamo giardino», e ancora «Noi siamo la città». Ed è in quel “noi” la chiave: nella capacità di pensarsi plurali, di declinarsi al femminile, di riconoscersi nella vita che cresce silenziosa, nella consapevolezza che un altro mondo è possibile, quella consapevolezza che rende fondato e legittimo il sogno.
Noi, che ci decliniamo al femminile (o che non ci decliniamo affatto, né al femminile né al maschile); noi comunità di fantascientiste di ogni età (che scriviamo e studiamo e amiamo la letteratura di immaginazione, forse più di noi stesse); noi siamo e siamo insieme, un insieme aperto, accogliente, fluido: con commozione e con gioia abbiamo visto che è possibile a Flush, Festival dell’editoria femminista di Bologna, quando insieme abbiamo parlato e riso e discusso (lo scorso 17 settembre, giornata memorabile grazie ad Antonia Caruso, e non solo), e ne abbiamo avuto conferma a Stranimondi, l’8 e il 9 ottobre. Noi, «noi facciamo giardino».

In copertina: fantascientiste a Flush, Festival dell’editoria femminista, Bologna, 17 settembre 2022; da sinistra: Natalia Guerrieri, Elisa Emiliani, Francesca Cavallero, Laura Coci, Romina Braggion, Oriana Palusci, Nicoletta Vallorani, Elena Di Fazio, Diletta Crudeli, Tiffany Vecchietti, Antonia Caruso, Silvia Tebaldi, Martina Del Romano. Foto di Roberto Del Piano.

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Articolo di Laura Coci

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Fino a metà della vita filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano, negli anni della lunga guerra balcanica ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Già docente di letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea. Scrive ascoltando Coltrane e crede nella forza e nella bellezza del camminare.

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