«Uniti nella diversità» è il motto dell’Unione Europea, un motto ambizioso e impegnativo, che sottolinea la pluralità delle culture dei Paesi aderenti all’Unione e la considera un valore. Come diceva Churchill: «La diversità è l’unica cosa che tutti noi abbiamo veramente in comune. Festeggiamola tutti i giorni». Che cosa unisce Stati come quello italiano o spagnolo a quello tedesco o a quello svedese? Esistono nell’Unione Europea culture della famiglia e di genere, modelli sociali e chances di vita che, pur avvicinandosi, non si fondono? Quali sono queste aree e come si caratterizzano? Con queste domande si è aperto il quarto incontro del corso, organizzato dalla Società delle storiche e da Archivia, Educazione alla cittadinanza europea in ottica di genere, del 28 ottobre scorso, intitolato Lavoro e famiglia, una prospettiva di genere. Per chi, come chi scrive, ha fatto studi giuridico-economici è stata estremamente interessante, per i richiami agli studi di antropologia, la prima parte della lezione, affidata alla ricercatrice con interessi in sociologia del lavoro e della famiglia, disuguaglianze sociali, di genere e di generazione, fondatrice della Società delle Storiche, Alessandra Pescarolo.
In Genere, famiglia, lavoro. Convergenze e divergenze in Europa, la studiosa si è soffermata sulle tre aree culturali presenti in Unione Europea suggerite dallo studio di Olivier Galland e Yannick Lemel, Valori e culture in Europa, edito da Il Mulino nel 2010. Nel suo intervento Pescarolo si è chiesta se le fratture tra queste aree esistano ancora e se nel tempo siano state in grado di formare un’identità europea più condivisa, cercando di individuare processi di convergenza verso sistemi familiari, sociali e civici omogenei. Per fare ciò la relatrice si è servita di dati statistici di lunga durata, forniti da Ocse e Eurostat, che ha incrociato tra loro, confrontando Paesi diversi e tenendo sullo sfondo il percorso italiano. Le tre aree culturali individuate sono la mediterranea, la germanica e la scandinava. Nella mediterranea, in cui si inserisce quella italiana, insieme a quella spagnola e greca, le èlites, prevalentemente urbane, hanno avuto un ruolo importante nel frenare l’industrializzazione.
Come ha ricordato la relatrice, l’onore dei capi delle famiglie era la base dei rapporti sociali e delle negoziazioni, garantite anche dalla castità e dalla subordinazione delle donne. Questo modello era tendenzialmente votato all’autoconservazione sia economica, relativa alla proprietà dei loro beni, che dei rapporti familiari, per non correre il rischio di ibridarsi con gruppi socialmente mobili, in potenziale competizione. La cultura germanica era localizzata a Sud del Baltico e formata da Germani dell’Europa centrale che avevano popolato anche la Francia. Quest’area si caratterizzava per la gerarchia e a subordinazione al capo, mentre la scandinava, formata dai Germani del Nord, era fondata su una solidarietà comunitaria orizzontale forte, probabilmente dovuta alle condizioni climatiche che spingevano alla costruzione di comunità innovative e aperte, basate sulla fedeltà non al capo ma al gruppo e sull’impegno riconosciuto come valore, società in cui erano molto sviluppati il senso del dovere e il senso civico, enfatizzati dalla riforma luterana.
I processi di cambiamento in Europa sono stati osservati da Pescarolo nei diversi momenti di sviluppo e di crisi dalla seconda guerra mondiale a oggi. Incrociando dati relativi al numero di matrimoni negli anni, all’incidenza dei matrimoni con rito civile rispetto a quelli religiosi, al numero dei divorzi, al tasso di istruzione maschile e femminile, al tasso di occupazione femminile e maschile, è emerso un quadro della società italiana diverso da quello che ci si sarebbe aspettato: la deistituzionalizzazione della coppia coniugale e la secolarizzazione dei matrimoni non sono andati di pari passo con le fasi di sviluppo dell’economia e con i periodi di prosperità, come nei Paesi nordici, ma hanno accompagnato le fasi di crisi del sistema e sono avvenute tardi rispetto ad altri Paesi dell’Unione.
Tuttavia una convergenza nei modi di fare famiglia all’interno dell’Unione, se pure in tempi diversi, può ritenersi raggiunta, anche se, per quanto riguarda l’Italia, è segno di un individualismo non moderno o propulsivo, ma difensivo, rispetto ai rischi che oggi la solidarietà di coppia può contenere. Un altro dato significativo ha riguardato il livello di istruzione della popolazione maschile e femminile, che ha visto un’istruzione femminile molto più alta di quella maschile, anche se bassa nel confronto con gli altri Paesi europei. L’istruzione maschile italiana supera solo quella della Romania all’interno dell’Unione e nell’insieme influisce sulla qualità della vita politica e culturale, sulla scarsa partecipazione alla vita politica, sui consumi culturali e sulla bassa fiducia nelle istituzioni.
Per quanto riguarda il lavoro, le divergenze tra i Paesi dell’Unione persistono, soprattutto fra i giovani e le donne. Le curve europee dell’occupazione giovanile sono fluttuanti e sensibili alle crisi, proprio perché questa quota di lavoro non è stabilizzata e dipende dalle fluttuazioni economiche, con l’unica eccezione tedesca. La situazione italiana è gravissima, il tasso di occupazione delle e dei giovani italiani è bassissimo nel confronto con gli altri Paesi. La crisi del lavoro si esprime anche in termini di qualità dei contratti. Dal 1992 sono cominciate le liberalizzazioni dei contratti part-time, in una corsa che ha superato la Germania. La percentuale di donne che svolgono part time involontario in Italia raggiunge livelli impressionanti: il 78% delle donne che fanno part-time vorrebbe fare un lavoro full-time, il che segnala che questo tipo di contratto non è funzionale a dare risposte alle donne nei momenti della massima fecondità o quando figlie e figli sono piccoli, ma è quello di creare un’occupazione che costa poco e che fa risparmiare costi. L’ultima slide della presentazione della relatrice ha mostrato il rischio di povertà dell’Italia. Da dati forniti da Eurostat il nostro Paese è il terzo a rischio povertà dopo Spagna e Romania.
In conclusione, il quadro che ne esce, supportato da dati contenuti nell’interessantissimo paper di Pescarolo condiviso con le persone iscritte al corso, Differenze fra Paesi in Europa: scarti e convergenze in una prospettiva di genere, di generazione, di classe è quello di una società ferma a un bivio, attratta da una parte da modelli laici, che di solito sono legati a fasi di prosperità economica, dall’altra condizionata da una situazione economica che la spinge verso il basso; una società smarrita, poco coesa, richiusa su sé stessa, con un forte individualismo difensivo, caratterizzata da una cultura del risentimento che alimenta i populismi. Alla fine della sua relazione Pescarolo ha proposto un’interpretazione, non verificata ma collegata alla politica, della specificità italiana, ipotesi suggestiva, che qui non si può riportare, ma che ha offerto spunti interessanti per successivi sviluppi di ricerca.
«Come il lavoro si interseca con la costruzione dell’Unione europea in una prospettiva di genere?». Da questa domanda è partita la seconda parte della lezione, condotta da Eloisa Betti, docente di Storia del lavoro presso l’Università di Bologna, con dottorato di ricerca in Storia d’Europa, co-coordinatrice del Feminist Labour History Group, responsabile scientifica della Rete Archivi Udi Emilia-Romagna e dell’Archivio UDI di Bologna, che ha fatto precedere la sua relazione da una serie di premesse: nelle fonti sul lavoro questo termine per lungo tempo è stato declinato solo al maschile; si è distinto tra lavoro produttivo, lavoro riproduttivo e domestico e lavoro extradomestico; l’Ilo, organizzazione internazionale del lavoro, ha avuto un ruolo determinante nella costruzione dei diritti delle donne e in particolare della parità salariale; nella costruzione dei diritti e del lavoro al femminile hanno avuto un ruolo fondamentale le donne e il loro attivismo, soprattutto con l’emergere dei movimenti femministi e sindacali.
La storia del lavoro femminile e del suo riconoscimento è stata quindi spesso una storia dal basso, in cui attiviste, sindacaliste e lavoratrici hanno avuto un ruolo fondamentale. Chi si avvicini alla storia del lavoro in ottica di genere non può non rilevare l’invisibilità delle donne nelle fonti, non solo in quelle statistiche, invisibilità dovuta in primis a un linguaggio che non le prendeva in considerazione. Fino agli anni ‘70 negli studi storiografici per lavoro si intendeva solo quello pagato e svolto fuori dalle mura domestiche dal breadwinner, dagli anni ‘70 in poi ha cominciato a definirsi lavoro anche quello domestico e riproduttivo (per la riproduzione sociale), svolto dalle donne nelle case; negli anni ‘80 si è parlato di sex work, intendendo per lavoro anche quello svolto dalle prostitute; dagli anni ‘90 si è cominciato a parlare di care work, o lavoro di cura, che sottolinea l’aspetto relazionale; dagli anni Duemila è stato introdotto il concetto di Intimate work, critica della mercificazione dell’intimità nella società globalizzata. La presentazione di Betti ha avuto una grande attenzione alle possibili applicazioni e ricadute didattiche dei contenuti trasmessi. Molto utile a tal fine il richiamo a una serie di parole-chiave per chi si approcci a un’analisi storica in ottica di genere: diritto, protezione, parità, differenza, pari opportunità, divisione sessuale, discriminazione, conciliazione, femminilizzazione, segregazione, soffitto di cristallo, cura, corpo.
La relazione della storica del lavoro ha avuto per oggetto tre assi: quello nazionale, quello internazionale e quello europeo nell’analisi dei rapporti tra lavoro, genere e diritti. Il punto di avvio della legislazione nazionale sul lavoro femminile e sulla parità salariale, come ha ricordato Betti, è rappresentato dalla Costituzione repubblicana, che peraltro ha avuto bisogno, nei primi trenta anni di storia repubblicana, di molte leggi di attuazione per vedere realizzati i suoi principi e valori. Il cammino per la realizzazione della parità è stato lungo e sollecitato dalla mobilitazione delle donne. Tra le leggi citate una grande importanza ha rivestito, anche per il contributo che vi ha dato Teresa Noce, la legge sulla «Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri» del 1950, come anche quella sui licenziamenti a causa di matrimonio del 1963, che ha cercato di contrastare, anche se non completamente, le clausole di nubilato e il fenomeno delle dimissioni in bianco, che purtroppo ha dovuto essere normato nuovamente da una legge del 2010. Betti ha ribadito che dietro ognuna di queste leggi ci sono state le mobilitazioni delle donne lavoratrici, delle associazioni sindacali, delle associazioni femminili e da ultimo delle donne che erano in Parlamento.
Commentando ogni singola legge che ha dato attuazione ai principi costituzionali in materia di parità e lavoro, ne ha richiamato i punti essenziali. Si è poi soffermata sulla Fondazione, nel 1919, dell’Oil o Ilo, agenzia specializzata delle Nazioni Unite per la promozione del lavoro dignitoso e della giustizia sociale e sulle varie Convenzioni approvate dall’Oil sulle tematiche legate al lavoro femminile. Importantissima la Convenzione Oil sulla parità salariale del 1951, ratificata dall’Italia nel 1956, in un periodo in cui le retribuzioni in Italia erano ancora distinte per sesso, prima ancora che per mansioni. Nel Parlamento italiano degli anni ’50 fu Teresa Noce a presentare moltissime proposte di legge sulla parità salariale, proposte che non sarebbero mai arrivate alla fase deliberativa. La relatrice ha evidenziato che la definizione di parità salariale della Convenzione Oil è più ampia sia di quella della Costituzione che di quella dell’articolo 119 del Trattato di Roma e che si sarebbe dovuto attendere il 1977, nell’unico decennio in cui la Costituzione ha avuto grande attuazione, per vedere davvero sancito da una legge il principio della parità di trattamento tra uomo e donna in materia di lavoro, legge fortemente voluta da Tina Anselmi, prima Ministra italiana del Lavoro. Tra le donne che si sono impegnate per i diritti delle donne in materia di lavoro in ambito europeo e nazionale la relatrice ha sottolineato il ruolo fondamentale di Marisa Rodano, Presidente della Commissione di inchiesta sulla situazione della donna in Europa.
Eloisa Betti ha infine approfondito il tema della precarietà del lavoro in ottica di genere, un fenomeno che si tende ad associare ai tempi che stiamo vivendo ma che ha caratterizzato il lavoro femminile a partire dagli anni Cinquanta a oggi. Fenomeno nazionale, europeo e globale. Anche il Parlamento europeo se ne è interessato con una prima Risoluzione del 2010 e nel 2020 ha redatto un nuovo rapporto, tenendo conto dell’aumento della precarietà femminile nella pandemia. In questi documenti europei si discute di come la precarietà abbia una connotazione di genere e si evidenzia che uno degli aspetti è lo sbilanciamento dei compiti di cura in famiglia nei confronti delle donne, con ripercussioni che in Italia si manifestano nella riduzione involontaria dei tassi di fertilità, nella maggiore difficoltà delle donne a essere stabilizzate e nella ricaduta negativa in termini di povertà.
A completamento della sua relazione Betti ha fornito materiali di approfondimento ai e alle corsiste sia sul tema della precarietà del lavoro femminile sia sui movimenti femminili che hanno spinto per una vera parità salariale e di trattamento nella storia italiana. Le due relazioni del quarto incontro del corso hanno stimolato il dibattito sul ruolo dell’Unione Europea come salvaguardia dei diritti in Italia e come paracadute, sull’esistenza di movimenti dal basso in qualche modo paragonabili a quelli per la parità che possano agire per una piena attuazione delle direttive europee, sul lavoro di cura e sulla condivisione dei compiti di cura all’interno delle famiglie, sulla cultura imprenditoriale italiana, ancora piuttosto arretrata e che continua a considerare la maternità come una malattia, sulle discriminazioni persistenti sia in sede di reclutamento che di progressione di carriera nei confronti delle donne. L’incontro è stato stimolante e ricco di spunti anche per le ricadute didattiche nelle classi.
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Articolo di Sara Marsico

Ama definirsi un’escursionista con la e minuscola e una Camminatrice con la c maiuscola. Docente per passione da poco in pensione, è stata presidente dell’Osservatorio contro le mafie nel sud Milano e referente di Toponomastica femminile nella sua scuola. Scrive di donne, Costituzione e cammini.