Donne antifasciste nel carcere di Perugia. Parte quinta

E poi accadde che nel Paese dove per anni si era esaltata la mistica della maternità si andò casa per casa a prendere le madri per schiaffarle in galera.
Il carcere si riempì di mamme.
Laura Mariani le definisce donne ostaggio, perché furono incarcerate e trattenute come ostaggio al posto dei figli “disertori”. Siamo nel periodo subito dopo l’armistizio quando si sfasciò l’esercito italiano rimasto senza ordini, disastro magistralmente raccontato da Luigi Comencini in Tutti a casa, con Alberto Sordi, Eduardo De Filippo e Serge Reggiani.

“Il Pomeriggio”, 16-17 settembre 1943

Nell’inverno 1943-44, secondo i registri, nel carcere di Perugia c’erano novantadue donne ostaggio, ma tutte le testimonianze ci dicono che furono molte di più quelle che vi transitarono; non tutte venivano registrate. Alcune rimasero pochi giorni, altre diversi mesi. Furono ammassate al piano superiore del giudiziario. La consapevolezza di vivere tutte la stessa situazione fece sì che seppero sostenersi a vicenda e restare unite. Erano quasi tutte dell’Umbria centro-settentrionale e di estrazione proletaria.
Il prefetto Rocchi sperava, attraverso il ricatto, di convincere le madri a denunciare i figli renitenti alla leva e/o i figli a costituirsi. Il risultato fu che queste donne vissero il carcere come l’ennesimo sopruso: la sorpresa di essere arrestate, il freddo, la fame, i pianti, l’ansia per i familiari. La maggioranza di loro non si piegò ma si convinse definitivamente a non collaborare con i nazifascisti.
Ho lasciato le testimonianze di queste donne in dialetto (così come sono raccolte in La “dimensione donna” nella Resistenza umbra, a cura di Cristina Papa, Quaderni Regione dell’Umbria, Perugia, 1972 e in Laura Mariani, Quelle dell’idea: storie di detenute politiche, De Donato, Bari, 1982) perché sono convinta che trascritte in italiano perderebbero in autenticità, del resto penso che il linguaggio usato risulti sufficientemente comprensibile. Il racconto di questo quinto episodio sarà così fatto direttamente dalle donne ostaggio.

Virginia Marchesi Baioletti, commerciante: «Volevano prende tutti ‘sti ragazzi e portalli via, allora per ostaggio presero noi. […] Ma dove andavano a combatte, con chi? E ‘n se sapeva più perché si sbandavano tutti […]. Li mandavamo nella campagna, dai contadini che se conoscevano».

Emilia Sentimenti Bruni, operaia della Perugina: «C’ero diventata amica con quelle che erano con me in cella. Era molta gente de campagna, eran brave, chi faceva la calza…, c’era una poretta che diceva sempre: “Ma io ho da sta’ di qui, a casa mia c’ho tanto da fa’”. […] c’avevo sempre qualche lineetta di febbre e dopo infatti so’ stata ricoverata in sanatorio; avrei potuto anda’ in infermeria in carcere, ma io ‘n ce so’ voluta anda’ perché dopo in infermeria ho detto la compagnia non ce l’ho».

Gilda Gigliarelli, operaia precaria: «M’hanno arrestato perché il fijo dice che non s’era presentato […]. Il freddo! Nevicava. I carabinieri c’evon l’ombrella e l’impermeabile, io ‘n c’evo niente. Dice: “Tu! Voglion sape’il fijolo dov’è. Hai da fa’ la domanda pe’l sussidio”. So’ jta via tutta contenta, lavoravo alla valigeria. E invece quando so’ stata lì non m’hanno armandato […]. M’han messo ‘n prigione. [E a casa] evo da fa’ coi fijoli tutti piccoli, tre, il più piccolo aveva cinqu’anni, la femmina dieci e questo n’aveva diciassette […]. Quando so’ entrata m’han portato per du’ file de scale, c’evo un paio de scarpe, le forcelle (in italiano forcine). M’han levato ‘gni cosa, m’hanno staccato anche i bottoni […] E dopo se sentivano i bombardamenti di lì, ma de casa non sapevo niente. Ce davano un pezzettin de pan così, un goccin de brodo, co’ ‘na mollica de du’ cavoli. Ecco quel che ce davano da magna’. Io pensavo che anche i fijoli non c’evon niente da magna’ […]. Eravamo tutte su ‘n’aula, ma quando m’han portato in prigione m’avevan messo in un corridoio; c’era ‘na finestra alta, di lì ci pioveva, veniva giù ‘l letto proprio. Nevicava, ero tutta molla, allora me mettevo a piagne […]. Dopo è venuto il prefetto in carcere e s’è messo a fa’ la morale, ha detto: «Se ‘n se presentano i vostri fiji, se non li trovate non ve lasciamo e ta loro li fucilamo».

Anche Emilia Sentimenti riferisce questo episodio: «Io me ricordo solo quando venne ‘sto Rocchi, che ce fecero mette tutte allineate in corridoio e lui disse che dovevamo falli presentare e che insomma li abbiamo educati male, perché altrimenti… Allora una, poretta che è morta, je disse: “Mica ‘n sono scappati da casa nostra. Sete voialtri che ‘n sete stati boni a tenelli. Sono scappati che eran sulle mani vostre”. E lui dice: “Eh, direttore, metta in cella di punizione!”. E la fece mette giù ne’ sotterranei».

Ora torniamo ai racconti di Gilda Gigliarelli: «Una volta m’è venuta a trova’ la mi’ mamma, eravamo al parlatorio, c’era ‘sto fijolo più cinino (in italiano più piccolo) che c’ho e lu’, porellino, me zompava su p’i ginocchi, m’abbracciava. E le suore mel chiappavano. Lu’ me teneva e loro lo strappavano, perché avevan paura che lu’ m’abbracciava, me baciava, che me diceva qualcosa. Dopo una volta ce venne il mi’ por marito, perché quelle donne me dicevano: “Ma il tu’ marito non te vien mai a trova’!”. “Eh – dico – c’ha da guarda’ i fiji, c’ha da cercaje da magna’”. E lui ce viene ‘na volta e allora je dissi, quando eravamo al parlatorio: “Beh, questo è il mi’ marito”; e lu’ dice: “E chi te conosce?”, perché aveva paura che nnel facevano riusci’. Adesso ce rido, ma allora piagnevo».

Amelia Toderi, casalinga: «Io sono stata in carcere 15 giorni. Lì c’erano altre donne sempre a causa dei figlioli. […] ci portavano tutte le mattina alla messa. Il mangiare era quello che passavano a tutti. Se avevamo i soldi si poteva prendere qualcosa di diverso. Altrimenti bisognava mangiare a quel modo. Si dormiva su una balla di foglie con due coperte; la notte era freddo da morire: quando c’era qualche bombardamento ci ritiravamo tutti in una camera grande, stavamo a pregare lì, avevamo paura. Ci dicevano tutta sorta di cose, che ci portavano ai campi di concentramento, che ci fucilavano. […] Quando ci hanno lasciato, noi piangevamo perché ci hanno detto che ci lasciavano andare, ma dovevamo far uscire i figli dai conventi perché altrimenti, se li avessero trovati, li avrebbero fucilati in presenza dei genitori. Così fecero. Mi ricordo quando fucilarono dei giovanotti, anche qui a Torgiano, nel ’44, sempre perché si erano nascosti per non tornare sotto le armi».

Consiglia Chiucchini, contadina: «Ho avuto sei figli, ho fatto la terza e ho lavorato sempre da contadina, insieme con mio marito e quattro vecchi […]. Sono stata in prigione quarantasei giorni perché mio figlio, mentre faceva il militare, era scappato. […] Eravamo quarantasei donne, si stava sempre insieme lì, si piangeva, questo più che altro, e sempre le bombe. Mia figlia di 15 anni veniva a trovarmi e mi portava qualcosa da mangiare. Quando parlavamo con i familiari, c’erano sempre le guardie per sentire e anche quando scrivevamo le lettere ai familiari, le volevano vedere prima loro».

Margherita Nobilini, contadina: «Durante la guerra avevamo tante bestie ed eravamo diciotto persone, sei figli […] e poi avevamo tre vecchi, poveracci, colpiti, infermi e bisognava nutrirli. […] ero con gli zoccoli e stavo governando le bestie, quando sono venuti i carabinieri, hanno arrestato mio marito e hanno portato via anche me. Io ho pianto tanto tanto, mi strappavo i capelli, perché avevo una creatura piccolina di sette mesi, un figliolo faceva il soldato e non sapevo se era morto o vivo, poi c’avevo altri due ragazzi in guerra. E poi non avevo mai visto le carceri […]. Ero stata operata allo stomaco, stavo male e mi hanno fatto stare due mesi in prigione. Dopo un mese che ero in prigione mi chiamò Rocchi su un salone con sedici fascisti intorno e gli dovevo dire dove era mio figlio. Gli dissi: “Scusa sora eccellenza, cosa gli devo dire dove è il figliolo se io l’ho fatto presentare, non so se è morto o vivo”. M’ha messo così sull’attenti, dicendo che ero io la colpevole, che ero io che l’avevo istradato. […] In carcere eravamo novanta donne, carcerate sempre a causa dei figlioli, ma molte erano riuscite a fuggire e non farsi acchiappare. Io stavo al nido perché avevo la figlia piccola […]. Ma io che ero stata operata allo stomaco, mangiavo una volta al giorno quattro pezzi di cavolfiore, cipolla, rosmarino, così quando sono tornata a casa mi sono dovuta operare un’altra volta».

Decreto sui disertori fatto da Mussolini

All’inizio fu facile per le guardie andare nelle case a prelevare con pretesti vari queste donne. La provincia di Perugia era prevalentemente agricola, le donne in campagna vivevano isolate e non sapevano quasi nulla sull’andamento della guerra. Poi però i contadini, grazie al passaparola, si organizzarono e molte donne, come testimoniato da Margherita Nobilini, riuscirono a scappare per non farsi prendere. Le guardie volevano andare sul sicuro e si guardavano bene dal presentarsi nelle case dove ci potevano essere persone che sapevano difendersi. È il caso, a Cannara, della famiglia Presenzini. Tre figli erano in montagna con i partigiani slavi, ma le guardie non andarono a prelevare le donne che erano rimaste a casa perché si sapeva che erano armate.
Vorrei concludere con le parole di Laura Mariani: «Per le donne ostaggio la necessità che la guerra finisse si mescolava con il desiderio di una vita diversa; esse furono, a loro modo, delle politiche, anche se non sapevano di politica».

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Articolo di Paola Spinelli

Ex insegnante, ex magra, ex sindacalista, vive a Perugia alle prese con quattro gatti e i suoi innumerevoli hobby, ma è in grado di stare bene anche senza fare niente.

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