Vederci con gli occhi altrui ci aiuta a capire un po’ di più quello che siamo o, meglio, ciò che trasmettiamo a chi ci guarda e proviene da un altro contesto politico, sociale e culturale. Nasce proprio dalla precedente considerazione l’idea di iniziare a raccontare la nostra Resistenza a partire dall’analisi di Denis Mack Smith, uno dei più famosi storici inglesi, specializzato nella storia italiana dal Risorgimento in poi, e dal suo volume, Storia d’Italia dal 1861 al 1997. Nel capitolo dedicato alla trasformazione democratica italiana, l’autore definisce il fenomeno resistenziale italiano come «un movimento popolare patriottico» e sostiene che: «nella Resistenza si distinsero alcuni dei migliori uomini [ndr, e donne] del paese; essa inoltre fornì un buon addestramento in fatto di coscienza sociale e una nuova manifestazione di patriottismo idealistico. Nessuno che abbia vissuto quella esperienza ha potuto dimenticarla, e mai prima d’allora dei cittadini ordinari avevano partecipato così attivamente alla vita nazionale».
I nuclei centrali dell’analisi di Mack Smith sono tre e sono quelli che ci guideranno: movimento popolare, patriottismo e partecipazione; parleremo di una Resistenza italiana che presenta molteplici e variegati percorsi e cammini, un arcobaleno di colori come quelli dei fazzoletti delle Brigate.
Partiamo dunque dalla parola Resistenza e dal significato che essa assume tra il 1940 e il 1945, cioè: «lotta contro il nazifascismo in Europa e in Italia durante la Seconda guerra mondiale». Si deve al generale francese Charles de Gaulle e alle onde di Radio Londra la diffusione a livello mondiale della parola con quel significato e alla sua traduzione nelle diverse lingue: «Quoi qu’il arrive, la flamme de la résistance française ne doit pas s’éteindre et ne s’éteindra pas» [qualsiasi cosa accada, la fiamma della resistenza francese non dovrà spegnersi e mai si spegnerà]. Era il 18 giugno 1940, la Francia si avviava verso la firma della resa senza condizioni con la Germania e si era da pochi giorni concluso quello che venne definito come il “miracolo di Dunkerque”, cioè un’operazione militare straordinaria che aveva permesso alle forze anglo-francesi di salvare gli uomini dei rispettivi eserciti dalla trappola a tenaglia tesa loro dai tedeschi e di riparare in Gran Bretagna. Da qui De Gaulle cerca di risvegliare le e i francesi dal torpore dello sbigottimento per la repentina disfatta della Francia, dando inizio all’opposizione contro l’occupazione tedesca del paese.
Ma quando inizia la nostra Resistenza? Non certo nel giugno del 1940, mese in cui il dittatore Benito Mussolini decide di entrare in guerra a fianco della Germania, rispettando quanto stabilito nel Patto d’Acciaio firmato nel 1939 e contribuendo al piano hitleriano di conquista dell’Europa. Già all’inizio, il progetto fascista di una “guerra parallela”, per scongiurare l’assoggettamento italiano alla superiorità militare tedesca, si rivela un fallimento totale e, su tutti i fronti aperti dall’iniziativa italiana, è necessario l’intervento tedesco per evitare la disfatta. I prodromi della nostra Resistenza si possono intravedere già a partire dalla primavera del 1942: la guerra diventa un peso insostenibile per la popolazione civile che riceve scarse notizie dai propri cari, che combattono sui vari fronti; che subisce il razionamento dei viveri; che assiste all’incredibile perdita del potere d’acquisto e che è chiamata a sopportare enormi sacrifici per sostenere lo sforzo bellico. La perdita di consenso, o meglio la forzata accettazione del regime fascista, si sgretola progressivamente: a maggio del 1942 le donne scendono in piazza per chiedere la distribuzione di patate, per lamentare la scarsità dei generi alimentari e per denunciare i prezzi troppo alti. Da quel momento, le proteste continuano, coinvolgendo anche operaie e operai fino a culminare negli scioperi del marzo 1943, che non possono essere considerati come uno sciopero generale, ma per la prima volta dopo vent’anni di dittatura, rappresentano un’imponente manifestazione di dissenso di lavoratori e lavoratrici, soprattutto delle aree industriali dell’Italia settentrionale. A coordinare l’azione è presente a Milano un Comitato per la pace e la libertà che si impegna anche a elaborare, scrivere, stampare e diffondere volantini.


La repressione da parte del regime fascista non tarda e vengono arrestati diversi lavoratori e lavoratrici, tra di loro anche Gina Galeotti Bianchi, deferita poi al Tribunale Speciale per essere tra le organizzatrici dello sciopero e condannata al carcere; sconterà la pena per quattro mesi per poi essere liberata nel luglio del ’43 e continuare la sua attività resistenziale come staffetta da settembre ’43 fino al 24 aprile 1945 quando, incinta di otto mesi, viene falciata da una raffica di mitra, sparata da un camion di soldati tedeschi in fuga. La liberazione di Gina Galeotti dal carcere è legata a un evento cruciale per la nostra storia: la caduta del regime fascista. Dopo lo sbarco alleato in Sicilia (10 luglio 1943), finalizzato all’apertura di un fronte in quello che il primo ministro inglese, Wiston Churchill, definiva come “il ventre molle dell’Asse”, il destino della dittatura fascista è segnato: le disastrose campagne in Grecia, Africa e Russia e, infine, l’invasione siciliana, fanno comprendere a tutte/i che la guerra è perduta. Nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943, il Gran consiglio del fascismo vota la sfiducia a Mussolini che, il giorno successivo, viene destituito in modo ufficiale dall’incarico di primo ministro dal Re che lo fa arrestare con la motivazione di essere responsabile della guerra e della disfatta italiana. Vittorio Emanuele III incarica, quindi, il Maresciallo Badoglio di formare un nuovo governo: le e i prigionieri politici vengono lentamente liberati e a dominare il panorama italiano vi è un atteggiamento di euforia per la fine della ventennale dittatura fascista. Badoglio prende contatto con gli Alleati per trattare la resa che viene firmata a Cassibile il 3 settembre, ma annunciata pubblicamente solo l’8 settembre 1943, che possiamo considerare come la data di nascita della nostra Resistenza, cioè il momento in cui in modi e forme diverse viene detto NO al sopruso, alla violenza, all’occupazione nazifascista. La decisione di opporsi si manifesta a seguito del dramma nazionale, che quella data segna, paragonabile forse solo alla disfatta di Caporetto durante la Prima guerra mondiale, vediamone i motivi. Innanzitutto, Badoglio tergiversa ad annunciare pubblicamente l’armistizio e questo atteggiamento indispone gli Alleati che intensificano i bombardamenti su città come Civitavecchia, Viterbo e Napoli; poi, costretto dal proclama Eisenhower, il nuovo primo ministro legge alla radio un messaggio che lascia basite/i per l’ambiguità. Dopo aver annunciato la resa, il proclama di Badoglio lascia l’esercito senza indicazioni chiare, dicendo che ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare, ma si sarebbe dovuto reagire a eventuali attacchi di qualsiasi provenienza. Tutto ciò genera sgomento e confusione, amplificate ancora di più dalla fuga dalla Capitale dei vertici militari, di Badoglio, del Re e del principe Umberto verso l’Italia liberata dagli Alleati.

A peggiorare ulteriormente la situazione, si assiste alla repentina azione dei tedeschi che invadono la penisola e catturano circa 800.000 soldati italiani, in patria e all’estero; di questi circa 650.000 finiscono o in campi di prigionia tedeschi oppure in campi di concentramento. Questi soldati non vengono considerati dai nazisti come prigionieri di guerra, ma Imi (Internati militari italiani) e ciò li priva delle tutele garantite dalla Convenzione di Ginevra, costringendoli sostanzialmente a lavorare per la Germania come se fossero schiavi. Durante l’internamento agli ufficiali soprattutto, ma in generale a tutti gli Imi, viene ripetutamente offerta la liberazione a patto di arruolarsi e di combattere contro gli anglo-americani a fianco dei tedeschi. La maggior parte degli internati rifiuta e percorre la strada di una Resistenza senz’armi. La storiografia si è recentemente molto interessata a questa forma di resistenza, prima poco studiata, che ha avuto testimoni illustri come, ad esempio, lo scrittore Giovannino Guareschi, famoso per i libri su Don Camillo e Peppone, che, durante la prigionia, scrisse un diario, pubblicandolo nel 1949 e dedicandolo ai compagni che non erano tornati.
Se quella degli Imi è stata senz’armi, le prime forme di Resistenza con le armi si verificano su alcuni dei fronti in cui l’esercito italiano era impegnato insieme a quello tedesco: è il caso di Cefalonia e di Corfù, presidiate dalla Divisione Acqui. Alcuni reparti di questa divisione si rifiutano di consegnare le armi all’ex alleato tedesco; seguono aspri scontri che portano, infine, alla sconfitta degli italiani. Il numero delle vittime di Cefalonia non è determinabile in modo certo, secondo le stime più attendibili si aggira tra i 2313 e i 3800 morti; altri 1350 soldati muoiono nei giorni successivi alla resa, mentre sono imbarcati su navi dirette in continente poiché incappano in mine.
Tra l’annuncio dell’armistizio e la resa del colonnello Lusignani (26 settembre 1943) a Corfù, accadono altri fatti molto importanti: Mussolini, detenuto presso l’albergo di Campo Imperatore sul Gran Sasso, viene liberato da un commando tedesco, trasportato a Vienna dove incontra Hitler e prende accordi per la rinascita del fascismo nell’Italia occupata dai tedeschi: il 23 settembre si costituisce la Repubblica sociale italiana (Rsi), detta anche Repubblica di Salò in quanto la maggior parte dei ministeri erano dislocati nella cittadina sul lago di Garda, uno stato fantoccio completamente soggiogato alla Germania. Tra i primi atti del rinato regime fascista c’è l’obbligo per i soldati di leva di entrare a far parte dell’esercito repubblichino. Se alcuni soldati italiani, infatti, vengono condotti nei campi di prigionia tedeschi e altri avevano già agito la propria resistenza sui vari fronti, una parte cospicua aveva però cercato di tornare a casa, per ripensarsi e valutare cosa e come fare: è di fronte a questa massa di sbandati, che corrono il pericolo di essere intercettati e arrestati dai tedeschi, che la Resistenza assume i caratteri di movimento popolare e vede un’amplissima partecipazione popolare, soprattutto femminile. Scrive Luigi Meneghello nei Piccoli maestri, uno dei romanzi sulla Resistenza a me più cari: «Pareva che volessero coprirci con le sottane»; Arrigo Boldrini, il famoso comandante Bulow, dirà, invece, anni dopo: «Senza le donne non ci sarebbe stata la Resistenza». Questo perché a soccorrere, sfamare, rivestire in borghese, sottraendo dalla cattura e indirizzando gli sbandati sulla via di casa sono soprattutto donne “comuni”, cioè che agiscono senza il sostegno di ideologie in senso stretto politiche e che non hanno armi per difendersi. La storica Anna Bravo ha coniato il concetto di maternage di massa per indicare proprio questa disponibilità femminile nei confronti di un destinatario ben determinato, il giovane maschio vulnerabile che si rivolge in quanto tale alla donna come a una figura forte e protettrice, vale a dire a una madre. Non sono solo donne, ma anche civili quelli che accolgono e aiutano gli sbandati: è il caso, ad esempio, dei contadini che allestiscono improvvisati luoghi di ristoro nelle campagne offrendo polenta, salame e vino ai soldati italiani allo sbando. Queste donne e questi uomini formano una rete resistenziale fondamentale e determinante per gli sviluppi futuri del movimento, sono persone che hanno risposto all’appello della propria coscienza, aiutando in modo gratuito e disinteressato chi aveva bisogno, e che sono rimaste umane mentre attorno a loro dominava la disumanità. Questa Resistenza da alcune/i detta civile e da altre/i senz’armi costituisce un pezzo importantissimo della nostra storia, del nostro essere comunità, e va valorizzata e studiata in quanto fondativa di ciò che siamo state/i in grado di fare e di essere: persone solidali, capaci di accogliere e aiutare chi scappava dalla guerra, dalla distruzione, dalla morte. A questa fase, ne seguirà un’altra che porterà a prestare aiuto agli ex prigionieri inglesi presenti sul nostro territorio.

Ci sono però anche intere città che si sollevano contro l’occupazione tedesca, è il caso di Napoli dove si costruiscono barricate tra il 27 e il 30 settembre per impedire il reclutamento di 30.000 persone da inviare in Germania. Quando gli Alleati entrano in città, il 1° ottobre 1943, Napoli è già liberata e per questo viene insignita della Medaglia d’Oro al Valor Militare. Queste forme spontanee di resistenza sono affiancate dall’iniziativa dei partiti antifascisti, che tornano in scena e si impegnano nell’organizzazione della Resistenza armata ai tedeschi e fascisti: nascono i Cln (Comitati di liberazione nazionale), organismi politici in cui si realizza l’unità di questi partiti (comunista, socialista, d’Azione, democristiano, liberale e democratico del lavoro) per il raggiungimento di un obiettivo comune e, qualche mese dopo, si costituisce il Corpo volontari per la libertà, struttura militare di coordinamento delle forze partigiane. Dire che la nostra Resistenza sia stato un movimento consapevole, ben organizzato e pianificato fin dall’inizio è, a mio parere, scorretto; certamente nella tipologia delle forme di aggregazione presenti dopo l’8 settembre, gruppi decisi a combattere ci sono un po’ ovunque, ma la consapevolezza e l’efficacia dell’azione non sono così evidenti. Per esprimere meglio questa considerazione, ricorro ancora alle illuminanti parole di Luigi Meneghello che inventa la metafora dell’onda per descrivere le fasi iniziali del movimento: «La verità è che non avevamo capito le possibilità della situazione: nell’euforia attivista dei primi mesi, quel senso di essere portati da un’onda, raramente ci si era fermati a domandarsi: Ma che cosa succede esattamente? Come s’inquadra tutto questo nella storia italiana? Come si deve fare, ora, a parte farsi portare dall’onda?». Spontaneismo, disincanto, attivismo e ribellismo sono per me elementi centrali per comprendere la scelta resistenziale: a volte si segue l’amico/a, il fratello, gli insegnamenti dei propri professori del liceo (si pensi, ad esempio, a Fenoglio); a guidare alcune/i è proprio il disincanto, il superamento di un’illusione, della visione deformata della realtà che vent’anni di regime avevano contribuito a produrre. Di grande aiuto per meglio comprendere quest’ultimo aspetto sono le parole della partigiana Tullia Romagnoli Carettoni: «Va detto innanzitutto che la nostra generazione è venuta su in una scuola fascista […]. Siamo stati una generazione educata all’idea di patria, per cui il concetto di patria era molto vivo, ne erano permeati i libri di testo e tutta quanta la nostra cultura. Pertanto, quando ci rendemmo conto di cosa era il fascismo (e la cosa spaventosa era che la mia generazione non conosceva altro, a parte quelli che erano di famiglia antifascista), avevamo solo l’idea di patria, di nazione, dell’unità d’Italia ecc. Superare tutto ciò in nome di cosa? Non sapendo nulla di democrazia […]. Ora lei pensi […] cosa abbia significato a un tratto desiderare la sconfitta del proprio paese. Fu una cosa molto difficile. Io ebbi una crisi spirituale […]. Fu lacerante non sentire dispiacere per i bombardamenti». La generazione che ha fatto la Resistenza, a parte chi era antifascista o proveniva da una famiglia antifascista, era stata educata al concetto fascista di patria, aderire alla Resistenza ha significato decostruire quel coacervo fatto di nazionalismo, razzismo e militarismo e definirne un altro fondato su principi democratici ed egualitari che costituiscono la base della nostra Costituzione: la Resistenza è stata per noi non solo lotta contro il nazifascismo, ma anche una palestra di democrazia, un laboratorio identitario in cui è stato costruito un nuovo modello di comunità; ecco perché è impossibile prescindere dalla Resistenza quando si parla di democrazia italiana ed è, a mio giudizio, altrettanto impossibile inventare un modello identitario alternativo a questo: la Resistenza ci definisce come italiane e italiani, anche quelle/i che scelsero l’altra parte perché come scrive magistralmente Calvino nel Sentiero dei nidi di ragno: «Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, mi intendi? Uguale al loro va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi». Il riscatto e la costruzione di un’umanità serena e veramente libera non riguardavano solo la parte che avrebbe vinto, ma erano un ideale universale che riguardava tutte/i anche quelle/i che combattevano dall’altra parte.
La Resistenza con le armi si configura come una guerra di guerriglia che si combatte in montagna e in città. In montagna ci sono le Brigate che si differenziano in base all’appartenenza politica: le Brigate Garibaldi comuniste, le Brigate Gielliste azioniste; le Fiamme Verdi democristiane, le Brigate Matteotti socialiste, le Brigate Autonome composte prevalentemente da militari e monarchici. A contraddistinguerle il colore dei fazzoletti che le/i partigiani portano al collo: rosso per le/i comunisti; verde per azioniste/i e democristiane/i; giallo per le/i socialisti; azzurro per chi è autonoma/o.

In città ci sono i Gap (Gruppi d’azione patriottica) e le Sap (Squadre d’azione patriottica), afferenti al Pci e le Brigate del popolo democristiane. Se in montagna la guerra di guerriglia è resa possibile dalla conformazione del territorio, in città sono prevalenti le azioni di sabotaggio e di contrasto nei confronti dell’occupante. Alla lotta armata partecipano uomini e donne, queste ultime in numero inferiore e non sempre facilmente stimabile perché la Resistenza femminile è una resistenza spesso taciuta in quanto nell’immediato dopoguerra l’avervi aderito non rappresenta motivo di vanto e stima per molte militanti, ma un’esperienza che avrebbe potuto compromettere la propria reputazione al punto da mettere a repentaglio il proprio futuro lavorativo e famigliare e, quindi, meglio non raccontare e non dire. È solo nella seconda metà degli anni ’70 che studi e ricerche permettono di raccontare la Resistenza delle donne che, complice anche la storiografia interessata prevalentemente, se non esclusivamente, al contributo maschile, era rimasta silente.
La guerra partigiana è una guerra dura e continuamente minacciata da rappresaglie, non si avvale di una dotazione adeguata di armi e di viveri e sarebbe stata impossibile senza il contributo della popolazione civile. Di fondamentale importanza è anche la conoscenza del territorio e la rapidità della comunicazione per la quale ci si avvale, anche in questo caso, principalmente delle donne che, in sella alle loro biciclette, riescono più facilmente a eludere i posti di blocco tedeschi e fascisti e trasportare ordini, armi e fogli di propaganda: sono le staffette partigiane.

La partecipazione delle donne alla Resistenza porta alla fondazione di un’organizzazione esclusivamente femminile: i Gruppi di difesa della donna che nascono a Milano nel novembre del 1943 per iniziativa di cinque donne Giovanna Boccalini Barcellona, Rina Picolato, Lina Fibbi, Lina Merlin e Ada Marchesini Gobetti; nel giro di due anni da 5 il numero di aderenti salirà a 70.000 (per approfondire, si veda https://vitaminevaganti.com/2019/11/09/noi-donne-noi-compagne-di-combattimento/). L’esperienza all’interno dei Gdd è di fondamentale importanza sia per l’educazione democratica femminile, ma anche per la maturazione della consapevolezza che non basta sostenere la guerra partigiana, ma è necessario ampliare il proprio orizzonte e avere un obiettivo più ampio: il raggiungimento della parità di genere. L’educazione democratica e alla parità si avvalgono del contributo determinante dell’organo di stampa dei Gdd, il giornale Noi Donne. Le partigiane, che combattono in montagna e in città insieme ai partigiani, vengono considerate compagne di lotta e vivono in una condizione di parità, alcune di loro, come Walkiria Terradura, da poco scomparsa, ricoprono il ruolo di comandanti. È però solo una breve parentesi che si conclude con la Liberazione quando, durante i cortei vittoriosi nelle città liberate, alle partigiane viene espressamente vietato di sfilare insieme ai compagni: un duro ritorno all’ordine a cui le donne rispondono tenacemente, intraprendendo un altro cammino di resistenza, che tutte noi continuiamo a percorre, per raggiungere un’effettiva parità.
Come detto in precedenza, l’educazione democratica durante la nostra Resistenza è stata un aspetto centrale e avviene avvalendosi sia di specifiche figure, i commissari politici, che raggiungono i vari gruppi di partigiane/i, ma anche e soprattutto attraverso volantini e giornali che vengono battuti a macchina e stampati di notte, in segreto, in tipografie che appoggiano la lotta: essi rappresentano un veicolo d’informazione essenziale e vitale per la Resistenza. Ecco cosa scrive in proposito la staffetta partigiana Ida D’Este: «Mi piace trasportare i giornali. Forse perché la staffetta conosce le fatiche del tipografo, sa che lavora di notte nella cripta di una chiesa, l’orecchio teso ad ogni rumore della strada. Ricorda lo sguardo luccicante di febbre di chi, la mattina, all’angolo di Via XX Settembre le consegna i pacchi del nuovo numero di “Fratelli d’Italia” e di “Libertà”. Ogni foglio ha un valore immenso di rischio e di sacrificio».

La nostra Resistenza si conclude con la Liberazione? Come processo storico indubbiamente la risposta è sì, l’obiettivo di sconfiggere il nazifascismo è raggiunto, resta però l’insieme di valori fondativi del movimento e del nostro essere una comunità di italiane/i, resta la militanza e la sentita partecipazione civile, resta un’esperienza indimenticabile per chi l’ha vissuta con luci, ma anche ombre che le ricerche storiografiche hanno indagato e continuano a studiare. Restano gli oggetti della nostra Resistenza che io amo ricordare: i fazzoletti, le biciclette, i volantini e i fogli resistenziali, le scatole con le fotografie e i documenti della propria militanza organizzati e conservati dalle e dai resistenti in attesa di essere trovati/donati. Tutto questo va custodito, protetto, tramandato e soprattutto condiviso perché rappresenta la radice della nostra pianta e un popolo che non conosce o non riconosce le proprie radici fluttua pericolosamente perché non è ancorato al suo terreno, non riesce ad assorbire ciò che è per lui vitale per sopravvivere e lentamente muore. Ne era consapevole Ferruccio Parri, uno dei capi della Resistenza, che, oltre a impegnarsi politicamente per la ricostruzione democratica del paese, nel 1949 diede un contributo fondamentale per la nascita dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, che porta il suo nome. Oggi l’Istituto nazionale Ferruccio Parri è a capo di una rete di istituti dislocati su tutto il nostro territorio, che continuano a perseguire lo scopo del suo fondatore, cioè conservare e studiare il patrimonio documentario della Resistenza al fine di trasmettere e tramandare alle nuove generazioni le nostre radici democratiche perché come Ferruccio Parri stesso sosteneva: «La Costituzione è ancora portata da quest’onda, e presenta veramente la fisionomia e la natura di un ultimo grande Cln, in cui la rappresentanza politica non è in ragione della forza numerica, ma in ragione della rappresentanza di un settore di idee, e la Costituzione non è né monolitica né si regge su compromessi, ma su mediazioni, i cui termini essa riprende dalla lotta e ripete, come legge dello Stato, come linguaggio comune per tutti noi».
In copertina: Rosi Romelli, partigiana della 54a Brigata Garibaldi.
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Articolo di Alice Vernaghi

Docente di Lettere presso il Liceo Artistico Callisto Piazza di Lodi. Si occupata di storia di genere fin dagli studi universitari presso l’Università degli Studi di Pavia. Ha pubblicato il volume La condizione femminile e minorile nel Lodigiano durante il XX secolo e vari articoli su riviste specializzate.
