Carissime lettrici e carissimi lettori,
«La Scuola è di tutti e per tutti». Una frase forte, decisa, senza tentennamenti
e per niente demagogica, come purtroppo tante di quelle che ci propongono
da tempo.
A parlare una personalità politica di alto spessore che, come tale, ne rafforza
la potenza: il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo discorso
inaugurale per l’apertura dell’anno scolastico, ospite dell’istituto “Saffi-Alberti”
di Forlì, una delle città più colpite dalle alluvioni di maggio. Scorrendo le parole
dell’intervento del Capo dello Stato la percezione netta, oltre a quella,
fondamentale, dell’autorevolezza, è l’inclusione, il diktat della necessità di dare
importanza alla formazione perché arrivi, in tutta la sua complessità, a ogni
giovane.
Il Presidente Mattarella lo dice in un luogo significativo che dai giorni
dall’estate, oggi andata via, rimanda a quelli di una primavera amarissima per
l’acqua che non ha dissetato, ma ha distrutto le terre della Romagna,
portando rovina e uno sfacelo che si prolungherà probabilmente per molti
anni. E proprio sul territorio colpito Mattarella sottolinea l’importanza
sociale, di evoluzione e salvezza, della Scuola. Non è populista, retorico come
può immaginarsi un discorso di circostanza fatto durante un’inaugurazione. É
stato, invece, altamente autorevole e ha toccato corde importanti e portanti di
questo momento storico, come, ad esempio, l’immigrazione, ponendola tra i
nodi centrali dell’evoluzione e, dunque, dell’educazione, primaria nella Scuola
che: «Non tollera esclusioni, marginalizzazioni, differenze, divari. Ne verrebbe —
e, talvolta, ne viene – deformata…Le nostre classi sono frequentate da circa
800mila studenti, migranti o figli di migranti stranieri. Un decimo degli iscritti
nei nostri istituti. Si tratta di un impegno educativo imponente. Studiano da
italiani, apprendono la nostra cultura e i nostri valori, e possono costituire un
grande potenziale per il Paese. Dal loro positivo inserimento può dipendere una
parte importante del futuro dell’Italia…Non si cresce, senza il necessario spirito
civico, nell’isolamento. Perché forme, pur non dichiarate né intenzionali, di
separazione producono rischi gravemente insidiosi per l’intera società.
Dobbiamo scongiurare il rischio di giovani che, crescendo al di fuori dei canali
scolastici, traducano la loro marginalizzazione in rifiuto della convivenza o come
impulso alla ribellione». Un discorso non retorico, ma altamente illuminato che
tocca argomenti centrali, sorti alle cronache proprio questa estate durante la
quale, forse complice il caldo estenuante, ma certo non solo, sono venute alla
luce, coinvolgendo i/le giovani e soprattutto i e le minorenni, dalla strada, reale,
al non-reale, o come si dice virtuale, dei social. Nel mezzo ci dovrebbe essere la
famiglia affiancata (quando non sostituita) dalla Scuola, sempre con l’onore
irrevocabile della maiuscola. Seppure, lo dico tra parentesi, ma con amarezza, la
Scuola non risulta dai sondaggi rilevati ultimamente tra i primi posti come
esigenza di attenzione per il sociale e, tanto meno, l’individuale. Non che
carovita, salute, pensioni non siano aspetti importanti, ma si dovrebbe capire, le
istituzioni e le singole persone dovrebbero comprendere, che una scuola ben
fatta forma persone non solo colte, preparate alla cultura, ma aperte al mondo e
capaci di pensare al valore della libertà, parola non di poco significato e temuta
da qualsiasi pensiero/governo cosiddetto forte o, meglio, autoritario, contrario
alla democrazia, al governo del popolo di rimando all’antica Grecia.
L’educazione o ri-educazione deve essere il cardine del sistema scolastico e
non intesa come punizione, merito, in quanto timore dell’agire,
mortificazione del soggetto o minaccia.
Il Merito che intitola da poco il Ministero dedicato all’istruzione
ora sembra sottintendere, con le riforme (?)
che stanno seguendo (il voto in condotta ecc.) un aspetto punitivo e non
rigorosamente propositivo del processo complesso dell’educazione e della
didattica implicita. Questa è una scuola perdente, con la minuscola,
bacchettona, che fa fuggire i ragazzi e le ragazze che invece dovrebbe attrarre.
«Dobbiamo incoraggiare il lavoro di tanti insegnanti, entusiasti e volenterosi —
dice ancora con autorevolezza e gratitudine Mattarella —. Aiutare la loro strada
per camminare insieme agli studenti, evitando che cambino ogni anno, con la
necessità di ricostruire ogni volta il rapporto con loro. Assicurando loro
condizioni economiche adeguate, e restituendo pienamente alla loro funzione il
prestigio che le compete nella società e che talvolta è messo in discussione da
genitori che non si rendono conto di recar danno ai propri figli». Poi l’accento
del Presidente della Repubblica riguarda, forte sempre, la sicurezza a scuola. Il
problema della stabilità degli edifici scolastici troppo spesso pieni di pericoli e di
rischio di crolli o la constatazione amara della presenza di ambienti non igienici.
Il disagio, promesso da tempo e mai realizzato (soprattutto dopo il ritorno post
Covid-19) causato dalle cosiddette classi pollaio, in cui il sovrannumero di
studenti costringe a una didattica più povera, esclusivamente frontale, non
coinvolgente e dedicata a ciascuno e ciascuna giovane, che dovrebbero, come ha
detto la dirigente di Palermo, essere felici di andare a scuola!
Disagio e frustrazione giovanile. Le statistiche, o meglio, i dati, ci parlano chiaro.
Aumentano i tentativi di suicidio (380 tentativi) o autolesioni, aumenta l’uso
dell’alcool (più di un milione e mezzo di dipendenze in Italia tra gli 11 e i 25
anni), la dipendenza da strumenti elettronici che li e le rende, ragazze e ragazzi,
molto più sole/i. Per questo le nuove generazioni hanno urgente bisogno di una
Scuola che stimoli e valorizzi, senza tentennamenti e con autorevolezza, e non
sia, al contrario, dannosa perché autoritaria e minacciosa.
Come abbiamo detto prima, si parla poco di Scuola e della sua centralità. Non lo
fanno le istituzioni né è tra le esigenze fondamentali per la società che la relega
in un posto secondario tra i bisogni da espletare con immediatezza per il bene
comune. Ma tristemente la Scuola si mette immediatamente al primo posto
quando il discorso si sposta su altre esigenze, come discutere di omofobia, sesso,
educazione sentimentale, famiglia e religione. Quel Dio patria e famiglia che è la
formula che si pone alle basi della società maschilista e autoritaria, ha il
sopravvento e vede nell’educazione e nei suoi luoghi il piatto più appetibile da
usare per trasformare e guidare la società futura a modo proprio. Così un
ministro che dovrebbe occuparsi di infrastrutture (tale è il suo ministero)
declama frasi che, a dir poco, chiamerei invasate e autoritarie. Impone il
ministro: «l’obbligo di esporre il crocifisso in luogo elevato e ben visibile in tutte
le scuole, uffici della pubblica amministrazione, carceri, ospedali, stazioni porti e
aeroporti». È questione di voti, di campagna elettorale? Non certo di fede.
Rassereniamoci. Da un libro, anzi dal Libro, parte la grande Michela Murgia e ci
dona (perché le sue parole sono un dono) una lezione sulle parole e sul potere.
Murgia comincia dalla Genesi con un Dio-creatore che dà il nome alle cose
dell’universo e stabilisce attraverso il nominare il rapporto
superiorità/inferiorità tra lui e ciò a cui ha dato il nome. Con l’uomo (e la donna)
il Dio, dice sempre Murgia, delega la nominazione delle cose più spicciole. Poi
entra nel vivo dell’argomento: «II primo rapporto di potere nasce dal potere di
nomenclare. Posso dare nomi alle cose. Allora tutte le volte che io mi trovo
davanti a una realtà di relazione problematica, mi domando le parole che sto
usando, le parole che stanno usando su di me chi le ha decise? Un film che si
intitola Chiamami con il tuo nome è diventato una specie di modo di dire tra gli
amanti. Chiamami col tuo nome per dire: Io e te siamo così confusi, siamo così
sovrapponibili? Non si vede più il confine tra quello che sono io e quello che sei
tu. Ecco questa cosa è possibile solo tra amanti e soggetti perfettamente paritari.
Le due cose non sempre coincidono. Per cui è una frase che esprime tenerezza e
riconoscimento quando non ci sono rapporti di potere. Invece chiamami col tuo
nome è quello che succede tutti i giorni nella vita quotidiana, a tutta una serie di
categorie di persone che si ritrovano col proprio nome negato e il nome di
qualcun altro addosso, per cui noi, seppure non tutti facciamo questo errore, non
chiamiamo le cose per come sono. Noi chiamiamo le cose per come siamo. In
base a come le recepiamo in relazione a noi, le nominiamo. Per cui i neri, le
persone di colore, non hanno saputo di essere neri finché non è arrivato il primo
bianco e li ha chiamati neri, perché? Perché li ha nominati in rapporto a sé? Non
è che prima le persone di colore si chiamassero tra di loro negri, li abbiamo
chiamati noi così. E le persone omosessuali, gay, finocchi e tutto il resto.
Nessuna persona omosessuale si è mai autodefinita. Quella nomenclatura nasce
dal mondo eterosessuale o presunto tale, che a un certo punto si è messo a dare
nomi alle persone omosessuali in relazione alla percezione della propria
normalità e della anormalità degli altri.
Se ci ragioniamo un attimo, i nomi di tutte le categorie discriminate,
pensiamo per esempio al concetto di disabilità,
che è una parola in negativo, significa, ti manca un’abilità, è chiaro che chi ha
inventato quel nome era una persona che le abilità le aveva tutte. Perché ha
immaginato sé stessa come normativa e gli altri a scalare soggetti con qualcosa di
meno rispetto alla norma. Quindi si deve andare a quella di diversamente abili,
cioè a qualcosa che non è sottrattivo. Non ti dice cosa hai di meno, ma ti dice
cosa hai di altro. Ci sono voluti anni, persone che dicono basta con questo
politicamente corretto. Adesso dobbiamo chiamare diversamente abili, si li devi
chiamare così. Perché? Perché significa che tu stai cedendo alla realtà delle cose
un po’ dell’arroganza che ti sei preso pensando di essere normale. Eravamo nel
giardino dell’Eden e potevamo dare nomi a tutto, fuori da ogni possibile
relazione. Se accettiamo che esistano le relazioni, dobbiamo accettare che i nomi
delle cose e delle persone siano oggetto di contrattazione. Tutte le volte che io
scelgo un nome che fa del male all’altro, sto distruggendo la relazione. Se non
voglio che la relazione venga distrutta dobbiamo arrivare insieme a un nome.
Che rappresenti la verità di entrambi, ma soprattutto la verità della persona
nominata, senza ferirla. A me sembra che questa cosa sia una cosa nobile, che
dica quanto siamo creativi come specie, che dica quanto siamo capaci di risolvere
i conflitti semplicemente servendoci di strumenti che sono culturali. È questa la
superiorità di specie, se mai ne esistesse una, il riuscire ad andare oltre la
propria, istintiva, percezione delle cose, smettere di essere noi che diamo i nomi.
L’unica misura del mondo. Accettare che le misure possano essere diverse e
possono addirittura essere accordate». Questa è Scuola. Ed è di nuovo Michela
Murgia ad insegnarcelo. Dovremmo imparare.
«Siamo qui per migliorare la vita». Lo sentiamo da tanti e tante straniere
approdate da noi. Estranee a noi, secondo il discorso di Murgia, appena citato.
Non è uno slogan, ma è un urlo e un grido d’aiuto per chi rischia la vita pur di
arrivare in un luogo dove può mettere in atto il proprio sogno, per sé e per i
propri figli o figlie. Qualche volta si rischia dolorosamente solo per loro. Sfido
qualsiasi genitore o genitrice (il biologico qui c’entra poco!) a mandare il proprio
ragazzo o ragazza (ci sono, ve lo assicuro, tante ragazze minori che tentano la via
del mare da sole!) lontano da sé stessi e dalla casa/terra di origine. Ma il grido
del bisogno supera la barriera del dubbio e si parte, si fa partire, rischiare. Forse
si arriva. Anche in questo caso l’amaro «non dovevano partire», pronunciato
davanti ai 70 morti di Cutro è limitativo e punitivo. Ancora una volta, per
un’altra situazione la stessa risposta.
Sì, consoliamoci ancora. Stavolta lo facciamo con Marina Ivanovna Cvetaeva
(1892-1941). Cvetaeva non conobbe mai Aleksandr Aleksandrovič Blok – il
maggiore esponente del simbolismo russo — ma ebbe per lui, come poeta,
un’ammirazione profonda tanto da dedicargli un’intera raccolta poetica.
L’altra poesia è di una poeta fiorentina, classe 1970, mi ha colpito molto e mi
sembrava calzante con questo editoriale.
Versi per Blok
Il tuo nome è una rondine nella mano,
il tuo nome è un ghiacciolo sulla lingua.
Un solo unico movimento delle labbra.
Il tuo nome sono cinque lettere.
Una pallina afferrata al volo,
un sonaglio d’argento nella bocca.
Un sasso gettato in un quieto stagno
singhiozza come il tuo nome suona.
Nel leggero schiocco degli zoccoli notturni
il tuo nome rumoroso rimbomba.
E ce lo nomina lo scatto sonoro
del grilletto contro la tempia.
Il tuo nome − ah, non si può! −
il tuo nome è un bacio sugli occhi,
sul tenero freddo delle palpebre immobili.
Il tuo nome è un bacio dato alla neve.
Un sorso di fonte, gelato, turchino.
Con il tuo nome il sonno è profondo.
Marina Ivanovna Cvetaeva, Poesie, Feltrinelli, Milano, 1979, traduzione di
Pietro A. Zveteremich
Solo il mio nome
mi sta nelle tasche, tondo
come una certezza.
Chiedimi: «Come ti chiami?» e ti saprò rispondere
— rotoleranno timide ma svelte le lettere —
altro non ti so dire
– potrebbe aprirsi il vuoto
sotto il peso di un’affermazione –
o forse anche una supplica ti saprò accennare:
«… torniamo semplici?».
Come ti chiami?
Irene Marchi, da La parte in ombra, Edizioni Ensemble, 2018
Buona lettura a tutte e a tutti e, da oggi, buon autunno
«Il crimine più facilmente imputato a una donna è quello di andare contro le
aspettative: i margini più stretti nell’assumere i ruoli familiari e sociali creano
per lei maggiori probabilità di essere etichettata come trasgressiva». Partiamo
da questa considerazione contenuta in Alterità inquietanti per iniziare la
rassegna degli articoli di questo numero, che ci presentano figure di donne
che hanno rifiutato di incatenarsi nei ruoli in cui il pensiero unico patriarcale
le aveva relegate. La prima è Tawakkol Karman. Nobel per la Pace a soli 32
anni, politica, giornalista e attivista yemenita per i diritti umani “Madre della
Rivoluzione”, più volte arrestata per la sua difesa della libertà di parola e per
il suo impegno a realizzare la pace con la nonviolenza. Anche alcuni
personaggi femminili e scrittrici ricordate in Rileggere i classici. Il secondo
Novecento. Parte seconda fanno parte di questa schiera di donne che «non
mirano a compiacervi ma a piacersi», come avrebbe detto Michela Murgia, a
cui l’articolo è dedicato; così come le figure raccontate nell’articolo Lo
sguardo femminile del Grand Tour. Parte prima, «donne emancipate, colte,
ricche, sorprendentemente moderne, donne pensanti, orgogliose della loro
indipendenza, animate dall’amore per i viaggi, e da un desiderio di libertà e di
conoscenza». Cambiamo discorso. Le donne nel lavoro marinaro, poi, con
l’intervista alla relatrice che ne parlerà in un prossimo webinar, ci guiderà
attraverso l’evoluzione che le donne hanno avuto in un settore poco
conosciuto e che ne ha visto, fin dall’inizio, il protagonismo.
Un tema importante di questo numero è il viaggio, a noi caro al punto da
avergli dedicato una Mostra, Le viaggiatrici e un Convegno nazionale:
Ontheroad, che si è svolto tra Lodi e Melegnano, nel 2018. Oltre all’autrice
che ha recensito Le viaggiatrici del Grand Tour. Storie, amori, avventure, di
Attilio Brilli e Simonetta Negri, ce ne parlano anche le autrici di Alla ricerca
dei luoghi amati da Marcel Proust e In Messico oltre le nuvole con Julia
Filippo, due articoli che prendono spunto dalla bellissima rubrica di
rairadiotre Lovely Planet. E proprio questo sabato parleremo anche di viaggi
al femminile al Festival delle Geografie di Villasanta, che ha per titolo
Ragnatele, a ricordarci la reticolarità dell’insegnamento della Geografia.
«Un rettangolo verde, in Via Camillo Golgi, 36 – all’angolo con via Bernardo
Ugo Secondo, a Milano – da martedì 20 giugno 2023 ha un nome: Anna
Carena. Attrice 1899-1988, inciso in una piccola lastra di marmo, da quel
giorno compagna di un ulivo bicentenario, che non voleva più essere solo».
Di questa donna poliedrica e piena di energia ci parla l’autrice di Anna
Carena. L’anima popolare di Milano, un’altra delle tappe fondamentali che
sono state realizzate per rendere visibile quello che le donne hanno fatto nel
teatro.
Veniamo al centenario che ci piace celebrare in questo numero: L’operetta Il
paese dei campanelli compie cento anni è l’elogio di un genere che troppo
spesso, dai non addetti e dalle non addette ai lavori, è considerato
ingiustamente minore.
Il consiglio di lettura che proponiamo è Diario partigiano, di Ada Gobetti
Marchesini, nell’articolo Ada Gobetti. Le donne, la politica, che rende onore a
questa grande donna, che ebbe la fortuna di confrontarsi con una delle menti
più lucide dell’antifascismo italiano, il giovane marito Piero, massacrato e
ucciso dai fascisti a soli 25 anni. Questa volta Ada Gobetti è raccontata
soprattutto nel suo essere donna in politica, mentre in un passato numero
della nostra rivista ne avevamo indagato soprattutto l’antifascismo
(https://vitaminevaganti.com/2021/08/07/riflessioni-e-invito-alla-rilettura-del-diario-partigiano-di-ada-prospero-marchesini-gobetti/). Per la serie
Italiane suggeriamo la lettura del sedicesimo volume di questa
interessantissima collana. Ne scrive l’autrice di Edda Bresciani. L’egittologa
che ha segnato un secolo, che ci presenta la prima donna di ruolo nella facoltà
di Lettere di Lucca, la prima donna laureata nella materia e la prima donna in
cattedra per l’Egittologia.
La birra è la bevanda d’oro. Per la storia dell’alimentazione questa volta le
dedichiamo Una bevanda divina. La birra ha conquistato le popolazioni sin
dalle sue origini, in cui scopriremo che queste risalgono a oltre settemila anni
fa. Di alimentazione, ma non solo, parleremo anche con l’autrice che riflette
su Le nostre decisioni e il loro impatto. Lo sfruttamento degli animali,
un tema importantissimo nella nostra epoca, per molti aspetti che è necessario
approfondire.
Chiudiamo, come sempre, con la ricetta suggerita dalla nostra rubrica La
cucina vegana. Zucchine ripiene di verdure, un piatto di stagione, ricco ed
economico, facile da preparare, augurando a tutte e tutti buon appetito.
SM
***
Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.
