Carissime lettrici e carissimi lettori,
è stato scritto: «Benvenuti negli anni venti», di questo secolo o del secolo scorso sembra non faccia la differenza. L’indifferenza verso le persone più deboli e tutto quello che ne consegue, dal razzismo (non solo quello che deriva dalla differenza del colore della pelle), al body shaming a oltranza, senza provarne vergogna, alla disattenzione verso chi è più disagiato economicamente, alla derisione persino delle tragedie, che avvengano nel mare nostrum o altrove. Il sentimento di chi non cade in questa terribile trappola è contrastante, tra la rabbia e il rischio di perdere la speranza.
Dunque: «benvenuti negli anni venti», di questo o dell’altro secolo non fa differenza.
Dopo le morti per mare (quasi 100), avvenute davanti alle coste calabresi meno di un mese fa, si rimane sbigottiti/e dalla proposta che prende il nome dal luogo davanti al quale è accaduta la strage: già questo è avvilente. Il decreto Cutro è nato dalla inopportuna riunione del Consiglio dei ministri fatta a un passo dalle bare, dimenticate e fatte uscire di scena per un giorno intero. Il decreto incrementa i flussi dell’immigrazione, per motivi economici, di lavoro, ma si tenta la completa cancellazione della cosiddetta protezione speciale, sopravvissuta alla abolizione della protezione umanitaria voluta nel 2018 dall’allora ministro degli Interni Matteo Salvini. La cosa non ha convinto il presidente Sergio Mattarella che è intervenuto e ha ottenuto la promessa di mitigare la decisione e correggere e rivisitare alcuni passaggi di questo articolo 7 che nella prima stesura voleva l’abolizione totale della protezione speciale. L’intervento del Colle, prima del Consiglio dei Ministri, ha fatto inserire che nulla cambia per chi è già in Italia. Ma – si è commentato da più parti – il Ministro delle infrastrutture ha praticamente protestato e ha detto che la protezione speciale è troppo discrezionale e diventa una terza fattispecie – dopo quella di profugo e di protezione sussidiaria – che aprirebbe la strada a troppi immigrati economici.
Neppure sarebbe poi così legale, e scatenerebbe tensioni internazionali, la volontà di dare la caccia agli scafisti in tutto il globo terraqueo. Il nostro codice già prevede la competenza della magistratura italiana se il reato “in tutto o in parte” si realizza nel nostro territorio. «Basta quindi una telefonata ad uno scafista a terra in Italia e l’associazione a delinquere si tira dietro tutto il resto. Il problema semmai arriva dopo: cioè arrestare chi sta in Turchia o in Libia. Impossibile. Da qui il dubbio che dietro la norma ci siano soprattutto velleità e propaganda».
A questo si aggiunge il bruttissimo episodio riguardante la festa data da un Ministro per festeggiare il suo mezzo secolo di vita. Non solo – come si è osservato – è stato il momento sbagliato, almeno di pubblicizzarla, essendo presente tutto il Governo, ma terribile e fuori posto quel Karaoke collettivo con il testo bellissimo, ma inopportuno per i fatti appena accaduti a Cutro, della Canzone di Marinella, capolavoro di Fabrizio De André. In un momento come questo francamente è stato di cattivo gusto perché la canzone racconta la storia di una ragazza annegata. E come se non bastasse la Premier, ricevendo i parenti delle vittime, ha ripetuto, imperterrita, le frasi sull’azzardo e dello sbaglio (!) da parte dei e delle migranti del mettersi in viaggi con la propria prole . Una reiterazione di quello che era stato un vero e proprio rimprovero fatto alle vittime e ai superstiti, subito dopo il naufragio, dal ministro Piantedosi che, come si è visto, non si è per questo né dimesso né scusato. Sa dell’assurdo!
Domani – un giorno un tempo giudicato festivo, anche se non cadeva di domenica – è la festa, che includeva anche la vacanza scolastica, e celebrava (come anche ora) il nome Giuseppe, padre del Cristo. Il falegname Giuseppe, sposo di Maria, la giovane scelta dal Dio per l’annunciazione dell’Arcangelo e l’inizio tra gli ebrei della missione del proprio Figlio nell’umanità. Giuseppe, marito di Maria era il padre putativo, non fisico, del bambino Gesù. Il 19 marzo, due giorni prima dell’inizio della primavera, è stato scelto come giorno in cui si colloca la Festa del papà, seppure con tutte le implicazioni commerciali, stimolo di auguri e di regali. Ha creato scandalo, invece, balzando dalle cronache locali al dibattito nazionale, l’episodio dell’abolizione della Festa in una scuola dell’infanzia di Viareggio, in Toscana: La direttrice didattica ha spiegato che la società e le sensibilità sono cambiate: «Dobbiamo renderci conto che viviamo in una società diversa da quella di 50 anni fa. Non esiste più una famiglia modello. Oggi ci sono situazioni aperte e particolari che devono essere rispettate e tutelate. Soprattutto da una scuola». La situazione imbarazzante rispetto all’Europa nei confronti delle bambine e dei bambini figli di coppie omosessuali : «Dopo che il governo ha imposto al Comune di Milano di interrompere le registrazioni dei figli nati da coppie omogenitoriali in Italia, ad accendere la polemica è arrivato il no del centrodestra alla proposta di regolamento Ue sul certificato europeo di filiazione: quello secondo cui la genitorialità stabilita in uno Stato membro va riconosciuta in ogni altro Stato membro, senza procedure speciali, che si tratti di figli di coppie eterosessuali od omogenitoriali, di figli adottati o avuti con la maternità surrogata dove sia consentita…».
«Si trattava di riconoscere uguaglianza e civiltà. Ormai siamo alla destra ungherese», ha commentato Alessandro Zan. Un comportamento discriminatorio nei confronti dei bambini e delle bambine.
La politica comunque fa fatica ad essere cosa per donne. Al di fuori chiaramente delle visioni ideologiche, stiamo assistendo a un vero e proprio attacco alla prima donna arrivata alla Segreteria di un partito che, lo ripetiamo, è stato sempre marcatamente maschilista. C’è un’azione di forte body shaming che alla fine tocca la credibilità dei contenuti del fare politico e dell’essere a capo dell’opposizione di una donna. Ma c’è ben altro. Spaventa, per esempio, la messa in ridicolo da parte della stampa del suo corpo, dal naso alla bocca, ai denti. Una cosa che difficilmente si fa per un uomo, un maschio. Altro reiterato punto di attacco sono le origini borghesi della Segretaria e, cosa ancora più vergognosa, la provenienza ebraica, sottolineando quella di ebrea aschenazita. Incredibile pensare che possa ancora oggi esistere un atteggiamento del genere. Pensiamo che sia stato perché è donna! Ecco l’interpretazione negativa che se ne dà: «Aschenaziti identifica quegli ebrei che dopo la diaspora si insediarono nell’Europa centrale e settentrionale, distinti dai sefarditi, gli ebrei della penisola iberica. Una bipartizione che aveva un senso, anche a livello di differenze nei riti, tra XVI e XVIII secolo, ma che nel mondo contemporaneo è sfumata fino a non avere quasi più alcuna valenza nelle odierne comunità ebraiche. Aschenazita serve infatti a dire altro. Nel gergo antisemita e fascistoide – si spiega nell’articolo – non ha tanto a che fare con la religione in sé quanto con una posizione sociale e una visione del mondo: individua l’ebreo ricco, banchiere (sinonimo di usuraio), cosmopolita, ovvero globalist, come direbbe l’alt right statunitense, quello rappresentato con il naso adunco nell’iconografia antisemita dei secoli scorsi poi ripresa dalla Germania nazista (aschenaziti erano la quasi totalità degli ebrei tedeschi). Ma non basta. Per capire l’improvvisa fortuna del termine bisogna andare a cercare nei deliri complottisti che proliferano nell’ultradestra Usa, arrivati fin qui, secondo cui gli aschenaziti sono discendenti dei Cazari, popolo del mar Caspio convertitosi in massa all’ebraismo per ragioni occulte di controllo del mondo… Specificare oggi di un ebreo che è aschenazita non serve a nulla, se non a echeggiare — talvolta anche involontariamente, ma non è meno grave — una ventata che riprende la più bieca propaganda degli anni Venti e Trenta del secolo scorso: l’ebreo facoltoso e nullafacente, colto e per questo infido, senza territorio e quindi senza nazionalità, straniero. Esattamente ciò che viene addebitato a Schlein (detta figlia di un luminare), che non lavora e non deve lavorare e non è davvero italiana, anzi probabilmente serve altri Paesi («Ha fatto campagna per Obama»). È, appunto, ebrea aschenazita. Benvenuti, dunque, di nuovo negli anni Venti – commenta l’articolo–. I nostri o quelli del secolo scorso, di nuovo in questo caso non sembra fare molta differenza –. Lo ripetiamo, non è per partigianeria ideologica, ma una denuncia di una visione sbagliata, inquinata di una persona pubblica, in ottica di ingiustizia di genere.
Soprattutto le donne sanno quanto tempo, quanta stanchezza e quanto poco riconoscimento ottengono occupandosi delle faccende domestiche, della cura della casa e dei familiari. Spesso per le donne è un doppio lavoro, ma se è l’unica occupazione, non è mai riconosciuta come tale. Un giudice spagnolo ha fatto giustizia. Ha scritto una sentenza storica che potrebbe essere di buon esempio anche per l’Italia. Dopo un divorzio il giudice ha condannato un uomo a pagare oltre 200mila euro all’ex moglie come riconoscimento per il lavoro domestico svolto durante i loro 25 anni di coabitazione.
La donna ha cresciuto i figli della coppia e svolto tutte le faccende domestiche durante gli anni di matrimonio. Il giudice ha parificato queste attività a un vero e proprio lavoro e per calcolare l’importo dovuto alla donna ha applicato il salario minimo vigente in Spagna: ogni anno trascorso dal giorno del matrimonio fino al 2020, quando i due hanno divorziato. La somma risultante è di 204.624,86 euro che ora l’uomo dovrà pagare all’ex moglie.
«Alla base della sentenza c’è l’articolo 1438 del Código Civil per cui i coniugi parteciperanno congiuntamente alle spese della vita matrimoniale. In mancanza di accordo, lo faranno proporzionalmente alla loro capacità economica. Il lavoro domestico sarà contabilizzato come contributo alle spese domestiche e darà diritto a una compensazione che il giudice stabilirà in caso di separazione».
Intanto per quanto riguarda l’Italia ancora non si riesce a convocare, neppure una prima volta, l’Osservatorio per l’integrazione delle politiche per la parità di genere, l’impegno ad abbattere gli ostacoli già in programma dallo scorso governo per l’attuazione di una Strategia nazionale per la parità di genere, approvata nel 2021. Non devono restare lettera morta gli obiettivi che ci si è dati al 2026: ridurre la differenza di salari tra donne e uomini dal 17% al 10%, aumentare l’occupazione e la percentuale di imprese femminili, colmare divari ancora troppo evidenti. «Nel mondo del lavoro la condizione delle donne continua a essere marginalizzata e rischiano di essere messe in discussione anche le prescrizioni del Pnrr per favorire l’occupazione femminile».
Domenica scorsa è stato il suo compleanno. Gli auguri non si danno mai prima e io mi sottopongo a questa tradizione e glieli inoltro oggi. A Piera Degli Esposti avrei fatto gli auguri, come ogni anno, e le avrei regalato, come l’ultima volta, un mazzo di fiori bianchi, che adorava, e un libro, stavolta forse di Marina Cvetaeva, poeta da lei amatissima. Mi avrebbe ringraziato e avrei avuto in cambio un sorriso che ero abituata a cogliere mentre parlavamo (che onore mi dava!) o ripassavamo insieme una parte degli ultimi lavori ottenuti, sempre all’altezza della sua arte “diversa”. Nata a marzo, sotto il segno dei Pesci (ci teneva a collocarti nel cielo delle costellazioni), era legata anche per questo tempo comune al suo amico Lucio Dalla che si portava metaforicamente dietro, dopo il suo trasferimento a Roma, come la nostalgia dei portici della loro comune Bologna.
Mercoledì scorso, seguendo la stessa regola sugli auguri, l’abbiamo festeggiata a Roma, al Teatro Basilica, appena dietro la cosiddetta Scala Santa, un teatro che sa magicamente di antico e di sperimentazione, che le si addice e che l’ha vista più volte sulla sua scena. A celebrarla Antonio Calenda (figura fondamentale in quel Teatro), suo regista di inizio e con il quale Piera ha portato avanti, con la sua geniale recitazione “diversa”, venti spettacoli. A cominciare dal piccolo Teatro dei 101, postoin quello scantinato, ricordato dal Maestro Calenda, a un passo da piazza Mazzini che ha segnato la rottura dal teatro come era allora, e ha dato a noi degli attori irripetibili come Piera Degli Esposti, Gigi Proietti, Virginio Gazzolo, Leo De Bernardinis, davvero all’avanguardia. Poi Piera ha seguito Calenda al Teatro Stabile de L’Aquila, a Siracusa con le Tragedie dell’antica Grecia e è esplosa di nuovo, stavolta nel comico, attraverso la raffinatezza ironica delle opere di Achille Campanile, rendendole più note al pubblico che le incontrava attraverso la sua magistrale recitazione. Piera sempre immensa. L’abbiamo rivista davvero, mercoledì, la sua figura in una foto, grande, proiettata sul palcoscenico e poi nei racconti dei critici-amici, nelle riprese dalle scene e dalle interviste raccolte nel bellissimo estratto del documentario Semplicemente Piera Degli Esposti: spezzoni di interviste e di recitazioni sublimi messe insieme da Manuel Giliberti, regista e amico fidato. C’era anche Dacia Maraini, con una registrazione volutamente fatta in quello stesso teatro giorni prima (perché era impegnata a Francoforte): un atto di confessione amicale e di impareggiabile stima. Tra ricordi di vita insieme. E Dacia presenterà proprio lì, al teatro Basilica, la nuova edizione del libro sulla sua amica, Storia di Piera. Già c’è la data: l’8 ottobre.
Una tra le poesie fra le più amate da Piera. me la ha ricordata, da Bologna, la sera dell’evento al mio ritorno a casa, la nipote Liza, figlia della amata sorella Carla, che insieme a Franco, ai genitori amatissimi, alla cugina Aurora erano la sua famiglia, sentitissima. Auguri Piera, ci manchi!
Una Tigre Morente – gemeva per la Sete –
Esplorai tutta la Sabbia –
Colsi il Gocciolare di una Roccia
E lo portai nella Mano –
Le sue Possenti Orbite – di morte erano velate –
Ma cercando – riuscii a vedere
Una Visione sulla Retina
Dell’Acqua – e di me –
Non fu colpa mia – che troppo lenta m’affrettai –
Non fu colpa sua – che morì
Mentre stavo per raggiungerla –
Ma fu – il fatto che fosse morta
(Emily Dickinson)
Partiamo, nella lettura di questo numero della rivista, da una riflessione necessaria, dopo la tragedia di Cutro, sul tema delle migrazioni, Globalizzazione e reciprocità tra culture, un approfondimento che farebbe bene leggere a tutte le persone a cui, ai sensi dell’articolo 54 della nostra Costituzione, abbiamo «affidato» funzioni pubbliche, da esercitare «con disciplina e onore».
Nella Sezione Compendio La cultura del cibo. Risorse selvatiche e alimenti nel paleolitico proviamo a avvicinarci a colture e cibo di altre civiltà. Per la Cucina vegana Polpette di sedano è la ricetta suggerita dalla nostra esperta, che come sempre la accompagna con l’indicazione delle proprietà nutrizionali dell’ingrediente principale di questo piatto.
Continuiamo con le nostre serie, cogliendo l’occasione di celebrare ancora la ricorrenza dell’8 marzo, scoprendo figure femminili spesso del tutto o quasi sconosciute: Maria Goeppert Mayer, per Calendaria 2023, la seconda donna a ricevere il Premio Nobel per la Fisica nel 1963, sessant’anni dopo Marie Sklodowska Curie; Properzia de’ Rossi la prima scultrice del Rinascimento e l’unica la cui biografia è inclusa tra le Vite del Vasari; Ricarda Huch, in Il fatidico febbraio 1933 e il coraggio di Ricarda Huch, intellettuale tedesca, una grande scoperta collegata a un libro recensito recentemente da Repubblica. Più nota, ma raramente descritta in ottica di genere Penelope, la più intelligente viene dipinta in Grecità, con un ritratto che prevede anche spunti insoliti di analisi rispetto a quelli studiati in passato a scuola.
La curatrice della Collana Italiane ci presenta Tina Anselmi, «una donna giusta». Poche persone sanno che a lei si devono alcune delle leggi più importanti della nostra Repubblica e lo scopriranno dalla recensione del libro di Marcella Filippa e pubblicato da Pacini Fazzi scritto su di lei.
Per Tesi Vaganti l’appuntamento è con L’evasione nella rêverie di Emma Bovary, figura femminile che «ci permette di riconoscere gli obblighi imposti dalla società alle donne, dicendoci che oggi, come un tempo, sono ancora private della possibilità di muoversi liberamente e decidere per sé stesse, giudicate e condannate, inadatte per i ruoli scelti per loro dagli uomini».
Camminando per Roma sulle tracce delle donne è la passeggiata toponomastica dell’8 marzo, organizzata da Toponomastica femminile con l’associazione Muovi Municipio I, l’abbinamento benefico e salutare dell’esercizio fisico del cammino con la storia delle donne attraverso l’odonomastica cittadina.
Quattro sono i consigli di lettura di questa settimana e descrivono donne che tutti e tutte dovrebbero conoscere: Emmeline Pankhurst si racconta riguarda l’autobiografia di una delle donne più tenaci tra le suffragette inglesi, un libro impegnativo ma necessario, che dovrebbe entrare di diritto tra quelli suggeriti nelle scuole; Vette e deserti: Lene Gammelgaard e Carla Perrotti recensisce i libri Il mio Everest della prima donna scandinava a scalare l’Everest e Deserti di Carla Perrotti. Infine, un saggio, Per un femminismo populista-Verso l’immaginazione politica del futuro di Luciana Cadahia è presentato in Femminismo e populismo, un testo che scardina la concezione diffusa del populismo, la nobilita e la rivaluta attribuendole il significato di «ciò che è connesso alla mobilitazione sociale e alle sfide che i movimenti popolari devono affrontare».
Il 20 marzo 1994 moriva Ilaria Alpi, una grande giornalista, «una giovane donna dalla schiena dritta e dallo sguardo profondo, che viveva di storie, di esistenze, di diversità e sfumature. Una donna che credeva nell’antirazzismo feroce e nella giustizia. Nel far bene e con rispetto il proprio lavoro» e la cui storia continua a colpire anche le giovani generazioni, che spesso scelgono di intitolarle le loro aule scolastiche. Il nostro ricco numero 210 si chiude qui, con l’augurio ormai abituale, fino a quando i venti di guerra in Europa non si fermeranno: Pace, forza, gioia.
SM
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Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.
Molto interessante il.viaggio intorno alla donna con pregiudizi fuori dal tempo. Soprattutto completo. Con quella sentenza spagnola che cattura.si legge e si commenta solo quella. La politica dimenticata. La magia di Giusi che sa come coinvolgere il lettore. Complimenti.
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Sei sempre caro. Le donne purtroppo appartengono alla PARTE DISAGIATA DELLA SOCIETà E NON PER LORO COLPA.Per fare una buona politica ci vogliono buone e buoni politici. Grazie delle tue parole. mi danno sempre …vitamine
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