Un avviso alle e ai naviganti: questa non sarà una recensione educata. Pochi virtuosismi, poca retorica. Non c’è più tempo.
Bisogna rovesciare le carte in tavola, strapparle e farle ingioiare. E, poi, bisogna anche afferrare la tavola e spaccarla.
Questo perché le regole che tengono in ordine le carte e in equilibrio il tavolo sono scritte, dettate e pensate dal maledetto patriarcato. Non mi credete? Pensate che stia esagerando? Pensate che, in fondo, questa parola così enorme di suono e significato sia abusata, sproporzionata, eccessiva?
Leggete questo libro.
Siete donne? Leggete questo libro. Siete uomini? Leggete questo libro. Siete eterosessuali, omosessuali, bisessuali, pansessuali, queer? Leggete questo libro. Siete cisgender, transgender, gender fluid? Leggete questo libro.
Credete che il femminismo sia anacronistico? Leggete questo libro. Siete femministe? Femministi? Leggete questo cazzo di libro. Leggetelo, regalatelo. Parlatene. Contestatelo, se volete. Ma non lasciate che le braccia spalancate della sua autrice restino vuote, che il suo appello alla sorellanza rimanga inascoltato.
Mona Eltahawy è una giornalista, attivista, femminista egiziana. È stata arrestata nel 2011 durante le proteste di Piazza Tahrir e, una volta in mano ai paramilitari, è stata picchiata, torturata e abusata. Le hanno spezzato il braccio sinistro e la mano destra. Volevano spaventarla. Volevano inibirla e farla tacere. Volevano dirle che, in quanto donna, gli unici posti che avrebbe dovuto abitare erano l’ombra e il silenzio. Ma lei non c’è stata. Al buio, ha risposto con una massa di capelli rosso fuoco, quasi a urlare: «Volevate che sparissi? E invece eccomi qui». Al silenzio, ha opposto libri, parole, conferenze, articoli. Non c’è nulla di fermo, in Mona Eltahawy. Nulla di tranquillo. Nulla che non sia rivoluzionario e meraviglioso. Nulla che non sia libero.
E tutto ciò che ella fa ed è verte a un solo scopo: mandare il patriarcato a farsi fottere. Farlo sparire, eliminarlo, rovesciarlo, spaccarlo e farlo ingoiare a chi lo tiene in piedi, ne segue i dettami, ne nega l’esistenza.
«Fuck the patriarchy!» è il suo inno e la sua missione.
Ne fa un discorso femminista, certo: Mona Eltahawy è una delle più influenti e straordinarie femministe del panorama contemporaneo. Ma, soprattutto, ne fa un discorso di autodeterminazione, di agentività, di libertà.
Ci mostra che la misoginia, ma anche il razzismo, l’omofobia, la transfobia, l’ageismo e pure il capitalismo sono tutte espressioni di quella «merda del patriarcato». E questa merda è pervasiva, capillare, sistematica. Sa essere latente. Si nasconde dietro i vari “è tradizione”, “si è sempre fatto così”. “ci sono cose più importanti”; dietro il chemidicismo, «un ritornello […] in cui per sviare l’attenzione dall’argomento in questione, chiedono: “E che mi dici di x, y e z?”». Dio, il cazzo di chemidicismo! Quante volte, noi che ci occupiamo di parità di genere, ce lo sentiamo sbeffeggiare addosso?
Il chemidicismo è storico e geografico. C’è sempre un prima e un altrove nei quali la situazione pare essere peggiore. Di solito però, chi si aggrappa al “le cose importanti per cui battersi sono altre” e al “guardate lì. Lì sono i veri problemi” non si batte proprio per nulla. Vaglielo a spiegare, a questi ignavi e a queste ignave, che quella merda sta ovunque. È democratico, il bastardo. E se anche non vogliono stare dalla nostra parte, che almeno non si permettano di irriderci. Perché se loro non lo vedono, noi, però, sappiamo; e Mona Eltahawy arriva come una sberla a spiegarcelo perfettamente.
Ci mette in guardia sul fatto che ormai siamo in guerra. Non possiamo più tirarci indietro. O scegliamo di sottostare alle leggi, alle regole, ai pregiudizi che il patriarcato detta e mantiene in vigore, o iniziamo a strappargli la pelle, a prenderlo a calci furiosi fino a che non si schioda dal potere. Se scegliamo la prima ipotesi, dobbiamo avere la consapevolezza che ci stiamo comportando come «quelle donne bianche [che] hanno permesso alla loro razza di surclassare il loro genere, convinte che la docilità, condiscendenza e lealtà alla supremazia bianca le avrebbe protette dai danni del patriarcato che il resto di noi sperimenta. Io le chiamo operaie del patriarcato». Perché il maledetto, come in un diagramma di Veen, computa e mostra i motivi per cui una donna è sbagliata. Può essere l’etnia, la religione, l’aspetto fisico, la povertà. Avremmo sempre “colpe” che si vanno a sommare l’una all’altra. Quello che per il maschio dominante è un pregio, per noi finisce sempre, in un modo o nell’altro, per essere un difetto.
Se non ci imponiamo, saremo sempre minoranza, saremo sempre margine.
È guerra e dobbiamo combatterla. Le nostre armi? Ce le sta donando Mona Eltahawy. Sette peccati da coltivare e di cui andare orgogliose. Sette grimaldelli con cui scardinare lo status quo e rompere finalmente il culo al patriarcato, a chi lo difende, a chi lo rappresenta: rabbia, attenzione, volgarità, ambizione, potere, violenza, lussuria.
Il patriarcato dette le leggi? Trasgrediamole.
La disubbidienza deve diventare una risorsa e un valore, assoluto, di rivoluzione. Dobbiamo essere delle incazzate, pretenziose, maleducate, affamate, fagocitanti, feroci puttane.
Dobbiamo ribaltare ciò che il patriarcato ha sempre preteso da noi. Dobbiamo strappargli a nervi vivi anche la possibilità di giudicarci e insultarci. Facciamo diventare nostri pregi e nostra forza ciò che, addosso a noi, è sempre stato difetto e vergogna.
Il viaggio che l’autrice ci fa compiere fa indignare, fa schiumare. Non c’è una sola parte del mondo in cui le donne abbiano il pieno, sacrosanto e totale diritto all’autodeterminazione, senza dover scendere a compromessi. Mai. Da nessuna parte. Non c’è stata mai, da nessuna parte, una donna che non sia stata abusata. Che non abbia sentito il maschio addosso a sé, fisicamente o psicologicamente. Anche chi scrive, ha avuto — e non una volta — una mano sul culo, sul seno. Un porco, una volta, sul pullman, ha appoggiato i suoi genitali al mio fondoschiena, come se, il fatto stesso che io portassi in giro il mio corpo, gli avesse dato il permesso di usarlo come meglio credeva.
Ciascuna di noi, sono certa, potrebbe raccontare qualcosa di simile.
E Mona Eltahawy dice proprio questo. Siamo sorelle, tutte. E quando ce ne accorgeremo, finalmente, potremmo davvero cambiare le cose. Perché ci sono state donne, straordinarie, meravigliose donne, che con le loro azioni e i loro pensieri ci hanno provato.
Sette peccati necessari è un libro arrabbiato, urlato, battuto, strappato, sputato. È un libro prezioso, indispensabile, necessario. Ci insegna che il femminismo non è il computo delle donne nei ruoli chiave. Non ce ne facciamo nulla se poi quelle stesse donne non combattono per mandare il patriarcato a farsi fottere. Noi non vogliamo essere potenti. Noi vogliamo essere libere. Padrone del nostro corpo, che esso sia nudo o completamente coperto; padrone della nostra mente, che possa pensare finalmente ciò che vuole, senza doversi sorbire il «minchiarimento» («il termine “minchiarimento”, insieme a “maschiarimento”, è una delle soluzioni di traduzione proposte per il termine inglese “mans-plaining”, coniato da Rebecca Solnit, per indicare le situazioni in cui gli uomini forniscono spiegazioni non richieste alle donne in tono paternalistico, su cose ovvie o cose che loro conoscono bene») a ogni occasione; padrone della nostra figa, ché la Chiesa, lo Stato e la strada ne stiano lontani; padrone della nostra essenza più intima, che essa possa esprimersi senza timore di essere condannata per ciò che è o rappresenta.
Noi abbiamo il diritto e il dovere di inventare il potere che la nostra libertà richiede, dice Mona Eltahawy.
Facciamo nostro il suo appello. Non permettiamo che qualcuna di noi rimanga indietro. «Ognuna che manca mi diminuisce», scriveva Carla Lonzi.
Sono troppe le assenti. Adesso basta.
«Non ci lasceremo bruciare perché questa volta il fuoco è nostro».

Mona Eltahawy
Sette peccati necessari. Manifesto contro il patriarcato
le plurali, Morlupo, 2022
pp. 301
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Articolo di Sara Balzerano

Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.