«Gentile amica.
Il mio nome è Beata e ti scrivo questa lettera dalla Rzeczpospolita polacca, il mio Paese, il luogo che tanti chiamano patria ma che io invece considero semplicemente casa mia, senza, cioè, che subentri l’orgoglio malato a distinguermi da ciò che non mi è vicino. Tu dirai, come già in molte e molti fanno, che patria è parola nobile, e che non per forza debba portare con sé significati e sensi odiosi. Eppure, ogni volta che la sento pronunciare, mi pare di udire urla e boati e marce militari. Mi figuro uomini invasati di un qualche spirito fratricida. Mi sembra un termine maschile nella peggiore accezione possibile. È per questo, forse, che la Rzeczpospolita è per me terra madre; non armi, ma cultura, lingua, storia e cucina; non qualcosa che divide e circoscrive, che seleziona e scarta, ma entità che abbraccia, accoglie, unisce, dove i confini riescono a essere mani che invitano a entrare. Perché è soltanto mischiando e mescolando insieme che si ottengono i risultati migliori.
È quello che dico sempre a chi si gonfia la gola con la purezza: provate voi a fare un pane lasciando acqua, farina e lievito ben divisi in ciotole separate. Metteteli lì e poi compiacetevi del candore della farina, della trasparenza dell’acqua e della forza del lievito. Guardateli orgogliosi e continuate a compiacervi. E fatelo pure mentre il vostro stomaco inizierà a brontolare e a pregare che vi sopraggiunga un po’ di intelligenza.
Lo stesso accade con le parole. Che provino, questi cultori e queste cultrici dell’integrità, a scrivere o parlare usando solo termini dalle chiare origini nazionali, che non siano stati portati da un qualche altro popolo. Ti immagini che spettacolo incredibile? File e file di individui dai petti tronfi, dalla posa inamidata, dallo sguardo arrabbiato e fiero, con gli stomaci che brontolano e le bocche che balbettano. Ah! Offrirei tè e biscotti solo per avere un pubblico numeroso che possa finalmente prendersi gioco di loro!
E invece, troppo spesso accade l’esatto contrario. Il desiderio di accoglienza viene deriso e colpevolizzato. Eppure, dovremmo saperlo, noi uomini e donne di Polonia, cosa significhi sentirsi addosso la paura che annoda le viscere e mescola il respiro con il lamento.
Non so se lo sai, mia cara amica, ma la mia gente è stata fatta sparire. Per oltre un secolo, non siamo esistite ed esistiti più, fagocitati da potenze vicine che hanno deciso che non avevamo più il diritto alla nostra identità. Via la lingua, via i libri, via la cultura. Abbiamo lavorato nascosti nell’ombra della resistenza per tentare di salvare noi e la nostra storia. Come potremmo, quindi, non essere dalla parte di chi lotta per guadagnarsi, ogni giorno, il diritto a esistere?
Ti scrivo che sono di fronte a uno dei luoghi più cari al mio popolo: il Santuario della Madonna nera di Częstochowa. Sono qui e penso che il volto scuro di questa figura racchiude in sé il senso stesso della vita umana: pietà e meticciato.
Ora questa è una località tranquilla, ma tre secoli fa è stata teatro e testimone di uno dei momenti più importanti che il mio popolo abbia mai vissuto.
Era il tempo del potop, il diluvio svedese, l’invasione dal nord dell’esercito del re Carlo X Gustavo.
Approfittando di disordini scoppiati in terra cosacca, a seguito della rivolta guidata dall’atamano Bohdan Chmel’nyc’kyj che si era ribellato al regno di Polonia, aiutato anche dai moscoviti dello zar Alessio Michajlovič, il sovrano di Svezia, dietro un’apparente motivazione formale, ma con la reale volontà di conquistare uno sbocco sul Baltico, nel 1655 invase dal nord i territori della Rzeczpospolita. Varsavia, la capitale del regno, venne devastata. Per la prima volta, noi polacchi vedemmo eserciti stranieri accampati nei nostri confini. Le cronache raccontano che ovunque era l’inferno. Quando le truppe nemiche arrivarono a Cracovia, il sovrano di allora, Giovanni II Casimiro Wasa, decise di fuggire. Con lui, ma di ben altro parere, la regina, Maria Ludovica Gonzaga Nevers.
Quest’ultima era una principessa venuta da fuori. Di origini italo-francesi, era nata e cresciuta a Parigi, protagonista attiva della vita politica e culturale della capitale. Fu amante di Gastone d’Orléans, fratello di re Luigi XIII e, per questa relazione, finì addirittura in prigione per volere della regina madre; frequentò l’esclusivo salotto Chambre Bleu della marchesa di Rambouillet, nel quale si riunivano i più grandi e fini ingegni del tempo; fece parte della corte reale a Louvre e a Saint Germain en Laye; accusata di aver preso parte alla congiura del marchese Cinq-Mars ai danni del cardinale Richelieu, fu infine usata come pedina per sedimentare finalmente l’alleanza franco-polacca e conquistare, così, il nostro regno, un regno che faceva gola a moltissime potenze europee, ultima fortezza orientale contro l’avanzata del nemico ottomano a sud e bastione contro gli eretici svedesi e gli scismatici moscoviti a nord.
Fu il suo nome, infatti, che venne proposto dal cardinal Mazarino come consorte al re Ladislao IV Wasa, dopo la morte della prima moglie, Cecilia Renata d’Asburgo. E le nozze, che avvennero per procura il 5 novembre 1645 a Parigi, alla presenza di un giovanissimo Luigi XIV, nella cappella del palazzo reale, diedero il via a un periodo del tutto nuovo per la Polonia.
Maria Ludovica Gonzaga Nevers giunse a Danzica dopo un viaggio estenuante. Settimane intere ad attraversare mezza Europa e, quando arrivò, invece di ammirazione e stima, dal marito ricevette sfregio e offese. L’aspetto dismesso della nuova regina non venne gradito dal sovrano. Ti rendi conto? Un uomo che con Adone non aveva in comune nemmeno le iniziali del nome, che era stato fino a quel momento con il sedere comodo e il ventre caldo, si era permesso di rifiutarla! Si era permesso di dire alla corte francese, che aveva accompagnato la principessa da Parigi fino in Polonia, di non voler giacere con la sua sposa! Io avrei tanto voluto vedere lui, mia cara amica, ad affrontare ciò che aveva affrontato lei! La mia regina — perché è così che io la considero, è così che la considera tutto il popolo polacco — era stata attrice principale nelle vicende della più fervente capitale europea; Ladislao, invece, si ritrovava re solo per la fortuna di essere figlio del precedente monarca. Lui non ha dovuto dimostrare niente; lei, tutto, fin da subito.
E continuò a farlo, in maniera magnifica, per tutto il tempo in cui regnò sulla Rzeczpospolita.
Fu ella, infatti, che durante il potop assunse il comando del regno. Dopo la morte di Ladislao IV, Maria Ludovica Gonzaga Nevers, secondo la consuetudine polacca, andò in sposa al nuovo sovrano, Giovanni II Casimiro Wasa, fratello del defunto re. Questi era, mia cara amica, il ritratto che nei dizionari apparirebbe accanto al termine inetto. Toccò quindi a lei afferrare le redini e trascinare la Polonia verso la vittoria.
Mentre Giovanni Casimiro ebbe come unica idea quella di scappare, di lasciare la capitale e di rifugiarsi nella regione della Slesia, la regina iniziò a scrivere alle principali potenze europee per chiedere aiuto: Francia, Impero, Papato. Impegnò gioielli personali per reperire fondi utili alla lotta. Infine, in groppa al suo cavallo, arringò il popolo all’orgoglio e alla resistenza. Militari, nobili e gente comune uniti dal sentimento che Maria Ludovica Gonzaga Nevers seppe creare e instillare. E proprio qui, davanti al santuario di Częstochowa, il 27 dicembre 1655, si ebbe la prima vittoria su un esercito ben più numeroso e organizzato. Gli svedesi vennero ricacciati oltre i confini, e per la Rzeczpospolita fu un trionfo incredibile!
Capirai ora, mia cara amica, perché questo luogo è così caro alla mia gente. E capirai soprattutto perché, nel nostro immaginario e nella nostra storia, la regina venuta da fuori divenne, da allora e per sempre, la prawdziwa rzadziocha, la reale sovrana.
Non servono confini o nascita per sentirsi parte di un qualcosa. Non serve una patria: basta un luogo che ci permetta di essere chiamato casa.
E visto che, per come sono andate le cose in questo nostro scambio — alla tua richiesta di una ricetta io ho risposto con un racconto di donne, di viaggio e di confini — ho deciso di continuare così, parlandoti di un pane nato in Polonia ma migrato verso gli Stati Uniti, un pane legato anche alla vicenda del potop e che, quindi, riassume in sé tutto ciò che ho voluto condividere con te.
La cittadina di Białystok sorge nella parte nord-orientale del Paese. Nel 1661 venne donata, insieme alla zona limitrofa, a Stefan Czarniecki per i suoi servigi durante la guerra contro gli svedesi. E da qui partirono, agli inizi del Novecento, numerose famiglie ebree alla volta del Lower East Side di Manhattan. Con loro, ovviamente, portarono bagagli, speranze, paure. E, nascoste tra le pieghe delle une e delle altre, anche la ricetta del pane Bialy.
Per circa quindici forme di Bialy occorrono 445 grammi di acqua, dieci grammi di malto, cinque grammi di lievito disidratato, seicento grammi di farina forte, duecento di farina debole e quindici grammi di sale.
In una ciotola, va mescolata l’acqua con il lievito e il malto. Poi, va aggiunta la farina, tutta, e il sale. Mescolare per qualche minuto avendo cura, però di ottenere un impasto abbastanza grossolano. Dopodiché, bisogna trasferire tutto su una spianatoia ben infarinata e lavorare fino a che il panetto non risulti asciutto. Metterlo in una ciotola oliata, coprire e lasciar lievitare aspettando che raddoppi di volume. A lievitazione avvenuta, fare lo staglio delle forme, porle su una teglia infarinata, infarinare anche la pezzatura e far crescere, nuovamente, fino al raddoppio. A questo punto, prendere ciascuna pallina e formare al centro un incavo dove mettere cipolla stufata e una spolverata di pangrattato. Unire, a piacimento, i semi di papavero e cuocere in forno per circa dodici minuti a 220 gradi.


Questo pane, mia cara amica, è partito dalle terre polacche dove sembra, oggi, essere stato dimenticato. È arrivato in terra americana e qui è divenuto simbolo di un’intera comunità.
Non è meraviglioso? A rimanere stanziali, chiuse e chiusi nel proprio personale mondo, si rischia solo di inacidire, di ammuffire. O di sparire.
E invece, per gonfiarsi, di lievito, di orgoglio o di vita, a volta basta prendere il largo. Basta, forse, lasciare una patria e trovare, finalmente, una casa.
Ora è arrivato, mia carissima amica, il momento del congedo. Spero che questa mia ricetta possa averti fatto percepire la mia vicinanza. Uniamoci, noi amiche, donne e sorelle, e vedrai che pane magnifico potremmo cucinare! Che casa bellissima potremmo creare.
Powodzenia y miłej podróży».
***
Articolo di Sara Balzerano

Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice