Editoriale. Anche il mio dio Sole ha chiuso gli occhi

Carissime lettrici e carissimi lettori, 

parliamo di noi donne. Nominiamo le violenze, le discriminazioni, gli stereotipi, i gap di genere di cui troppo spesso siamo vittime. Diciamo di diritti. I diritti legati alla persona: al corpo come alla psiche, parti di sé stesse mai dissociate, sempre collegate tra loro, interconnesse. 

È diritto delle donne scegliere la gestione del proprio corpo, far rispettare le proprie scelte, la volontà di interrompere come di accettare e portare avanti una maternità. Atti che fanno parte dei diritti personali di ciascuna di noi. Diritti che garantiscono la libertà e la salute della donna. Invece questi diritti sono sempre in pericolo. Come, ma non solo in Italia, è in pericolo la cosiddetta Legge 194 che assicura alle donne un’interruzione di gravidanza legale e serena e che, invece, rischia da troppo tempo manomissioni, tagli, trasformazioni, se non addirittura la cancellazione. Proprio di questi giorni è la spiacevole espressione della ministra Eugenia Maria Roccella che risponde «purtroppo sì» alla domanda postale in quanto ministra della Famiglia se la legge sull’interruzione di gravidanza faccia parte o no delle libertà delle donne! Per fortuna sì, signora Ministra!

Il diritto ad interrompere la gravidanza deve essere garantito. Ma, in modo altrettanto certo, noi donne dobbiamo essere tutelate, protette e seguite, psicologicamente e fisicamente, quando scegliamo di portare a termine una maternità, dall’inizio del concepimento fino al parto e, soprattutto, al difficile, complicato periodo che segue la nascita e i primi giorni di vita insieme. 

La cronaca di questi giorni (e ne parliamo in un articolo dedicato interno a questo numero) ci racconta che questa protezione, questa cura deve probabilmente essere mancata alla signora trentenne che aveva deciso di mettere al mondo suo figlio in un ospedale romano. Il bambino, nato sano, come dicono per ora le cronache (i risultati dell’autopsia si avranno non prima di due mesi), è vissuto solo tre giorni, morto nello stesso ospedale dove era nato (tra il 7 e l’8 gennaio), probabilmente soffocato dal corpo stesso che gli aveva dato la vita, sotto il peso della stanchezza estrema della sua mamma, stremata dalle ore (ben diciassette) di travaglio, dalla fatica, appunto, e dalle mille emozioni dell’evento.

La tristissima storia accaduta nell’ospedale della capitale ci fa ritornare su una realtà importante e tragica: quella delle violenze verbali, psicologiche e fisiche in campo ostetrico

Una ricerca in proposito, quanto mai attuale, è stata condotta qualche anno fa dalla Doxa, per conto dell’Osservatorio sulla Violenza ostetrica in Italia (ma dell’argomento si è parlato tanto anche in Francia) in collaborazione con le associazioni La Goccia Magica e Ciao Lapo Onlusstimolate dalla campagna di informazione #Bastatacere: le madri hanno voce

I dati, raccolti in un periodo che va dal 2003 al 2017, raccontano una storia amara. Circa 1 milione di donne in Italia dal 2003 – il 21 per cento del totale con figli/e di età tra zero e 14 anni – afferma di aver subito una qualche forma fisica o psicologica di violenza alla prima esperienza di maternità. Un altro 23 per cento ha risposto di non esserne sicura. Ma certamente è stata messa in conto, nel 6% dei casi, la decisione di non affrontare una seconda gravidanza. A conti fatti questo ha causato un calo ulteriore (già grave in Italia per tante altre ragioni sociali ed economiche) delle nascite con 20 mila bambini/e in meno ogni anno. La principale accusata, secondo l’indagine, è l’episiotomia, il famoso e usatissimo (abusato) taglietto che faciliterebbe l’uscita alla luce del mondo della/del bambino/a. Dicono di averla subita il 54% delle partorienti. Oggi l’Oms (l’organizzazione mondiale della sanità) considera «l’episiotomia una pratica dannosa poiché si tratta a tutti gli effetti di un intervento chirurgico». Sempre secondo la ricerca Doxa «tre partorienti su dieci (corrispondenti a 1,6 milioni di donne, il 61% di quelle che hanno subito l’episiotomia) dice di non aver dato il consenso. Per il 15% delle donne che l’hanno vissuta, 400.000 madri, si è trattato di una menomazione degli organi genitali, il 13%, pari a circa 350.000 donne, ha detto di sentire tradita la fiducia in confronti del personale ospedaliero. In più, al di là dell’episiotomia, il 27% delle intervistate aveva lamentato una carenza di sostegno e informazioni sull’avvio dell’allattamento, il 19% la mancanza di riservatezza e il 12% aveva dichiarato di non aver potuto avere vicino una persona cara durante il travaglio».

Sono dati drammatici, fino a oggi spacciati come normali procedure mediche. Invece sono centinaia le storie di abusi, fisici e psicologici, che le donne subiscono spesso nelle sale parto. Episodi dolorosi che nel peggiore dei casi sfociano in tragedia. Oltre all’episodio romano di questi giorni le cronache ricordano ancora quello che accadde nel 2016 all’ospedale di Reggio Calabria quando furono arrestati quattro medici e sette furono sospesi in quello che fu chiamato il reparto degli orrori, con i professionisti che nascondevano lesioni, errori e aborti non richiesti.

«Per violenza ostetrica e ginecologica – spiega all’agenzia di stampa Di.re. la dottoressa Michela Francia, psicoterapeuta e responsabile del Servizio di Psicologia Ospedaliera di Città di Lecce Hospital – si intende un insieme di abusi, maltrattamenti fisici o psicologici e verbali perpetrati da tutte le figure professionali che si possono interfacciare con la partoriente: a partire dal percorso nascita, durante il parto o post partum. Una violenza che può essere compiuta non solo dall’ostetrica ma da tutte le figure che entrano in gioco al momento del parto che invece dovrebbe essere vissuto come un’esperienza unica e coinvolgente sia per la mamma che per la coppia ma che a volte può trasformarsi in un trauma. Va detto però che rispetto al passato oggi si ha maggiore consapevolezza sul tema tanto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ne ha sottolineato l’importanza. Nel nostro Paese la sensibilità sul tema c’è, infatti è attivo un Osservatorio specifico. In ogni caso le ripercussioni possono essere importanti e attivare paura, ansia, e percezione di fallimento che in casi più estremi possono portare al rifiuto del nascituro».

Il bimbo e la mamma dell’ospedale romano sono stati entrambi vittime di un abbandono, al di là delle colpe. Un’ assenza di guida. Poi il resto lo stabilirà l’inchiesta avviata. La prima volta di un figlio/a è certo non poco impegnativa e non da improvvisare soprattutto se si è in balia dello stress dato dalla stanchezza e dalla situazione. Avere o non avere firmato l’accettazione del rooming-in giuridicamente avrà la sua importanza, forse, ma chi esaminerà il caso dovrà capire che il momento di un ricovero, per di più di notte, per mettere al mondo un figlio/a è impegnativo e confuso per i tanti pensieri, le tante paure (e chi non ne ha in questo caso?) per entrambi i genitori. Dobbiamo capire che è importante la cura, il sorvegliare che tutto vada nel senso indicato dalle direttive dell’ospedale. É vero non si deve allattare nel letto, ma la stanchezza prende sempre il sopravvento come quell’iniziale piacere a vedersi quel bimbo/a accanto. Il ricordo mi porta lontano, in una stanza di ospedale, sempre romano, sempre centrale…quattro giovani madri, tutte primipare, che allattavamo rimanendo a letto, anche quando, dopo un lungo travaglio e un cesareo, non ho potuto dire di non sentirmela di prenderla in braccio e farla mangiare, da me. 

Sempre parlando di donne. Ieri si è celebrato il Giorno della Memoria, per non dimenticare le tante persone che hanno subito e, per la maggior parte sono morte, un pensiero diabolico e ingiusto di diffidenza e differenza tra esseri viventi appartenenti, invece, a una stessa razza, quella umana. 

Un’amica palermitana con la passione per l’arte e per la storia delle donne ha voluto a suo modo ricordare le persone che sono passate per quella terribile quanto folle esperienza. Rita Alù ha fatto sulla sua pagina social (facebook) aperta a tutti/e un punto di ricordo e di incontro. Tutto attraverso le donne. Prima con i nomi di otto artiste (sette di religione ebraica e una affetta da disturbi psichici) che furono barbaramente uccise nei lager nazisti. Di ognuna troverete un link che rimanda a un altro post dedicato interamente a quella artista citata.  

E poi Rita, con un altro post, ricorda altri nomi, ancora una volta di donne, di artiste che non morirono uccise dalla rabbia di Hitler e dei suoi seguaci, ma che – come scrive Alù – fortunatamente sono riuscite a mettersi in salvo o perché all’avvento del nazismo erano già morte o perché avevano lasciato per tempo la Germania. Il regime nazista volle, però, distruggere la loro arte, esponendo, con il fine di mortificarle, le loro opere, mettendole al bando sotto l’etichetta di Arte degenerata. Iniziando da una galleria di Monaco di Baviera, proseguirono in altre città tedesche. Ma furono allestite sempre doppie esposizioni: quelle con le opere dell’Arte degenerata, Entartete Kunst, «prevedendo sempre in concomitanza un’altra mostra dedicata interamente all’arte tedesca pura con opere considerate sane ed esemplari». Nel 1941 furono più di sedicimila le opere confiscate dai nazisti – ci informa – Una parte di esse furono distrutte, mentre altre riuscirono a salvarsi. Tra le artiste qui citate potete trovare i nomi di Paula Modersohn (1876-1907) che durante la sua intensa, seppure breve vita, ebbe contatto con grandi artisti e città stimolanti come Londra e, soprattutto, Parigi con l’incontro dei suoi amatissimi maestri impressionisti. Considerata una prima rappresentante dell’Espressionismo. Oppure Helene Funke (1869-1957) o Hanna Hoch (1889-1978) una dadaista in piena regola e tra le pioniere del fotomontaggio.

Per ricordare, anche da parte nostra, scelgo per voi una poesia, di nuovo di una donna, perché di donne abbiamo parlato in tutto questo editoriale. È una poeta delicata e per me emozionante, Edith Bruck, che ha saputo amare intensamente suo marito e i suoi amici e non ha mai odiato, neppure i suoi carnefici che l’hanno deportata e hanno ucciso tutta la sua famiglia, compresa l’amatissima e indimenticabile madre alla quale si rivolge in questa poesia per me preghiera. Di Edith Bruck poeta, che vive da tantissimo tempo qui da noi in Italia, Ottavio Rossani ha scritto: «Edith Bruck nelle poesie ha conservato la stessa linearità dei suoi romanzi, la stessa leggibilità, per evitare l’equivoco dell’incomprensibilità che fatalmente oscura la verità. Le poesie di Paul Celan, per esempio, devono essere interpretate, studiate. Edith Bruck ha voluto evitare un simile pericolo. Perciò la sua lingua è pulita, inequivocabile. La semplicità della dizione rende le sue poesie delle lapidi ineliminabili e incontrovertibili. E insieme un dettato di pietà e di umanità».

La poesia di intitola Quel pensiero di seppellirti

Quel pensiero di seppellirti
te l’hanno tolto con almeno trent’anni di anticipo!
Abbiamo avuto una lunga festa d’addio
nei vagoni stivati dove si pregava dove si facevano
i bisogni in fila dentro un secchio
che non profumava del tuo lillà di maggio
e anche il mio Dio Sole ha chiuso gli occhi
in quel luogo di arrivo il cui nome
oggi irrita le coscienze, dove io e te
rimaste sole dopo una selezione
mi desti la prova d’amore
sfidando i colpi di una belva umana
anche tu madre leonessa a carponi
per supplicare iddio maligno di lasciarti almeno l’ultima 
la più piccola dei tuoi tanti figli.
Senza sapere la tua e la mia destinazione
per troppo amore volevi la mia morte
come la tua sotto la doccia
da cui usciva un coro di topi
chiusi in trappola.
Hai pensato alla tua piccola con quel frammento
di coscienza risvegliata dal colpo
del portoncino di ferro
con te dentro mio pane amato mio pane bruciato!
O prima ancora
sapone paralume concime
nelle mani parsimoniose di cittadini
che amano i cani i poeti la musica
la buona letteratura e hanno nostalgia
dei familiari lontani.

Buona lettura a tutte e tutti.

Questa è una settimana in cui i venti di guerra soffiano più forte e stanno trasformando questo conflitto da ibrido in vera e propria guerra. Consoliamoci per un momento con le novità della nostra rivista, che continua a arricchirsi di nuovi contributi. Accanto alle puntate delle serie sulle atlete paralimpiche, Le campionesse delle Paralimpiadi estive. Da Atene 2004 a Pechino 2008 e Da cuoche a chef. Le regine della pasticceria in questo numero inauguriamo tre nuovi cicli, che ci accompagneranno una volta al mese: Le grandi assentiTeresa Dieç il primo degli articoli che vogliono restituire memoria ad artiste talentuose del passato, ma cancellate dalla storia; Rileggere i classici. Una premessa metodologica, l’interpretazione in ottica di genere di alcune opere, personaggi e personagge della letteratura italiana e straniera. Il terzo ciclo nuovo si inserisce in uno dei fili rossi del numero odierno, quello linguistico: Italiano Lingua Altra racconta la nostra lingua quando è appresa dagli stranieri in Italia o è studiata all’estero, dove l’italiano gode di un grande prestigio. Ancora di linguaggio e di scrittura si parla in I Quaderni di Alma Sabatini. I linguaggi della scritturarecensione del secondo titolo pubblicato, in formato e-book, dal Centro di Documentazione Internazionale Alma Sabatini.

La libreria sulla collina di Alba Donati: un sogno diventato realtà è l’altra recensione di questa settimana, che ci accompagna in un’avventura bellissima, quella di una libraia appassionata e del suo libro che è una miniera di suggestioni e spunti di lettura. Il secondo filo rosso di questo numero è rappresentato dalle riflessioni sul modo in cui i media raccontano le donne, partendo da due fatti di cronaca: Un altro sguardo sul diventare madri ci fa riflettere sull’immagine edulcorata della maternità e del parto veicolata dai media, mentre Se questo è il maschio indaga sui modelli di mascolinità ancora oggi propagati, spesso attraverso i social , modelli di mascolinità ancorati a un mondo che , come scrive l’autrice, non c’è più e che mai più tornerà. L’intervista di questa settimana è a Jennifer Guerra con l’articolo Attivismo femminista. Intervista a Jennifer Guerra, giornalista e scrittrice.

Veniamo alla donna di Calendaria 2023: Marie Skłodowska Curie. Nobel per la Chimica, il racconto della vita generosa della prima persona e prima donna a ricevere due Premi Nobel, una storia che, se ce ne fosse ancora bisogno, ci farà confrontare con la misoginia della società e col fenomeno della stampa spazzatura. Dagli interventi del Convegno nazionale di Toponomastica femminile del 2020 a Firenze Le trecciaiole, un’arte silenziosa ci proporrà la storia, tutta la femminile, delle lavoratrici del primo prodotto Made in Italy esportato, il cappello di paglia.
Per la sezione Iuvenilia, Lavoro. Istruzione. Spazio alle donne! descrive tre percorsi didattici premiati per la sezione C-Percorsi di vita, lavoro e memoria al Concorso Sulle vie della parità IX edizione.
Finiamo la rassegna di questa settimana con La cucina vegana. Pasta e fagioliuna ricetta tutta con ingredienti vegetali, nel rispetto degli animali e dell’ambiente, augurando a tutte e tutti noi che la guerra in corso non si trasformi in un conflitto mondiale.

***

Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpretiSiamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.

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