La seconda parte di America, intitolata Duelli per l’anima dell’America, inizia con il saggio di Richard Kreitner, Un popolo di secessionisti cronici, in cui, ripercorrendo la storia americana, lo scrittore e saggista arriva alla conclusione che, a dispetto del nome, gli Stati Uniti siano sempre stati divisi e che le dichiarazioni e i propositi di secessione di questi ultimi anni non rappresentino nulla di nuovo. A unire popoli tanto diversi tra loro è stato probabilmente solo il desiderio di indipendenza dalla Gran Bretagna. Con una interpretazione per noi europei ed europee inaspettata, il collaboratore di The Nation arriva addirittura a definire un colpo di Stato l’accordo stipulato in segreto a Philadelphia tra George Washington, Alexander Hamilton, James Madison e altri, «una cerchia di alcuni fra gli uomini più ricchi del paese, la maggior parte dei quali possessori di schiavi», che portò alla Costituzione del 1787, entrata in vigore nel 1789. Le argomentazioni alla base di questo ragionamento potranno essere scoperte dalla curiosità di lettrici e lettori. «Se nei prossimi decenni gli Stati Uniti dovessero andare in frantumi, si dovrebbe interpretare questo evento come il compimento – non come il ripudio – della storia americana, con i suoi quattro secoli di disunione». Così si chiude l’articolo di Kreitner.

Come siano cambiati i rapporti tra Stato federale e Stati federati è messo bene in luce da Il Potere disperso di Greta Cristini. Come tutti sanno, il federalismo americano diffida del potere centrale, fin dal tempo dei Padri fondatori (framers), che crearono un sistema di checks and balances tra le prerogative di ciascuna istituzione federale o statale e un potere diffuso sul territorio. Lo ricorda bene anche Lorenzo Di Muro nel suo saggio, rammentando che «ogni ingerenza del governo centrale è accolta con sospetto e il diritto alla resistenza considerato sacro. Da Thomas Paine a Thomas Jefferson sino a Ronald Reagan, stando al quale «il governo non è la soluzione del problema, è il problema». In questi ultimi anni è in atto uno svuotamento del potere centrale a vantaggio degli Stati, sempre più intenzionati a riservare a sé stessi la disciplina di questioni che interessano la vita delle persone. Ne è un esempio efficace il tema dell’aborto.

La storica sentenza Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization del 24 giugno 2022 ha annullato il super precedente Roe v. Wade del 1973. Non tutti però sanno che questa sentenza è arrivata al termine di un processo iniziato intenzionalmente nel 2018 dallo Stato del Mississippi per mettere in discussione gli standard contenuti in Roe. La Corte riformata in senso conservatore da membri fedeli a Trump ha tolto il rango costituzionale all’autonomia riproduttiva, ritenendolo non «profondamente radicato nella storia e nella tradizione nazionale» del paese, e ha conferito ai singoli Stati la regolamentazione dell’aborto. Tredici Stati oggi hanno il divieto assoluto di aborto e due lo vietano alla sesta settimana di gravidanza. Alcuni Stati democratici, invece, stanno già approvando leggi per ammettere il diritto all’aborto o per proteggere gli operatori sanitari. Il Connecticut ha consentito ai medici assistenti e alle infermiere di praticarlo. Il Kansas ha rigettato una proposta di emendamento costituzionale che lo limitava. California, Vermont e Michigan hanno votato per inserire il diritto all’autonomia riproduttiva nelle Costituzioni degli Stati. Ciò che preoccupa però è la sorta di “polizia morale” che alcuni Stati a guida repubblicana stanno instaurando utilizzando un espediente giuridico, che si ispira alle leggi Jim Crow sulla segregazione e che consentirebbero a singoli cittadini di intraprendere cause civili contro gruppi di persone in forza di leggi ad hoc che puniscono e reprimono attività personali come l’aborto, i diritti Lgbtq e la libertà e quella di insegnanti e studenti di discutere di razza, genere e orientamento sessuale in classe.

Dell’articolo L’America feroce rischia le tenebre, che indaga sulla riacutizzazione della violenza, è rilevante la parte sulle teorie complottiste.
«La maggior parte della violenza – come ricorda Jacob Ware – è ispirata dalla teoria della grande sostituzione (Great replacement theory), nota negli Stati Uniti anche come «genocidio bianco». Secondo tale teoria in tutto il mondo occidentale è in corso una deliberata sostituzione della razza bianca, di cui sarebbero responsabili alcune politiche razziali fermamente volute da ebrei e liberali. Si tratta di una teoria transnazionale, che accomuna gli estremisti bianchi di destra di tutto il mondo e che è molto pericolosa per il senso di urgenza che diffonde. Gli estremisti sostengono che la sostituzione è in atto e che si può combattere solo con la violenza. «Le teorie cospirazioniste – sostiene ancora Jacob Ware – favoriscono la disumanizzazione degli avversari politici, incoraggiando gli estremisti che vorrebbero eliminarli». Sulle teorie del complotto, che gradualmente attribuiscono un ruolo determinante al Governo, traccia un excursus molto articolato e documentato Di Muro, grazie al quale è per noi più facile comprendere le ragioni dell’esistenza delle milizie nei vari Stati e dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.

Chi volesse cimentarsi con il mito dell’innocenza americana troverà particolarmente stimolante l’articolo di Giuseppe De Ruvo, Niente innocenza niente impero, che, partendo da una provocazione di James Ellroy, contenuta in American Tabloid, («L’America non è mai stata innocente. Abbiamo perso la verginità sulla nave durante il viaggio di andata e ci siamo guardati indietro senza alcun rimpianto. Non si può ascrivere la nostra caduta dalla grazia ad alcun singolo evento o insieme di circostanze. Non è possibile perdere ciò che non si ha fin dall’inizio. La mercificazione della nostalgia ci propina un passato che non è mai esistito») ripercorre il mito dell’innocenza americana da Ralph Waldo Emerson in poi, fino a Wilson e a Kissinger, a riprova che chi voglia formarsi in geopolitica non può fare a meno di conoscere la letteratura, l’arte, la musica, il cinema, come ricorda spesso Lucio Caracciolo alle e agli studenti della scuola di Limes.
Nella seconda parte dell’articolo l’autore accenna al sistema scolastico statunitense e al modo in cui vi si racconta la storia americana, definito con il termine safetyism, «un particolare metodo di insegnamento che, lungi dall’incoraggiare il dibattito critico su temi divisivi e scottanti, tende direttamente a evitarli. Ciò comporta che l’approccio dei giovani verso tematiche come il razzismo non sia mediato dall’istituzione scolastica ma avvenga in maniera disordinata, favorendo prese di posizione acritiche. Paradossalmente […] il safetyism, invece di mettere davvero «al sicuro» i ragazzi, li spinge verso gli opposti estremismi della cancel culture e del suprematismo bianco, giacché essi tendono sempre più a informarsi in Rete su questi temi, finendo rapidamente in bolle autoreferenziali estremiste».
Sulla stessa lunghezza d’onda e sulla base delle stesse critiche si muove lo storico Niall Ferguson, intervistato da Petroni in La crisi delle università è una minaccia alla sicurezza nazionale. Se per ottime università si intendono quelle più costose, le Università americane lo sono. Ma lo studio della storia e delle relazioni internazionali nell’Accademia ha avuto una svolta definita pessima dallo storico conservatore. «Oggi il dibattito è limitato da criteri woke, che stabiliscono ciò che può e non può essere detto. L’accademia è diventata politicamente omogenea». Penetrato nel linguaggio politico anche in Europa, Asia e America Latina, woke, che letteralmente significa «stare all’erta» ed indica la consapevolezza verso un linguaggio razzista o sessista, viene utilizzato principalmente da conservatori e libertari di destra per denigrare l’ortodossia di sinistra, etichettandolo come “politicamente corretto”.

La critica di Ferguson è molto feroce e si spinge a mettere in discussione la capacità dei futuri decisori che si stanno formando in queste Università di leggere il presente e di fare scelte adeguate per il loro Paese. La storia ricopre ormai una funzione limitata nella formazione degli studenti. Pochi laureati e laureate a Harvard, Yale, Princeton o Stanford conoscono davvero la storia. Il processo decisionale degli Stati Uniti ha sempre avuto questo difetto, secondo Ferguson, ma oggi l’ignoranza è molto più grave. La capacità di pensare in modo strategico non dipende soltanto dalla conoscenza storica, sostiene il professore: occorre possedere una buona conoscenza della letteratura classica e della filosofia. Un decisore non può prescindere dal pensare in modo critico. Un passaggio che colpisce è questo: «Kissinger, che aveva un’impressionante capacità di entrare nella testa degli altri, una volta disse che la storia è per le nazioni ciò che il carattere è per le persone. Mi chiedo come si possa pensare di trattare con Vladimir Putin e Xi Jinping senza avere una buona conoscenza del passato russo e cinese. Se ci illudiamo che basti affidarsi ai modelli astratti della teoria politica non andremo molto lontano. Negli Stati Uniti tendiamo a pensare che tutti siano in cammino per diventare americani e che con il nostro aiuto potranno completare questa trasformazione. Ma la nostra concezione del mondo è molto diversa da quella di un russo, di un cinese e perfino di un europeo. Il declassamento della storia e della letteratura nei corsi di studio riduce quindi l’efficacia del processo decisionale, poiché priva gli studenti dei mezzi per mettersi nei panni degli altri, per capire il modo in cui pensano i rivali strategici. Con il rischio di non sapere anticipare le loro risposte alle nostre mosse». I libri di testo adottati nelle scuole nei diversi Stati raccontano storie diverse. Ce lo ricorda Elia Morelli nel suo approfondimento La guerra delle pedagogie spacca l’America. Se nel Texas, lo Stato della Stella Solitaria, gli studenti apprendono quanti ecclesiastici hanno firmato la Dichiarazione d’indipendenza, e quanto importante sia stata la religione protestante per ispirare i Padri fondatori, in California si evidenzia il contributo offerto da Crispus Attucks, l’uomo di colore ucciso nel massacro di Boston del 1770, assurto a simbolo del ruolo dei neri nel percorso rivoluzionario.

Nei manuali texani gli africani trasportati in America sono definiti come semplici immigrati, non si menzionano il Ku Klux Klan né le leggi Jim Crow, con cui si affermò la segregazione razziale. Gli esempi e le differenze riportati sono molte, tra cui le politiche antiabortiste e anti gender del Governatore della Florida; tutte però hanno un elemento comune: acuire le divisioni tra i diversi Stati federati e rinvigorire l’orgoglio del ceppo bianco dominante L’ultimo articolo su cui soffermarsi per capire la tempesta americana è La galassia ispanica spaventa l’impero, in cui si sottolineano il peso demografico e politico dei latinos. Senza dimenticare che l’immigrazione messicana è l’unica che può rivendicare il «diritto storico» al possesso di un territorio: «I territori compresi tra il bacino del Mississippi e Texas, New Mexico, Arizona, California, Nevada, Utah fino a parte di Colorado, Kansas, Wyoming e Oklahoma vennero ceduti dal Messico (all’epoca circa il 55% del suo territorio) agli Stati Uniti con il trattato di Guadalupe Hidalgo dopo la guerra del 1846-48. Diversamente da altri immigrati, i chicanos provengono da un paese confinante che ha subìto una bruciante sconfitta e sono stanziati in massa proprio in quei territori «irredenti», un tempo parte della patria originaria». Ma sotto il termine ispanico non si raggruppano solo i messicani. Interessante sarà apprendere, come ricorda De Noto, che gli Usa non hanno una legislazione che imponga l’inglese come lingua ufficiale: «Dal 2005 al 2019, il repubblicano Steve King ha presentato ciclicamente l’English Language Unity Act al Congresso, ma il disegno di legge non ha mai ottenuto il necessario supporto legislativo». E oggi le persone che parlano solo o prevalentemente lo spagnolo negli States sono più numerosi di quelle che parlano solo l’inglese.

La terza parte del numero di dicembre si intitola Sguardi eurasiatici e allarga la visuale alla guerra in Ucraina e alla posizione italiana nel nuovo contesto delle relazioni internazionali. Come ha scritto Niccolò Locatelli, il 2022 è stato un anno spartiacque, dopo il quale niente sarà più come prima. Nel suo bel saggio La fine della pace il Direttore della rivista Limes ha messo bene in luce il misunderstanding in cui tutte e tutti noi (definiti post-storici e post storiche) eravamo caduti chiamando Guerra fredda l’unico periodo di relativa pace sperimentato dalla parte di mondo in cui abitiamo e dalle generazioni nate dopo la fine della seconda guerra mondiale. Si sta ridisegnando un nuovo ordine del Pianeta. Si può prenderne atto passivamente o cominciare, dal primo gennaio 2023, Giornata internazionale della pace, da cittadine e cittadini italiani ed europei a fare piccole «sovversioni pacifiche», come quella di firmare la petizione online (https://www.unponteper.it/it/obiettori-ucraina-russia-bielorussia/?fbclid=IwAR0-3jX1Z-Isvroo2vnXMY0eBS3HEkVQpGCRc09Xu9HsSqPOugj9tdRRz5I) promossa da Un ponte Per con lo scopo di opporsi alla narrazione dominante che continua a ripetere che non esiste un’alternativa alle armi. In Ucraina e in Russia – dichiara Un ponte Per – ci sono migliaia di persone, di cui nessuno parla, che si rifiutano di imbracciare le armi, uccidere o essere uccise e chiamano all’obiezione di coscienza. Se siamo persone che non credono nella guerra come risoluzione delle controversie internazionali, esattamente come recita l’articolo 11 della nostra Costituzione, firmare può essere un esercizio di cittadinanza attiva che ognuna e ognuno di noi può compiere e che probabilmente sarebbe piaciuto a Gino Strada. Con questa petizione si chiede alla Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, al Presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, alla Presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola di concedere protezione e asilo ai disertori e agli obiettori di coscienza della Bielorussia e della Federazione Russa; di esortare il governo ucraino a smettere di perseguitare gli obiettori di coscienza e a garantire loro il pieno diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare; di aprire le frontiere a chi si oppone alla guerra nel proprio Paese mettendo a rischio la propria persona.
Con questa petizione Un Ponte Per si unisce all’appello “Object War” lanciato da Connection e.V., Int. Fellowship of Reconciliation, European Bureau for Conscientious Objection and War Resisters’ Int. in difesa degli obiettori di coscienza in Russia, Bielorussia e Ucraina.
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Articolo di Sara Marsico

Ama definirsi un’escursionista con la e minuscola e una Camminatrice con la c maiuscola. Docente per passione da poco in pensione, è stata presidente dell’Osservatorio contro le mafie nel sud Milano e referente di Toponomastica femminile nella sua scuola. Scrive di donne, Costituzione e cammini.