Di luce, crepe, spazi e parole. Pratica e vita di Gloria E. Anzaldúa 

L’oscurità non sarebbe tale se non ci fosse la luce, crepe luminose attraverso le quali vedere e riflettere su identità, spiritualità e realtà come fa Gloria E. Anzaldúa in un preziosissimo volume, Luce nell’oscurità. Riscrivere l’identità, la spiritualità, la realtà, del quale mi risulta arduo parlare per iscritto, in un testo da modellare necessariamente con una conclusione. La complessità e l’abbondanza di stimoli, a partire dalla genesi, lo sviluppo, i significati immediati, latenti ma fortemente vivi che lo attraversano, rendono la lettura esaltante e non la esaudiscono nel semplice atto di terminare le pagine. A intermittenza e dopo giorni avverto l’esigenza di ritornarci, di interrogare ancora righe, paragrafi, stralci. Fare ordine non è semplice, probabilmente perché si tratta di vita. Di sperimentare nuove mappe e nuovi modi di disegnare le stesse, chiamarle, chiamarsi. 

Leggere Anzaldúa può essere come attraversare una frontiera. Come intercettare e inserirsi in quelle crepe. Veder emergere la luce. Riappropriarsene. Fare un passo indietro. Per poi rendersi conto che la vita, sì, quella lì che tutto rende complesso, vuol dire proprio riattraversare. Oppure stare. In quello spazio. La nepalta: il luogo di mezzo, lo spazio di transizione, liminale, il ponte, l’aldilà, la sede di connessioni. 

Il libro, giunto in Italia grazie alla selezione e alla curatela del gruppo di Ricerca Ippolita (indipendente e multidisciplinare, nato nel 2004) parla infatti di come percorrere, attraversare e definire l’esistenza utilizzando canoni nuovi, parole nuove, metodologie differenti da quelle a cui siamo stati abituati in un mondo occidentalizzato e occidentalizzante, che vede nella monoliticità imposta dal pensiero dominante l’unica possibilità entro la quale incasellare tutto il resto. L’obiettivo di Anzaldúa, presente nel sottotitolo carico e significativo, è di riscrivere. L’identità, prima di tutto, e concepirla come in itinere, molteplice e difficilmente definibile. Poi la spiritualità, che entra prepotentemente nelle modalità di conoscenza e definizione, e la realtà, mettendovi al centro ciò che va oltre la sola manifestazione fisica, quella “oggettiva” in senso scientifico occidentale. Abbiamo imparato in un certo modo, e definito in base a quello, ma si può disimparare ed essere consapevoli dei molteplici movimenti di mente, corpo, corpi e mondo circostante che la realtà possono contribuire a leggerla, comporla, ridefinirla. Decolonizzarla. 

Gloria E. Anzaldúa (1942-2004) è stata un’intellettuale chicana texana, scrittrice, poeta, teorica femminista-queer, che, nella stragrande maggioranza delle sue opere artistiche e non, si è dedicata proprio a una nuova definizione dell’identità partendo dalla sua, stridente contro il binarismo imperante della società. Essere di razza “mista” vuol dire per Anzaldua combattere contro la scelta, che pare obbligata, in un mondo che chiede di schierarsi, di scegliere la tribù, di «aderire a standard etnici spesso contraddittori». Rifiutarsi di prendere posizione equivale a sconvolgere «il discorso razziale dominante» ma anche a premere «contro il cemento inamovibile delle discipline e delle credenze culturali fino a fiorire tra le crepe». Tuttavia l’autrice va oltre, affermando che non è sufficiente soltanto denunciare la fallacia del consueto e noto modello culturale, ma di creare nuove narrazioni, nuovi termini, piste alternative. L’insistere sulle parole e sui nuovi e vecchi significati da donare a quelli lisi, ma anche idearne di nuove, non è un puro esercizio di forma ma una pratica sincera e doverosa, che Anzaldúa rivendica con forza. Così l’Autohistoria diventa un nuovo modo di produrre conoscenza a partire dal sé, altri termini e concetti mutuati dalla cultura chicana e indigena (come la nepalta), si trasformano in assunti teorici riconducibili a inedite possibilità di produrre cultura al di fuori di quella egemone. La scrittura di Anzaldúa, in piena aderenza con le pratiche femministe, passa in maniera costante tra il personale e il collettivo, tra la grande storia e la storia familiare. Il racconto dell’11 settembre diventa personale e politico, nazionale e internazionale, la malattia – trattata in conclusione – è il contenitore di una narrazione intima, dolorosa e coraggiosa intersecata al potere che arte, scrittura e lettura hanno in chiave politica, pubblica, collettiva. 

Il volume porta inoltre all’attenzione il tema sostanziale della lingua e della traduzione. La scelta dell’editore e della traduttrice Laura Scarmoncin è quello di rendere la lettura in italiano il più possibile prossima a quella che sarebbe in originale, dove vengono utilizzate più lingue, le lingue della frontiera cara e fondamentale nel vissuto dell’autrice. Per me, lettrice italiana, la sensazione è quella di straniamento, di saltare ogni volta tra il sistema linguistico dentro al quale sono immersa parlo, leggo, scrivo, mi infurio e gioisco, ai termini e alle espressioni chicani e spagnoli, spesso intere frasi. Ci si sente disorientati, ma anche questo fa della “semplice” lettura di un libro un’esperienza pratica ed essenziale: ci si sente come chi non padroneggia del tutto la lingua dominante, come chi è costretto a chiedere e fermarsi un attimo nella comprensione, come chi è abituato a servirsi nello stesso momento, nello stesso discorso, di più gerghi e lingue. Un genuino esercizio di decolonialità, di messa in discussione dell’idea che un testo debba essere tradotto in italiano standard, la lingua che presumiamo venga impiegata nella produzione e nella fruizione della cultura, in maniera particolare di quella “alta”. Tradurre, inoltre, per arrivare a chi in originale, tra inglese e spagnolo, avrebbe avuto evidenti difficoltà e quindi utilizzare diverse lingue per diffondere, arrivare e (nel caso particolare delle lingue considerate marginali nel discorso accademico occidentale) fare di tutti gli idiomi reali e vitali strumenti di conoscenza. Ma il potere della traduzione sta anche nel fare proprie di una lingua e di una comunità alcuni paradigmi, ri-significarli criticamente cercando appunto la serie di suoni più consoni e aderenti ai bisogni. Come nel caso di empowerment, mutuato dal verbo inglese to empower e abbondantemente usato (forse, oserei dire, abusato) come prestito linguistico per indicare un miglioramento, un conferimento di potere. In italiano non esiste una traduzione letterale (c’è in spagnolo: empoderar) e dunque già da tempo in alcuni ambienti transfemministi si è coniato il neologismo “impoterare” che questa traduzione fa suo. E lo fa seguendo la lezione di Gloria E. Anzaldúa: di agire per il cambiamento, di praticare e creare qualcosa di nuovo oltre. Dalla nepalta, e dal dolore, dalle fratture, dalle frontiere, dalle discriminazioni – che viene meglio. 

Gloria E. Anzaldúa
Luce nell’oscurità (Luz en lo oscuro).
Riscrivere l’identità, la spiritualità, la realtà
Meltemi editore, Milano, 2022
pp. 276

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Articolo di Sara Rossetti

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Sara Rossetti ha conseguito un dottorato in Storia politica e sociale occupandosi di migrazioni femminili nel Novecento e un master in didattica dell’italiano a stranieri. È coautrice di “Kotha. Donne bangladesi nella Roma che cambia” (Ediesse, Roma, 2018). Si occupa di intercultura, migrazioni passate e presenti, didattica dell’italiano a stranieri, questioni di genere e opera come formatrice su questi temi. Lavora inoltre come insegnante.

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