Mancano pochissimi giorni al 2023 e possiamo affermare con certezza che si sono fatti enormi passi avanti in tema di parità nella nostra cultura. Con grande dispiacere è però possibile incontrare ancora episodi che raccontano tutto, tranne un effettivo passo in avanti in merito ai diritti delle donne nel mondo dello sport. Di fatto, nonostante i miglioramenti nel raggiungimento dell’uguaglianza di genere anche nell’ambito sportivo, le atlete si trovano ad affrontare ancora molti ostacoli.
Non è infatti un caso strano che si senta ancora parlare di oggettivazione sessuale, soprattutto nei confronti delle atlete. Ma conosciamo bene il reale significato che si cela dietro a questa parola, protagonista del dibattito che oramai viene portato avanti da moltissimi anni. Allora, per oggettivazione sessuale o sessualizzazione, intendiamo il concetto secondo cui il valore di un individuo viene attribuito alla sola capacità di attrarre sessualmente l’altro, tralasciando totalmente in secondo piano qualsiasi altro aspetto e qualità personale. La sessualizzazione dei corpi, come discusso dall’ampia letteratura in merito, è prettamente esercitata sul genere femminile, di fatto è un fenomeno che pianta le sue radici nella cultura maschilista e in quella società patriarcale, che si spera tanto di aver superato.
Il fenomeno della sessualizzazione dei corpi femminili è stato incoraggiato in maniera sempre maggiore dalla diffusione dei mass-media e dall’avvento dell’era dei social network. Entrambi questi canali di comunicazione hanno condizionato il pensiero di molte donne, ma soprattutto bambine, facendole arrivare alla convinzione di dover essere sessualmente attraenti in funzione del solo apprezzamento maschile.
In questo caso si parla di “sessualizzazione precoce”, che porta con sé come conseguenza più grave l’auto-oggetivazione. Questo fenomeno viene teorizzato dalle studiose Barbara Fredrickson e Tomi-Ann Roberts nel 1997, e spesso descritto come «l’interiorizzazione da parte della persona di un’immagine di sé come oggetto del piacere altrui, sulla base della quale dipende il proprio valore personale» (Associazione ARPEA Onlus). Il fenomeno della sessualizzazione nei confronti dei corpi femminili si è radicato in precisi ambiti, tra questi troviamo sicuramente le manifestazioni sportive e realtà televisive.
Ricordiamo a tal proposito un recente episodio, avvenuto il 27 novembre 2021, che ha visto come protagonista di questi atteggiamenti sgradevoli la giornalista Greta Beccaglia, molestata da alcuni tifosi mentre conduceva un servizio in diretta per la trasmissione sportiva dopo la partita di calcio. L’accaduto rappresenta un tipico esempio di come le donne non vengono ritenute altrettanto capaci rispetto agli uomini e per questo molto spesso viste come mero oggetto sessuale.
Concentrandosi soprattutto nell’ambito sportivo, partiamo con il ricordare un interessante film della commedia italiana, che probabilmente in maniera molto sottile e inconscia ha manifestato l’esistenza di questo fenomeno, confermando allo stesso tempo la triste realtà di una società ancora limitata da una cultura del tutto sbagliata. Sì, parlo proprio del film Maschi contro femmine, diretto da Fausto Brizzi, uscito nelle sale cinematografiche il 27 ottobre 2010. Durante tutto il film notiamo appunto come la bellissima pallavolista della serie A, interpretata da Giorgia Wurth, mette a dura prova un uomo sposato, interpretato da Fabio de Luigi; la pallavolista, infatti, attira spesso la sua attenzione proprio grazie alla divisa tipica del volley, ovvero delle piccolissime e strettissime culotte. Non è forse questo un tipico esempio di sessualizzazione e oggettivazione del corpo femminile?
Ma entriamo ora nel vivo della questione e vediamo quali sono stati gli episodi più recenti che hanno come protagonista le squadre femminili e la sessualizzazione del loro corpo. Partiamo con il dare l’incoraggiante e sorprendente notizia che la Federazione internazionale di pallamano ha finalmente cambiato il regolamento: le squadre femminili di beach handball non sono più costrette a indossare la divisa bikini, composta appunto da un top e uno slip, proprio perché ritenuta troppo sessista, mentre i maschi sono liberi di mettere un abbigliamento più comodo e coprente. È stata un’iniziativa presa volontariamente? Ovviamente no.
La decisione è stata scaturita da un episodio avvenuto a Settembre del 2021, quando le giocatrici della Norvegia sono state addirittura multate di 1500 euro dalla commissione disciplinare della Federazione europea di pallamano, perché durante una partita dei campionati europei, che si erano svolti in Bulgaria, a Varna, avevano indossato dei pantaloncini invece degli slip di un bikini, il tutto definito come “abbigliamento improprio” dalla stessa Federazione. Questa decisione è stata presa dalla squadra proprio come forma di protesta contro le regole considerate inique che indicano quale abbigliamento indossare nello sport, lotta iniziata già dal 2006.

In un’intervista alla capitana della squadra Katinka Haltvik, viene raccontato dalla stessa come il tutto sia avvenuto in modo molto spontaneo, senza troppo domandarsi che cosa sarebbe potuto succedere dopo e assolutamente non come segno di protesta. Le nuove regole della pallamano femminile per quanto riguarda l’abbigliamento prevedono che le atlete possano indossare pantaloncini corti aderenti, e non più slip del bikini con una vestibilità quasi nulla. Inoltre, i disegni inclusi nel nuovo regolamento non indicano più un top succinto, richiesto in precedenza, ma una canotta simile a quella della divisa degli uomini, che prevede quindi canottiera e pantaloncini, fin sotto il ginocchio, purché non risultino troppo larghi.
Anche se la scelta della squadra norvegese di pallamano non era iniziata come segno di lotta o protesta, le difese a favore della squadra non sono state di certo poche. In prima linea troviamo l’attrice e attivista Talitha Stone, la quale sin dal primo momento si è dichiarata totalmente d’accordo con la decisione delle giocatrici norvegesi e ha così espresso la sua opinione rispetto all’episodio: «Spero che ciò sia l’inizio della fine del sessismo e dell’oggettivizzazione delle donne e delle ragazze nello sport». La decisione di procedere con la multa alle atlete norvegesi, infatti, ha fatto emergere più di una protesta, raccogliendo la solidarietà dell’organizzazione che si occupa di uguaglianza di genere: la Collettive Shout. La stessa che ha poi intrapreso una campagna premiata da ben più di 60mila firme. Sul tema si era poi espressa anche la cantante statunitense Pink, che per prima si era offerta di pagare la multa imposta dalla Federazione alla nazionale femminile norvegese, argomentando e denunciando il tutto attraverso Twitter

La solidarietà si è fatta sentire anche dalle squadre femminili di altri sport, come le ginnaste tedesche che durante la loro performance a Tokyo nella terza giornata dei giochi olimpici, hanno indossato delle tute integrali contro la sessualizzazione dei corpi femminili, dando adito a un nuovo incessante dibattito, che ha portato a una prima grande vittoria, ovvero la decisione presa dalla Federazione internazionale di pallamano. Il detto in questo caso non si smentisce affatto, l’unione fa la forza!

Ovviamente questo non è stato l’unico episodio nel corso della storia, anzi abbiamo testimonianze di avvenimenti accaduti anche molti anni fa. Tutti e tutte noi, o quasi, ricorderanno il momento in cui Paola Pezzo, leggenda del ciclismo a livello internazionale, nel 1996 si abbassò leggermente la zip del body a causa del caldo opprimente di quella giornata. I giornali, da quel momento, fecero confluire tutta la loro attenzione unicamente su quel gesto, all’apparenza del tutto innocuo ma che condannò la ciclista di fama mondiale ad affermazioni e titoli quali «la zip birichina» o «sex symbol».
In quest’ottica, la decisione da parte delle atlete professioniste di prendere posizione risulta più che condivisibile e accettabile, dato che la spettacolarizzazione del corpo della donna nell’ambito sportivo ha sempre avuto come fine la pura e semplice monetizzazione, realizzata proprio grazie alla vendita di più biglietti e, come da molti affermato, alla maggior partecipazione di un pubblico maschile: possiamo quindi definirla come un must in campo economico. Un esempio ci viene fornito da Paisan Rangsikitpho, vicepresidente della Badminton World Federation, la quale nel 2011, parlando al New York Times, afferma che se le donne sono più belle in campo aumenta così anche il loro valore di marketing, citando testuali parole: «Pensiamo che lo sport meriti più spettatori, ma non si tratta di vendere sesso. Vogliamo solo che le giocatrici sembrino “femminili” in modo che siano più “popolari”» (Alice Castiglione, “Le divise delle atlete: diversi sport, stesso problema”, in Ecointernazionale.com, 31 Luglio 2021).
Le atlete scelgono, quindi, di tutta risposta, di coprirsi anche per evitare eventuali penalizzazioni durante le gare, o semplicemente per il non sentirsi costantemente preoccupate se per sbaglio qualcosa è fuori posto durante l’esecuzione dell’esercizio e le varie competizioni, imbarazzo e fotografie da gossip in cui non vogliono, comprensibilmente, essere raffigurate. Ma anche e soprattutto per una scelta personale per sentirsi sempre a proprio agio e non vivere con un senso di malessere mentre gareggiano. Questa presa di posizione, di fatto, esprime la necessità di stabilire un confine tra quello che è estetica e quello che riguarda la sessualizzazione del corpo delle donne, ma soprattutto con la ferrea volontà di arrivare a un effettivo cambiamento.
La domanda che a questo punto sorge spontanea è se da sempre le divise delle atlete hanno rimarcato questi preconcetti e se sin dai primissimi giochi Olimpici lo scopo dell’abbigliamento era quello di marketing o se effettivamente aveva una funzione relativa al tipo di sport praticato. Il dato sorprendente è relativo al fatto che nel 1900 accadeva l’esatto opposto, di fatto l’abbigliamento delle donne sembrava più adatto a un salotto da tè più che a una competizione, le ragazze scendevano in campo indossando abiti lunghi fino alle caviglie, un corpetto di pizzo e un cappello. Circa vent’anni dopo la tennista Suzanne Lenglen è la prima donna a presentarsi con una gonna che arriva appena sopra il polpaccio. Mentre poi per gli uomini bastò arrivare negli anni quaranta per indossare pantaloncini corti, per le donne ci vollero, invece, altri dieci anni, e a differenza della controparte maschile gli abiti corti delle atlete scatenarono reazioni inorridite da parte del pubblico.
Tutto ciò conferma ancora una volta il divario di genere che da sempre esiste nello sport e il fatto che le professioniste non sono mai state libere di scegliere cosa indossare, senza attirare pregiudizi e commenti il più delle volte per nulla piacevoli. Tutte e tutti noi, prima o poi, riusciremo ad abbattere il muro dei preconcetti. Quando quel giorno arriverà, esso rappresenterà un momento di straordinaria importanza, poiché l’intera società dimostrerà di aver realmente compreso quanto le differenze di genere, che ogni anno sfociano in continue lotte e proteste e che toccano vari ambiti della vita di tutte noi, rappresentano un enorme limite e quanto, piuttosto, l’avere in comune precisi obiettivi e la sana competizione siano un valore assoluto e di grandissima ispirazione.
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Articolo di Cecilia Cavagna

Laureata in Sociologia, è iscritta al corso di Laurea magistrale “Organizzazione e marketing per la comunicazione d’impresa”. Appassionata alle tematiche di genere, la sua tesi triennale affronta il caso italiano dei vincoli che le donne incontrano nel raggiungere posizioni apicali nelle aziende. Appassionata di psicologia sociale, ama viaggiare e fare lunghe passeggiate con il suo cane, adottato in un canile di Roma.