La mobilità è da sempre stata una caratteristica fondamentale della storia dell’umanità, sin dalla preistoria alle prime conquiste, al baratto e al commercio. La narrazione storica degli invasori, i cosiddetti “barbari”, ha trasmesso un’idea, uno stereotipo, un immaginario sociale alterato rispetto ad altri popoli che invadevano i territori per le stesse motivazioni che erano all’inizio delle conquiste di tutti gli altri popoli.
L’uomo e la donna da sempre hanno una natura nomade che ha caratterizzato gli spostamenti sin dai tempi più remoti. Le migrazioni appartengono quindi all’essere umano, quando necessitava di altri spazi per rispondere ai bisogni primari: la caccia, l’agricoltura e l’allevamento, oltre che un rifugio. Inoltre, basti pensare ai movimenti di massa che hanno accompagnato l’abbandono delle campagne e dei piccoli centri urbani durante l’era dell’industrializzazione, per esempio, o la povertà che da sempre caratterizza il fenomeno delle migrazioni di massa verso mete economicamente più ambite. Eppure sembra che l’umanità si sia dimenticata di questo passato storico, delle migrazioni come sua caratteristica intrinseca.
«Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel Vicino Oriente. Scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria dell’India; o di lino, pianta originaria del Vicino Oriente; o di lana di pecora, animale originariamente addomesticato nel Vicino Oriente; o di seta, il cui uso fu scoperto in Cina. Tutti questi materiali sono stati filati e tessuti secondo procedimenti inventati nel Vicino Oriente. Si infila i mocassini inventati dagli indiani delle contrade boscose dell’Est, e va nel bagno, i cui accessori sono un misto di invenzioni europee e americane, entrambe di data recente. Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche. Poi si fa la barba, rito masochistico che sembra sia derivato dai sumeri o dagli antichi egiziani. Tornato in camera da letto, prende i suoi vestiti da una sedia il cui modello è stato elaborato nell’Europa meridionale e si veste. Indossa indumenti la cui forma derivò in origine dai vestiti di pelle dei nomadi delle steppe dell’Asia, si infila le scarpe fatte di pelle tinta secondo un procedimento inventato nell’antico Egitto, tagliate secondo un modello derivato dalle civiltà classiche del Mediterraneo; si mette intorno al collo una striscia dai colori brillanti che è un vestigio sopravvissuto degli scialli che tenevano sulle spalle i croati del XVII secolo. Andando a fare colazione si ferma a comprare un giornale, pagando con delle monete che sono un’antica invenzione della Lidia. Al ristorante viene a contatto con tutta una nuova serie di elementi presi da altre culture: il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina; il suo coltello è di acciaio, lega fatta per la prima volta nell’India del Sud, la forchetta ha origini medievali italiane, il cucchiaio è un derivato dell’originale romano. Prende il caffè, pianta abissina, con panna e zucchero. Sia l’idea di allevare mucche che quella di mungerle ha avuto origine nel Vicino Oriente, mentre lo zucchero fu estratto in India per la prima volta. Dopo la frutta e il caffè, mangerà le cialde, dolci fatti, secondo una tecnica scandinava, con il frumento, originario dell’Asia minore. Quando il nostro amico ha finito di mangiare, si appoggia alla spalliera della sedia e fuma, secondo un’abitudine degli indiani d’America, consumando la pianta addomesticata in Brasile o fumando la pipa, derivata dagli indiani della Virginia o la sigaretta, derivata dal Messico. Può anche fumare un sigaro, trasmessoci dalle Antille, attraverso la Spagna. Mentre fuma, legge le notizie del giorno, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge i resoconti dei problemi che si agitano all’estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano» (Linton R., 1973: 359-60).
Gli spostamenti sono stati da sempre dunque alla base della vita umana, nati dall’esigenza di soddisfare i bisogni primari, dal commercio, dal desiderio di scoprire nuove terre. Sebbene la globalizzazione sia entrata nel linguaggio comune a partire dalla seconda metà del Novecento, da sempre l’essere umano si è caratterizzato per la sua grande capacità di interagire con nuovi territori, insediarsi, creare legami sincretici e/o colonizzarli. L’interdipendenza nel mercato mondiale orienta inevitabilmente gli spostamenti secondo alcune determinate direzioni, tra nord e sud del mondo, dai Paesi in via di sviluppo a quelli europei, aumentandone il divario socio-economico.
Diversi sono i fattori che caratterizzano il progetto migratorio, in primis il forte legame identitario con il Paese di origine. Uomini e donne che si distaccano dalle reti sociali e amicali instaurate nella madrepatria per territorializzarsi nel nuovo tessuto e spazio sociale di approdo, persone che portano con sé tutto il proprio bagaglio culturale, stili di vita, credenze e tradizioni. Ogni donna o uomo migrante nel suo progetto migratorio porta inevitabilmente con sé un importante bagaglio culturale, la sua storia di vita, la sua esperienza, le sue competenze, i suoi ricordi, le sue reti familiari e amicali, lasciate nel Paese di origine, e la sua fede: «come due facce della stessa medaglia, aspetti complementari e dimensioni solidali di uno stesso fenomeno, l’emigrazione e l’immigrazione, rinviano reciprocamente l’una all’altra e comportano implicazioni di ogni specie» (Sayad, 2002: 169).
Nelle società odierne, come del resto avveniva anche in quelle più antiche, le migrazioni, gli spostamenti di massa da un territorio all’altro, a causa di vari fattori, hanno caratterizzato e caratterizzano ancora oggi la base di un cambiamento socio-culturale e solitamente anche urbanistico. È in questo scenario che l’incontro tra culture favorisce sincretismi sociali, culturali e religiosi tra popolazione autoctona e quella immigrata nel nuovo territorio.
L’emigrazione ha un “costo umano”, non solo nei rischi del viaggio che molti/e migranti si trovano ad affrontare, mettendo in pericolo la propria vita, ma anche nelle innumerevoli difficoltà che incontrano lasciando la propria terra, la famiglia e gli affetti, senza certezze. L’immaginario sociale trasmesso dai mass-media o dai social network o ancora dai connazionali già emigrati, in questo senso, gioca un ruolo fondamentale anche nella scelta migratoria, nella sua destinazione e nel suo investimento. Perché, infatti, non solo a livello valoriale e umano la migrazione lascia un segno indelebile in coloro che decidono di emigrare, ma anche a livello economico si tratta spesso di un costo che non tutti/e riescono a sostenere. Emigrare in molti casi equivale a indebitarsi, rappresenta un investimento della famiglia allargata e/o del villaggio con la speranza di un futuro migliore per il singolo e per la comunità. Chi emigra “lascia un po’ di sé” e perde parte del suo legame identitario sin dal momento in cui decide/deve emigrare: «se da una parte, si desidera che l’emigrato […] rimanga sempre un emigrato […]. E se, dall’altra parte, si desidera che l’immigrato rimanga sempre un immigrato, per quanto permanente e continua possa essere la sua presenza […]» (Sayad, 2002: 105).
La condizione sociale di chi emigra permarrà pertanto in una sorta di «limbo identitario»: non sarà più la stessa persona dal momento che deciderà di partire, sia nel Paese di appartenenza che in quello di accoglienza verrà percepita come “estranea”. Mai perfettamente inserita al pari di una persona autoctona e mai come chi resta, per scelta o meno, nel Paese di origine. Il tessuto sociale che si ricostituisce nel nuovo contesto migratorio è strettamente correlato alla natura dei processi migratori e alle politiche di accoglienza. Una persona che emigra “forzatamente”, perché vittima di schiavitù o perché perseguitata per la sua fede religiosa, per esempio, avrà un percorso e un inserimento differente rispetto al “migrante economico”, per cui il progetto migratorio rappresenta una scelta del singolo, pur sempre correlata da diverse variabili. Importante è ricordarsi che non esiste una «storia unica» (Chimamanda, 2020) e che il rischio è che generalizzazioni e stereotipi abbiano la meglio nell’opinione pubblica alimentando pregiudizi nei confronti di coloro che, provenendo da Paesi stranieri, comunitari e non-comunitari, scelgono volontariamente o forzatamente di giungere in Europa.
Caso differente per quanto riguarda i ricongiungimenti familiari. Si tratta di famiglie che, una volta stabilito un certo equilibrio socio-economico, decidono di ricongiungersi nel Paese di approdo del primo componente emigrato. In alcune comunità è la donna a emigrare, basti pensare alla Nigeria, alle Filippine e ai Paesi dell’Est Europa, in altri invece è l’uomo a emigrare. In entrambi i casi si tratta di coppie/famiglie che vivono lontane per anni, in stretta comunicazione, unite da un legame affettivo, ma anche economico – quello delle rimesse, nel sostegno a distanza – che permette a chi rimane in Patria di sostenersi. I ricongiungimenti familiari creano cambiamenti sociali non indifferenti, modificano il profilo della richiesta dei servizi sociali del territorio di approdo, determinando anche la tipologia dei servizi stessi (assistenza sanitaria, scuole, ecc.). Da semplice “forza lavoro”, come spesso vengono superficialmente definite le persone straniere in Italia, si passa a una crescita demografica e a una contaminazione culturale reciproca, vantaggio sia per chi arriva e si stanzia sia per chi riceve. In questo senso, si può parlare di arricchimento culturale ambivalente che va oltre il semplice assistenzialismo al quale si è spesso abituati a trattare quando si parla di persone provenienti dal Sud del mondo, ma assume una nuova prospettiva: la reciprocità culturale, di inclusione e non più di assimilazione. «[…] la coesione e l’equilibrio sociale non possono esistere senza la norma della reciprocità» (Simmel, 1950: 387). In questa frase si riassume l’importanza del legame tra relazioni e reciprocità, fondamentale nell’incontro, nella convivenza e nel dialogo tra culture e tradizioni differenti.
***
Articolo di Katiuscia Carnà

Docente in Ricerca Educativa e Sociale, si occupa di educazione religiosa delle nuove generazioni di musulmani nella città di Roma. Laureata in Lingue e Civiltà Orientali, nel 2008 ha vinto una borsa di studio per la Jadavpur University in Kolkata (India). Ha conseguito Master Internazionali in “Sociologia, teoria, ricerca e metodologia”, e in “Religioni e mediazione culturale”. È co-autrice di Kotha. Donne bangladesi nella Roma che cambia e di Roma. Guida alla riscoperta del Sacro.