Una stanza tutta per te. La lingua, la voce, lo stile

La lingua è il codice espressivo con cui si modella una storia, in base al contenuto che si vuole descrivere. Nella vita reale, viene spontaneo adattare il codice linguistico secondo le circostanze. Per esempio, se ci rivolgiamo a una/o sconosciuto, invece che a una persona familiare, lo facciamo in modo diverso, per non rischiare di essere fraintese/i oppure creare imbarazzo. Nella tradizione letteraria, in quanto lingua scritta e creata per i lettori e le lettrici che chi scrive non conosce, c’è grande attenzione nella scelta di un registro espressivo più formale ed “elevato”, rispetto alla lingua parlata. Anche se già nell’’800 questa regola viene infranta dal realismo e dal verismo, che introducono registri caratterizzati da scelte linguistiche colloquiali o addirittura dialettali, che riducono le distanze tra lingua parlata e scritta.

La letteratura contemporanea, ha contribuito a ridurre ulteriormente tali distanze, adottando registri linguistici anche molto “bassi” e gergali. Attualmente, chi si accinge a scrivere una storia, può orientare le sue scelte tra un registro oggettivo, caratterizzato da un’esposizione piuttosto neutra e impersonale che mira a un’esposizione “obiettiva”, oppure seguire una narrazione soggettiva, facendo prevalere gli aspetti interpretativi delle emozioni e delle riflessioni personali. La narrazione può inoltre assumere registri particolari di tipo drammatico, ironico, surreale, grottesco, fantastico. I registri espressivi si possono anche alternare nel corso delle vicende narrate, ma in genere la scelta tende a essere uniforme o a mutare con coerenza in base al variare del contenuto e del contesto narrativo. I dialoghi, ad esempio, per essere credibili devono rispettare nello stile la condizione sociale, culturale ed emotiva dei personaggi. Se facciamo parlare una persona illetterata, non possiamo attribuirgli termini colti o arcaici con cui si esprimerebbe chi è docente in università.

Donna che sogna, dipinto di Gabriella Maramieri

Non è facile definire nel dettaglio che cosa sia lo stile. In particolare, non è facile comprendere quel qualcosa di indefinibile che, al tempo stesso, ci fa riconoscere subito dalle prime righe, il nome di una grande scrittrice o scrittore. Possiamo dire che lo stile (grosso modo, l’insieme delle parole di un testo e la maniera in cui sono disposte le frasi) determina la voce dello scrittore/scrittrice, ovvero il “suono” della storia. Usando una metafora sartoriale: se la voce è il modello del vestito nel suo insieme, lo stile sono le cuciture, i bottoni e tutto ciò che permette di creare l’abito. È possibile anche paragonare la voce di una storia alla sua “anima” e lo stile al corpo fisico che le permette di esistere. Oppure, continuando con le metafore, possiamo paragonare la voce del romanzo al/la cantante e lo stile al resto della band musicale. In sintesi, lo stile è l’insieme delle scelte “tecniche” di chi scrive. Ed è anche l’elemento della scrittura più facilmente modificabile rispetto alla voce, poiché adottato in modo consapevole, in base al contenuto narrativo.

La scelta delle parole, influisce in modo determinante sulla voce della storia. Ma le parole, da sole, non creano la voce. È il modo in cui vengono accostate per formare le frasi che determina il timbro, dando oppure togliendo fluidità alla voce della scrittura. Le frasi possono essere lunghe, imprimendo così al periodo un andamento avvolgente e sontuoso, come ad esempio nei romanzi di Antonio Tabucchi e di Fernando Pessoa; oppure possono essere brevi, con un effetto più dinamico e veloce come nei romanzi di Ernest Hemingway.
Ci sono altri elementi fondamentali che possono determinare la voce di una storia:
– la presenza di molte descrizioni o solo di pochi dettagli;
– il linguaggio filtrato da uno stile poetico oppure da uno stile asciutto, molto concreto;
– una trama complicata o, al contrario, molto semplice;
– una descrizione dei personaggi estremamente minuziosa oppure sommaria, affidata solo a pochi tratti;
– una presenza armoniosa (al 50%) di dialoghi e di descrizioni.

Indipendentemente dal contenuto, vale la pena sottolineare che la voce è proprio ciò che rende speciale, viva, indimenticabile una storia. La voce, inoltre, viene valorizzata dalle frasi scorrevoli, da un’attenta cura dei dettagli e soprattutto dalla “semplicità” dell’intreccio, che è anche la sfida più grande di una autrice o un autore, perché richiede una grande chiarezza sia nel progetto che nell’esecuzione. La cura dei dettagli riguarda l’intero progetto narrativo e permette di evitare la presenza di figure stereotipate, dialoghi banali, trame che all’improvviso deragliano come treni impazziti, scene che si trascinano stancamente o, al contrario, che esplodono troppo presto, quando invece dovrebbero mantenere ancora la tensione drammatica. 

Quando abbiamo imparato a realizzare narrazioni intense e avvincenti, intuiamo subito se è arrivato il momento delle descrizioni dettagliate che informano il lettore o lettrice in modo esplicito, o se invece quel particolare elemento narrativo va soltanto suggerito. Si consideri che le cose non dette, soprattutto nei dialoghi, possono essere molto più incisive di quelle apertamente dichiarate: per non rischiare di annoiare chi legge, non bisogna dire tutto! L’importante è trasmettere emozioni attraverso la costruzione di personaggi credibili, dialoghi efficaci, descrizioni che aggiungono significato. A meno che non sia strettamente funzionale alla storia, è anche importante evitare ogni tipo di esagerazione dagli eccessi di violenza alle infiorettate romantiche, dalle lunghe descrizioni inutili ai dialoghi che si trascinano in modo casuale, eccetera. Fondamentale l’uso moderato degli aggettivi che, troppo spesso, nascondono il desiderio di abbellire e decorare scene deboli. Stesso discorso per gli avverbi. Ad esempio, invece di Maria mangia voracemente, meglio scrivere Maria divora il suo piatto. Altre insidie da evitare sono le frasi tutte della stessa lunghezza che appiattiscono la narrazione, lo sfoggio di paroloni colti e qualsiasi altro tipo di eccesso che risulti ingiustificato.

Donna in rosso, dipinto di Gabriella Maramieri

A prescindere dalla lingua, dalla voce e dallo stile, le parole sono la materia prima di un romanzo e sono anche la cosa più importante di ogni tipo di narrazione. Si pensi a 1984 di George Orwell. All’inizio del romanzo, un personaggio spiega come il governo stia distruggendo le parole attraverso la “neolingua” che ha lo scopo di ridurre la capacità di pensare. Infatti, se manca un numero di parole adeguato, non esiste la possibilità concreta di formulare pensieri. In un circolo vizioso che insidia l’intelligenza o ogni forma di creatività, non disporre di un numero adeguato di parole va al di là di ogni censura poiché determina l’incapacità stessa di pensare.
Gli scrittori e le scrittrici lavorano per lo scopo opposto a quello del governo, nel libro di Orwell: sperimentano linguaggi, fanno conoscere alle persone nuove parole, e soprattutto nuovi pensieri. Le parole sono come il piccone per chi lavora in miniera, lo scalpello per una/un falegname, il bisturi per il/la chirurga. Se usate con destrezza, in modo preciso e oculato, creano opere meravigliose. Ecco perché gli aggettivi e gli avverbi non vanno usati come gli addobbi sull’albero di Natale, nella convinzione che più ce ne sono e più si riesce a raccontare. Andrebbero anche limitate al massimo le parole generiche, le frasi troppo lunghe che rischiano di risultare poco chiare e, soprattutto, le similitudini (ad esempio, «profumi come una rosa», al posto di «sei una rosa»). 

Come abbiamo già detto, un altro aspetto importante di ogni narrazione è il ritmo (la velocità con cui le vicende si dispiegano, la lunghezza delle frasi, la punteggiatura, eccetera). Ad esempio, un pensiero che si esplica non per mezzo di astrazioni, ma attraverso la descrizione di immagini concrete, consentirà un risparmio di passaggi mentali e arriverà in modo più diretto a chi legge. Il ritmo cambia se si tratta di narrativa d’azione, di un romanzo psicologico oppure di introspezione. Periodi brevissimi, ad esempio, possono accelerano la velocità della narrazione mentre, al contrario, i periodi lunghi la rallentano. È importante che il ritmo sia in sintonia con il contenuto e anche con lo stile della storia. Ma non c’è da preoccuparsi troppo, perché di solito il ritmo si sceglie quasi “da solo”, in base al genere narrativo e al tema trattato.
Una grande storia raccontata bene, a ogni rilettura continua a catturare la nostra attenzione, dicendoci qualcosa di nuovo. È un po’ come se vivesse per sempre. Non solo perché ha un tema forte, una voce inconfondibile e uno stile impeccabile, tipico dei grandi classici della letteratura. Una grande storia raccontata bene vive per sempre perché, anche se chi legge non se ne accorge, sono stati evitati errori molto comuni. Di cosa si tratta? Se l’autore o autrice riesce a intrecciare il complesso arazzo della trama in modo chiaro e avvincente, chi legge potrà ripercorrere le vicende del libro tanto bene tratteggiate, tutte le volte che vorrà, trovandovi sempre qualcosa di nuovo poiché sono pressoché infiniti gli elementi narrativi che verranno ricombinati a ogni rilettura, facendo vivere la storia per sempre. Per maggiore chiarezza, ecco una breve sintesi degli errori che bisognerebbe evitare se si ambisce a creare romanzi scritti bene, destinati magari a diventare dei grandi classici:

1.Il/la protagonista non riesce a realizzare il suo obiettivo e, alla fine della storia, spesso grazie all’intervento di altri personaggi, è costretto/a a elaborare un obiettivo diverso. Questo fa in modo che la storia resti aperta e, in qualche modo, non conclusa.

2.L’avversaria/o della storia, cambia all’improvviso atteggiamento nei confronti di chi è protagonista. Tale cambiamento sorprendente, spinge i lettori e le lettrici a una faticosa reinterpretazione delle vicende narrate per porre il personaggio dell’avversaria/o nel ruolo di vero protagonista.

3.Troppi dettagli collocati sullo sfondo, emergono solo a un esame successivo e non forniscono la giusta prospettiva.

4.Falso finale. Di cosa si tratta? Il più comune dei falsi finali è quello chiuso, in cui il/la protagonista consegue il suo obiettivo ed entra in un nuovo equilibrio dove regna stabilità e calma assoluta. Questo tuttavia determina nel lettore o lettrice la percezione di una situazione di stallo. Una percezione oltretutto falsa, perché i desideri del/la protagonista – se il personaggio è bene costruito – non si esauriscono con la realizzazione del suo obiettivo. Come si fa a creare una storia che sembri viva, ovvero che dia l’impressione di respirare, di cambiare ed evolvere anche dopo che l’ultima parola è stata detta? Uno degli espedienti più noti consiste nel concludere la storia con una rivelazione, in modo da creare un equilibrio apparente, pronto a essere infranto quasi subito con un’altra sorpresa, una sorta di colpo di scena conclusivo che porterà il/la lettore a riconsiderare il ruolo del/la protagonista e di tutti gli altri personaggi.

Terminata la prima stesura, la storia dovrà “riposare” per un certo tempo. Dopo una o due settimane sarà bene rileggerla a voce alta, per sentire che suono produce, per capire se il ritmo, lo stile e la lingua sono in sintonia con la trama. La stesura iniziale è scritta con il cuore, per le successive revisioni sarà bene utilizzare un certo distacco critico che consenta una maggiore obiettività. Hemingway chiamava la prima stesura “escrementi”, perché le pagine scritte di getto non tengono conto della forma, servono soltanto a liberare il caotico fermento di idee che precede ogni romanzo. Jack Kerouac invece riteneva che «Il primo pensiero è il pensiero migliore», esortava a scrivere senza freni e considerava buona la prima stesura. William Styron (autore di La scelta di Sophie) non scriveva una parola se non reputava quella precedente perfetta e, forse proprio per questo, definiva il suo modo di scrivere “infernale”. In ogni caso, indipendentemente dall’approccio unico e irripetibile di ogni autore e di ogni autrice, durante la prima stesura bisognerebbe evitare di fare editing, sviluppare l’apertura creativa, la pazienza e il coraggio di lasciare emergere le idee di getto, così come sgorgano spontaneamente. L’obiettivo non è quello di trovare il modo più bello per scrivere qualcosa, ma scrivere nel modo più autentico e coerente con il proprio modo di sentire. Le analisi e le correzioni – per ottenere una narrazione scorrevole, libera dai luoghi comuni, da emozioni senza spessore e da vicende poco originali – servono in una fase successiva, quando cioè si sarà acquisito uno stile maggiormente articolato e consapevole.

Pronta/o per metterti alla prova? Ora tocca a te…

Esercizio n. 1: Individuazione dei cliché. Ascoltate un qualsiasi talk show radiofonico o televisivo per mezz’ora e prendete nota delle espressioni stereotipate, delle frasi fatte, delle osservazioni banali. Non che a chi conduce e a chi partecipa ai talk show sia vietato parlare come credono. I cliché sono dappertutto, ma il posto dove non dovrebbero stare è nelle storie che state scrivendo.

Esercizio n. 2: La lingua, la voce, il ritmo della scrittura. Una storia ben scritta dovrebbe poter essere letta ad alta voce e catturare l’attenzione di chi ascolta. Chiedete a un’amica/o di ascoltarvi mentre leggete qualche pagina della vostra storia e provate a cogliere insieme eventuali stonature, assonanze, ripetizioni.

Esercizio n. 3: L’importanza dei dialoghi e delle descrizioni. Sfogliate la storia che state scrivendo, individuate una parte descrittiva e trasformatela in un brano che contenga principalmente dialogo. Quindi individuate un altro dialogo e trasformatelo in un brano ricco di descrizioni.

Esercizio n. 4: Gli esercizi di Raymond Queneau. Prendete gli Esercizi di stile di Raymond Queneau (reperibili anche in rete), una sorta di parodia dei vari generi letterari che raccoglie un centinaio di versioni stilistiche della stessa semplice storia. Leggete qualche pagina e provate a parodiare lo stesso brano con uno stile linguistico gentile, aggressivo, sognante; oppure nel linguaggio degli/delle agenti immobiliari, degli/delle astronaute, dei/delle commesse del supermercato. 

Esercizio n. 5: Il processo di riscrittura. Rileggete e riscrivete, lavorate duro ma al tempo stesso divertitevi! Valutare il proprio lavoro non è facile, impegnarsi in una nuova stesura è faticoso, ma quando qualcosa non funziona è indispensabile porsi delle domande. Ad esempio, potreste chiedervi in che modo rendere più intensa una scena, più veloce un dialogo e come usare le parole con maggiore precisione, facendo a meno dei cliché.

In copertina: Mutazioni, dipinto di Gabriella Maramieri (particolare).

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Articolo di Gabriella Maramieri

Laureata in Lettere a La Sapienza, giornalista dal 1990, si è occupata di critica letteraria per L’Indice, Noi donne, Leggendaria, Minerva, Wimbledon. È autrice di romanzi, racconti, poesie, favole. Dal 2006 affianca alla passione per la scrittura l’attività di Consulente familiare Aiccef (Associazione italiana consulenti coniugali e familiari) e quella di Coach professionista Icf (International coach federation) e Aicp (Associazione italiana coach professionisti).

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