Elfriede Jelinek. Nobel per la letteratura

Per «[…] il flusso melodico di voci e controvoci in romanzi e testi teatrali, che con estremo gusto linguistico rivelano l’assurdità dei cliché sociali e il loro potere […]». 
«Viennese, ebrea, slava»: così si descrive Elfriede Jelinek in un’intervista attribuendosi un’identità composita, ai margini.

Nata in Stiria nel 1946, si trasferisce presto a Vienna. Il padre, Friedrich, è un chimico ebreo che si era salvato dalle persecuzioni perché impiegato in un’industria bellica; dagli anni Cinquanta soffre di crisi depressive. La madre, Olga Ilone Buchner, di origine rumena, provvede al mantenimento della famiglia. Elfriede, come dichiara nel 2020, vive in un ambiente in cui i ruoli erano capovolti: la madre «era la figura eccezionalmente forte, mentre il padre era il debole». A entrambi i genitori rimprovera di averle rubato l’infanzia: il padre non l’ha difesa dalle ambizioni materne, la madre le ha imposto un programma educativo inflessibile.
Fin da piccola viene orientata verso una carriera musicale: studia pianoforte, violino, organo, composizione, frequenta il conservatorio di Vienna dove si diploma come organista nel 1971. Non completa gli studi universitari a causa di crisi di agorafobia, disturbo che l’accompagna per tutta la vita. Vive un periodo d’isolamento durante il quale s’immerge nella lettura dei classici, scopre Roland Barthes e coltiva la passione per la scrittura.

Comincia a pubblicare poesie e romanzi e si avvicina ai movimenti contestatari del Sessantotto. Nel 1974 aderisce al Partito comunista austriaco, dal quale uscirà nel 1991. La sua produzione è molto varia e ricca: spazia da raccolte di poesie (L’ombra di Lisa, 1967) a romanzi, sceneggiature cinematografiche, testi teatrali.

Jelinek è anche traduttrice, autrice di libretti d’opera e di tre Lieder dodecafonici. Numerosi sono i premi che ha ricevuto: tra di essi il premio Heinrich Böll nel 1986, il Georg Büchner nel 1998 e nel 2004 il premio Franz Kafka e il Nobel.
Elfriede Jelinek è un’autrice corrosiva, controcorrente. I temi che tratta sono scomodi, lo stile sperimenta forme innovative ed è tagliente come frammenti di vetro. 

Quando le viene conferito il Nobel molti reagiscono con sconcerto: per citare un solo caso, ma significativo, va ricordato che Knut Ahnlund, membro della Commissione del Nobel, si dimette dall’Accademia in dissenso con questa decisione. Per la stessa Jelinek il premio è inaspettato, è “confusa e imbarazzata”. A causa della sua persistente agorafobia non ritira il premio di persona, ma invia un video in cui legge il suo discorso In disparte. In esso è possibile rintracciare alcuni elementi significativi della sua poetica.

La realtà «non si lascia mettere in ordine», è «spettinata», spinge in disparte il poeta, il cui «posto è sempre al di fuori»; l’intellettuale cammina accanto agli altri, ma non sa vivere come loro, il suo sguardo è obliquo: per questo ha la possibilità di superare il «dire» della chiacchiera, del discorso superficiale per approdare al «parlare», che parte dalla superficie delle cose, dalla descrizione della realtà, ma la destruttura, «penetrando fino al nocciolo. Come un verme nella mela».

Alle parole Jelinek attribuisce un compito gravoso e un grande potere; la sua scrittura, che lei stessa definisce una «partitura di linguaggio», lavora sulla dimensione acustica, ritmica, è una lunga onda sonora, debitrice alla sua formazione musicale. Amplificazioni, estensioni, aumenti si riconoscono nei suoi testi, i temi si intrecciano secondo una tecnica contrappuntistica, si ha una processione ripetuta e ossessiva di frasi, ricca di graffianti virtuosismi, di citazioni letterarie, di scarti nel registro linguistico, di giochi di parole delle quali distorce il senso. Attraverso questa tecnica, raffinata e dissacratoria, vuole «costringere lo stesso linguaggio […], anche contro la sua volontà, a restituire la verità che sta dietro le cose».

Jelinek disseziona la società capitalistica neoliberista per mostrarne la ferocia ed è particolarmente critica verso il suo Paese, amato e odiato. L’Austria vive nell’ipocrisia di una menzogna storica: non ha fatto i conti con la sua storia antisemita, col disprezzo per le minoranze che sono state «cultura batterica» per il nazismo.
Il tema della memoria negata, presente in molte opere, è evidente nel romanzo Gli esclusi in cui segnala l’impunità di tanti nazisti (il padre del protagonista) e la violenza che si perpetua nella società avvelenando anche i giovani che, infatti, la riproducono rabbiosamenteIn Burgtheater, un’opera teatrale del 1985, denuncia le complicità col nazismo di alcuni attori attivi e noti anche nel dopoguerra.
L’Austria continua a essere un paese chiuso, paternalista, che esclude le donne dagli apici delle produzioni culturali e musicali. Il suo essere femminista («cos’altro dovrebbe essere una donna?») la porta a sviscerare senza pietà il rapporto tra i sessi – e la sessualità – come rapporto di predominio, che si aggiunge alle disuguaglianze sociali.

Nel romanzo Le Amanti le due giovani protagoniste, vittime e complici, vedono l’unica possibilità di futuro nel matrimonio e nei figli, e non riescono a liberarsi, a liberare le loro voci, le loro potenzialità. «Se qualcuno ha un destino è un uomo, se qualcuno riceve un destino è una donna».
Erika, l’insegnante di pianoforte protagonista del romanzo La Pianista, vive un rapporto morboso e autolesionista con la madre, ambiziosa e inquisitrice. Vive una sessualità voyeuristica, ma quando si illude di poter stabilire un rapporto (amoroso?) con un suo studente, tutto precipita nella violenza: Klemmer, libero dalla disciplina musicale e posto su un piano di parità con la maestra, ora che ha imparato «a conoscere la libertà», rivela la vera natura fallocratica del rapporto tra i sessi esercitando una violenza bruta e primordiale contro la donna.
Nel romanzo La voglia, uno dei più discussi, definito pornografico per la sua crudezza, descrive con audaci strategie narrative (tra l’altro, collage di liriche d’amore di grandi autori ottocenteschi) il tema della donna ridotta a oggetto sessuale in qualunque forma di relazione, dalle produzioni pornografiche fino al matrimonio, anche se qui in maniera più nascosta.
Il romanzo è del 1989 ma ancora oggi – come scrive nel 2020 – nella sostanza «si perpetuano i medesimi rapporti di potere». «Danno ai nervi, i testi! Sono faticosi e penetranti», scrive di lei Nicolas Stemann.

È vero, è una lettura impegnativa, provocatoria, perturbante, ma necessaria: i suoi personaggi non sollecitano l’identificazione empatica ma la riflessione razionale. Jelinek apre domande inquietanti e urgenti sulla contemporaneità. «Il narrare è una necessità, a volte urgenza, ma sempre un atto politico»: un martello nelle mani di Elfriede Jelinek.

Qui le traduzioni in francese, inglese, spagnolo e ucraino.

***

Articolo di Angela Scozzafava

Si è laureata in filosofia della scienza con il prof. Vittorio Somenzi e ha conseguito il Diploma di perfezionamento in filosofia.  Ha insegnato — forse bene, sicuramente con passione — in alcuni licei. Ha lavorato nella Scuola in ospedale, ed è stata supevisora di Scienze Umane presso la SSIS Lazio. Attualmente collabora con la Società Filosofica Romana; scrive talvolta articoli e biografie; canta in cori amatoriali e ama i gatti.

2 commenti

Scrivi una risposta a Caterina Valchera Cancella risposta