Carissime lettrici e carissimi lettori,
democrazia, libertà (su come vengono intese), patria, patriottismo, nazione, etnia, sostituzione etnica, razza, paura, invasione, xenofobia, famiglia, denatalità, incremento delle nascite, pregiudizio, tabù. L’uso che se ne fa e le domande e le risposte che stimolano. Cambiano i governi, cambiano le parole, si trasforma l’attenzione che va verso un vocabolario, almeno diverso, se non opposto, che è il segno della differenza da quello usato precedentemente.
Quando abbiamo intuito, al di là del colore politico e della visione ideologica del governo, quando abbiamo capito che a sedere sullo scranno più alto di Palazzo Chigi, il palazzo del potere, sarebbe stata una donna, tutte e tutti (lo speriamo che ci siano anche i maschi!) abbiamo pensato e, aggiungerei, sperato, che una donna al timone ci stimolasse, ci tenesse compagnia per trovare la forza di frantumare insieme quel cosiddetto soffitto di cristallo che ci condiziona la vita e divide ancora gli uomini dalle donne.
Da un governo a guida femminile ci aspettavamo che le parole più usate sarebbero state: donna, diritti di genere, sicurezze e diritti sociali, lavoro femminile, infrastrutture consone alla parità (asili nido, aiuti economici per babysitteraggio, abolizione del gap economico, e non solo, con i colleghi maschi). Invece no. Il vocabolario è cambiato, ma è soprattutto rimasto un vocabolario macho, un dizionario dove fanno da padrone (è proprio il caso di dirlo) le parole di una visione maschile e maschilista del mondo.
Cambiano i governi, cambiano anche le parole, ma la prima volta italiana di una donna Presidente del consiglio, è partita già male nel senso del nominarsi, negando il principio stesso della grammatica italiana che almeno nell’articolo definisce la carica e indica il genere: il Presidente (termine con la “e” finale) è rimasto tale non portando la carica di novità dell’articolo al femminile, anzi aggiungendo, per gli atti ufficiali, quell’obbligo di un altro termine, indicato in signor, per rimarcarlo, quasi con ostentazione. Così già da lì, è buono ripeterlo, le parole si sono bloccate al passato e tutto o tanto si è coniugato in un pensiero che di femminilizzazione e di ottica di genere ne vuole sapere davvero poco.
In questo tempo di prima donna le parole che sentiamo più frequentemente sono Patria, Nazione, Etnia, Razza, Identificazione. Espressioni molto marcate che sottolineano il riconoscimento di un popolo compatto, sovrano e primario: si difende il Made in Italy, che addirittura va a intitolare un corso di studi superiore e indica, non solo alle ragazze e ai ragazzi che lo frequenteranno, l’orgoglio della gastronomia, dei manufatti, dello sport, oltre che dell’arte e della cultura prettamente nostrana, da non confondere, da far rimanere italica. Da non meticciare, da non coprirsi di onta del tradimento.
Cominciamo dal termine Patria. Ne parlò, tanto tempo fa, una ragazzina che, appena sedicenne, proprio per la sua bravura, seppe affrontare, seppure molto prima del tempo, il tema di maturità. Diventerà la grande giornalista e scrittrice Oriana Fallaci, profonda e divisiva proprio come l’argomento del tema trattato: il concetto di polis dalla Grecia antica ad oggi. Di quella prova di italiano in uno scritto così ricorda: «Brandii la stilografica, mi gettai come un lupo ringhioso sul foglio protocollo, e questo (più o meno) è il riassunto di ciò che scrissi per otto colonne piene. «Patria, che vuol dire patria. La patria di chi? La patria degli schiavi e dei cittadini che possedevano gli schiavi? La patria di Meleto o la patria di Socrate messo a morte con le leggi della patria? La patria degli ateniesi o la patria degli spartani che parlavano la stessa lingua degli ateniesi però si squartavano tra loro come molti secoli dopo avrebbero fatto i fiorentini e i senesi, i veneziani e i genovesi, i fascisti e gli antifascisti? È da quando ho imparato a leggere che mi si parla di patria: amor patrio, orgoglio patrio, patria bandiera. E ancora non ho capito cosa vuol dire. Anche Mussolini parlava di patria, anche i repubblichini che nel marzo del ’44 arrestarono mio padre e fracassandolo di botte gli gridavano se-non-confessi-domattina-ti-fuciliamo-al-Parterre. Anche Hitler. Anche Vittorio Emanuele III e Badoglio. Era patria la loro o la mia? E per i francesi la patria qual è? Quella di De Gaulle o quella di Pétain? E per i russi del ’17 qual era? Quella di Lenin o quella dello zar? Io ne ho abbastanza di questa parola in nome della quale si scanna e si muore. La mia patria è il mondo e non mi riconosco nei costumi e nella lingua e nei confini dentro cui il caso mi ha fatto nascere. Confini che cambiano a seconda di chi vince o chi perde come in Istria dove fino a ieri la patria si chiamava Italia sicché bisognava uccidere ed essere uccisi per l’Italia ma ora si chiama Iugoslavia sicché bisogna uccidere ed essere uccisi per la Iugoslavia. Invece di darci il tema sul concetto di questa patria che cambia come le stagioni, perché non ci date un tema sul concetto di libertà. La libertà non cambia a seconda di chi vince e chi perde. E tutti sanno cosa vuol dire. Vuol dire dignità, rispetto di sé stessi e degli altri, rifiuto dell’oppressione. Ce l’hanno ricordato le creature che sono morte in carcere, sotto le torture, nei campi di sterminio, dinnanzi ai plotoni di esecuzione gridando viva la libertà, non viva la patria…» Successe un finimondo. Alcuni dei professori che componevano la commissione esaminatrice sostenevano che ero pazza e immatura, altri che ero savia e insolitamente matura. Vinsero i secondi e mi dettero dieci meno». Questo scriveva Oriana Fallaci, a sedici anni, sul significato di due parole: patria e libertà.
Questa settimana abbiamo sentito dire tante parole, in tanti luoghi diversi, accompagnate da altre. La Libertà di parola è stata brandita come una spada al Salone internazionale del libro a Torino con e contro il direttore uscente, lo scrittore Nicola Lagioia. Le attrici e gli attori: la ministra per la famiglia, la natalità e le pari opportunità, Eugenia Maria Roccella, che era lì a presentare il suo libro, e un gruppo di contestatrici che non hanno voluto accettare il dialogo con lei: «La ministra è antiabortista – hanno detto, spiegando la loro posizione — Con una firma può rovinare le nostre vite, può cambiare le vite di tante persone. Dovrebbe essere lei, per la sua posizione, prima di fare delle leggi, a far sì che queste leggi siano il risultato di un dialogo». E quando una deputata (Augusta Montaruli) ha verbalmente inveito contro il Direttore uscente del Salone, Lagioia ha risposto: «La politica e le istituzioni diano il buon esempio e cerchino una strada. È un loro dovere e un loro obbligo».
La strada del buon esempio. Meglio quella dell’imbarazzo. E qui le epurazioni in Rai, con l’allontanamento volontario anche di Lucia Annunziata («non condivido nulla su quello che si sta decidendo sull’azienda da parte della politica»), con una squadra insediata e decisa dalla politica, tutta esclusivamente al maschile. Poi la questione della nomina di Chiara Colosimo chiacchierata per i contatti, non così occasionali come vogliono far credere, con un terrorista nero condannato per la strage alla stazione di Bologna, con i suoi 85 morti. Una nomina quanto meno inopportuna, come è stato detto da più parti. Sicuramente per l’appello che i familiari delle vittime di mafia e terrorismo hanno rivolto alle forze politiche a non votare per Chiara Colosimo alla presidenza della Bicamerale d’inchiesta. Nella lettera le associazioni delle vittime delle mafie dichiaravano una dura contrarietà a Colosimo all’antimafia: «Rimaniamo sbigottiti e increduli di fronte a questa prospettiva. Grazie alla trasmissione Report (altra a rischio epurazione! N.d.R.) sono ormai pubblici i rapporti tra la suddetta deputata di Fratelli d’Italia e il terrorista dell’eversione di destra Luigi Ciavardini», ex Nar (Nuclei Armati Rivoluzionari), condannato definitivamente per l’omicidio del poliziotto Francesco Evangelista e del magistrato Mario Amato (che aveva preso in mano le indagini del collega Vittorio Occorsio – assassinato dal terrorista neofascista Pierluigi Concutelli – sui legami tra destra eversiva, P2 e apparati dello Stato)».
Ancora parole, di uso molto comune oggi, elenca Tomaso Montanari, classe 1971, storico dell’arte e rettore dell’università per gli stranieri di Siena, autore di un significativo volume, Se amore guarda. Un’educazione sentimentale al patrimonio culturale (Einaudi). Durante una lunga intervista televisiva Montanari ha parlato di protesta, di ecologia, di giovani ecoattivisti/e, di libertà di parola e di campagne pubblicitarie inneggianti goffamente il made in Italy. Ha commentato parole qui già citate e altre ne ha aggiunte nella ribalta della cronaca: «Se un sondaggio indica un dissenso al 54% dell’opinione pubblica contro le modalità di protesta degli e delle giovani ecoattiviste – ci tiene a sottolineare il professor Montanari — io credo che si inserisca in questo discorso una preoccupazione molto ampia e diffusa rispetto a quello che è il cambiamento climatico. Mi chiedo cosa avrebbero risposto se gli fosse stato detto che nell’arco della loro vita probabilmente vedranno Venezia scomparire sotto il mare o Roma avere le temperature di Marrakesh e per questo assistere alla conseguente e definitiva rovina delle tavole dipinte nelle chiese. Oppure se gli fosse stato detto quanto spendiamo già oggi per difendere il patrimonio culturale dal cambiamento climatico. In realtà la protesta di questi ragazzi è un dito, che si può approvare o meno, ma dovremmo parlare della luna che è drammatica, che incombe proprio come la cometa del famoso film, che finisce per caderci sulla testa anche se facciamo finta di non vederla. Questo è il punto: a minacciare il patrimonio non sono le proteste ma è il cambiamento climatico e credo che su questo purtroppo non ci sia affatto una consapevolezza generale. Cos’è il patrimonio culturale e cosa dovrebbe essere il patrimonio culturale del nostro paese? È lo spazio pubblico, il luogo in cui viviamo e in cui trascorriamo gran parte della nostra vita. Sono le chiese, gli umili selciati, le facciate dei palazzi. Sono i musei, le opere e gli scavi, il luogo inestricabilmente fuso al paesaggio. L’ambiente che dà forma al nostro paese e è anche uno dei fondamenti del nostro stare insieme. La Costituzione repubblicana dal 1° gennaio del 1948 dice che la Repubblica è fondata anche sul paesaggio e sul patrimonio storico e artistico della nazione. Abbiamo bisogno di essere educati al patrimonio culturale, avremmo bisogno di studiarlo a scuola, avremmo bisogno di studiare storia dell’arte ma anche storia del patrimonio culturale. Il grande storico dell’arte Roberto Longhi diceva che gli italiani dovrebbero imparare fin da bambini la lingua dell’arte, la Storia dell’arte come una lingua viva. L’abbiamo fatto per secoli, per millenni, ma poi paradossalmente con l’unità d’Italia e con la modernità abbiamo smesso di farlo e il rischio è quello di abitare in uno spazio che non sappiamo più leggere, come se ereditassimo una biblioteca da un parente lontano, scritta in un alfabeto che noi non conosciamo più. Rischieremo di venderla o di distruggerla. Quando io dico la parola patrimonio non si accendono i cuori di nessuno. Si pensa all’amministrazione, ai ministri, agli assessori, alle leggi. C’è invece bisogno di un’educazione sentimentale, cioè di capire perché tutto questo è fondamentale per la nostra vita interiore, per il nostro diventare umani. Una campagna come quella del ministero di Santanchè è mostruosa nella totale mancanza di gusto e nell’aver aderito a un’idea d’Italia che è quella di Las Vegas, l’idea più commerciale, più caricaturale. Non c’è veramente fine al peggio. Se penso che 9 milioni di euro verranno spesi in questa campagna e penso a quello che si potrebbe fare per il patrimonio culturale con 9 milioni di euro mi vengono i brividi. Il dibattito intorno alla cultura sta diventando prettamente politico. Il Presidente Sergio Mattarella ricordando Alessandro Manzoni, per i 150 anni dalla morte, ha detto che l’attenzione deve essere data alla persona non all’etnia, ad un diritto di protezione. Un governo che parla di sostituzione etnica, che parla prima di razza e di etnia parla di destino della nazione. Il vocabolario è quello dei fascismi storici, è il progetto della Polonia o dell’Ungheria con la contrazione dei diritti civili della sottomissione della magistratura al potere esecutivo, del presidenzialismo e della paura degli stranieri, della xenofobia come strumento di costruzione del consenso. Primo Levi diceva che quando la paura dello straniero diventa un metodo politico, un pensiero della politica, si imbocca una strada in fondo alla quale prima o poi c’è il lager. Credo che Mattarella faccia molto bene a ricordare che nella nostra tradizione culturale e nella nostra Costituzione al centro di tutto ci sia la persona, il suo pieno sviluppo, la sua libertà, non l’appartenenza condizionante all’etnia. Siamo italiani per via di cultura, di paesaggio di patrimonio, non di sangue. Invece oggi in politica si sta riscoprendo il patto del sangue. Benito Mussolini era fissato con la denatalità. Le campagne contro la denatalità erano tipiche di quel periodo. Quando il duce scrive la prefazione al volume di un nazista tedesco mette in connessione lo scemare delle nascite con il declino dei popoli e scrive: «avremo un’Europa senza europei…il declino della razza bianca…». Una coincidenza con i discorsi e le parole di oggi?
Intanto arriva la notizia della morte di una grande donna, una cantante sublime, Tina Turner (aveva 84 anni) che le cronache vogliono «vissuta tre volte» tanto fu la sua vita piena di sofferenze, ma anche di violenza, come donna.
Sul tema delle parole, vive piene di sentimento, aperte al mondo ho scelto per noi la poesia di oggi, di una poeta delicatissima, Chandra Livia Candiani.
Amo il bianco tra le parole,
il loro margine ardente,
amo quando taci
e quando riprendi a parlare,
amo la parola che spunta
solitaria
sullo specchio buio del vocabolario,
e quando sborda, va alla deriva
con deciso smarrimento,
quando si oscura
e quando si spezza,
si fa ombra.
Quando veste il mondo,
quando lo rivela,
quando fa mappa,
quando fa destino.
Amo quando è imminente
e quando si schianta,
quando è straniera,
quando straniera sono io
nella sua ipotetica terra,
amo quello che resta,
dopo la parola detta,
non detta. E quando è proibita
e pronunciata lo stesso,
quando si cerca e si vela,
quando si sposa
e quando è realtà di muri
limite che incaglia al suolo,
quando scorre candida
e corre per prima a bere,
e quando preme alla gola,
spinge all’aperto,
quando è presa a prestito,
quando mi impresta al discorso
dell’altro, quando mi abbandona.
Non voglio una parola di troppo,
voglio un silenzio a dirotto,
non un commercio tra mutezza e voce,
ma una breccia,
una spaccatura che allarga luce,
una pista delle scosse.
Dammi un ascolto che precipita
parola.
Che nasce.
(da La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore, Einaudi, 2014)
Ancora un pensiero agli e alle abitanti della Romagna. Buona lettura a tutte e a tutti.
A due settimane dalla Festa della Mamma, cominciamo la rassegna degli articoli di questo numero con alcune riflessioni sulla difficoltà di essere madre nel nostro Paese, scritti da due persone di generazioni diverse: Crisi demografica e diritti riproduttivi delle donne: un dilemma irrisolvibile? e Un’altra maternità è possibile. Pensieri sparsi sulla Festa della Mamma. Gender equality in settori economici vitali è la quinta parte del nostro resoconto sul Rapporto 2023 sull’eguaglianza di genere dell’Unione Europea. Leggeremo di quante difficoltà ci siano ancora per superare la segregazione economica e occupazionale nei Paesi dell’Unione Europea.
Continuiamo con le nostre serie presentando, per Calendaria 2023, Nadine Gordimer, Premio Nobel per la Letteratura, scrittrice e grande attivista per l’affermazione dei diritti umani contro l’apartheid e la censura in Sudafrica; di questa parte del pianeta continuiamo a parlare dal punto di vista dell’alimentazione, con Africa. Le origini, le piante nutritive e le abitudini alimentari. In un certo senso, non solo ma anche del continente in cui ha avuto inizio l’evoluzione umana continuiamo a leggere nella quinta puntata della Serie Italiano Lingua altra con L’Italiano per migranti, la storia di una donna del Marocco e del suo percorso di apprendimento della nostra lingua. Rileggere i classici. XIX secolo. Parte prima è una nuova puntata della serie che ci invita a riflettere sulla necessità di operare «un cambio di prospettiva per coloro che insegnano letteratura [… ] ovvero di mettere in rilievo quanto il modello patriarcale abbia provocato ferite enormi nelle nostre società, che continuano a sanguinare ancora oggi» Di ferite provocate da una mentalità patriarcale e mafiosa tratta anche la recensione di questa settimana, che riguarda il libro di Pif e Marco Lillo sulla storia delle sorelle Pilliu e della loro mamma, Io posso, raccontata nell’articolo Donne contro la mafia, una storia di coraggio e perseveranza.
«Fino ad oggi lo sport ha preferito imporre categorie convenzionali ai corpi reali facendo fuori quelli scomodi invece che elaborare le categorie sulla base dei corpi esistenti». Di questa dichiarazione di Silvia Nugara si discute approfonditamente in Sport e transgender, con riflessioni interessanti.
Quella appena trascorsa è stata anche la settimana dei Festival, quello del Salone del libro di Torino, appena concluso, in cui la nostra associazione è stata presente con ben due eventi, raccontati in Toponomastica femminile al XXXV Salone internazionale del libro di Torino e Festival èStoria 2023 a Gorizia, ancora in corso, in cui proprio domani la nostra Presidente Maria Pia Ercolini insieme ad altre associate di Toponomastica femminile racconterà le tante iniziative per la parità che ci contraddistinguono da più di dieci anni e che « lavora con l’obiettivo di creare un mondo alternativo in cui donne e uomini possano trovare le stesse opportunità».
Gli anniversari che ricordiamo in questo numero sono due: Anna Seghers, voce marxista della letteratura tedesca del Novecento, nel quarantesimo dalla sua morte e il Doppio anniversario per Anna Proclemer, fra le grandissime del teatro del Novecento, racconto biografico di una donna straordinaria, dall’ indiscutibile fascino, dallo sguardo penetrante, dalla voce bellissima, dal grande magnetismo, come ce la ricorda l’autrice dei due articoli. Chiudiamo come sempre con la nostra ricetta, Gratin dauphinois, piatto della cucina francese, rivisitato in ottica vegana, augurandovi Buon appetito.
SM
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Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.