Energie rinnovabili e consumo del suolo

Pale eoliche, pannelli solari fotovoltaici, pannelli fotovoltaici con accumulo, dighe, barriere marine, sono tutti manufatti che incidono a volte pesantemente sul paesaggio di una regione. Inoltre, a parità di energia prodotta, le fonti rinnovabili richiedono molto più spazio rispetto a quelle fossili. Per esempio per installare i 50, 60 e 70 Gw di fotovoltaico previsti dal Piano nazionale integrato per l’energia e il clima, Pniec, che fissa gli obiettivi e traguardi italiani al 2030, serviranno rispettivamente 50.000, 60.000 e 70.000 ha, pari a 500, 600 e 700 chilometri quadrati (km2) (Suman 2021a; 2021b).

Pannelli solari distrutti da un tornado a Civitavecchia (fotogramma da Rainews)

Per l’energia solare ci sono vantaggi e svantaggi: al momento i rendimenti degli impianti fotovoltaici e termici sono bassi e si riesce a produrre circa un terzo dell’energia teorica. Il più grande problema legato all’utilizzo dell’energia solare riguarda la discontinuità di essa dato che il cielo può essere nuvoloso, la notte si alterna al giorno e le batterie di accumulo sono estremamente costose.
La vita dei pannelli fotovoltaici è abbastanza lunga, 25 anni circa, e i pannelli sono riciclabili, ma richiedono un trattamento speciale che ha dei costi sia in termini economici che di impatto ambientale, ovvero di energia utilizzata per il riuso, perciò non è vero che i pannelli solari non inquinano. Nella fase di produzione i pannelli solari sono assimilabili ai prodotti di un’industria chimica. Nel processo produttivo, infatti, sono utilizzate sostanze tossiche o esplosive che richiedono la presenza di sistemi di sicurezza per la tutela dei lavoratori e dell’ambiente. Anche nel caso di malfunzionamento degli impianti di produzione di energia solare i rischi sono molto simili a quelli di un qualsiasi stabilimento industriale. A seconda del tipo di pannello prodotto cambiano i rischi: la produzione del pannello solare cristallino implica la lavorazione di sostanze chimiche come il triclorosilano, il fosforo ossicloridrico e l’acido cloridrico, quella del pannello amorfo prevede il silano, la fosfina e il diborano. In altre produzioni viene usato il seleniuro di idrogeno e il cadmio, ad elevata tossicità e forte impatto sulla salute. Le cellule fotovoltaiche di ultima generazione utilizzano il coltan, una miscela complessa di columbite (Fe, Mn)Nb2O6 e tantalite (Fe, Mn)Ta2O6, la cui estrazione è denunciata da anni dalle organizzazioni umanitarie per il terribile sfruttamento dei lavoratori.
A gettare ulteriori ombre sull’energia solare da fotovoltaico è il sistema di produzione dei pannelli di cui la Cina è il più grande produttore mondiale. Numerose denunce hanno sottolineato non solo lo sfruttamento delle fabbriche cinesi, ma anche la terribile quantità di inquinamento prodotto. Dovremmo perciò anche calcolare quando ci sentiamo molto green il fatto che, mentre in Occidente abbattiamo la nostra impronta di carbonio utilizzando i pannelli solari, proprio in seguito alla nostra domanda, in Cina aumenta la produzione di gas serra e di inquinanti.

Anche le turbine eoliche hanno i loro problemi. Parlando di consumo del suolo cominciamo subito col dire che una sola turbina da 2,5 MW, alta circa 100 m con un rotore del diametro circa 120 m, occupa 80 acri (32,37 ettari) e che la distanza tra due turbine eoliche deve essere di almeno 410 metri. Per la wind farm di Dunmaglass in Scozia con 33 turbine furono costruite 20 miglia di strade e gettate 1.500 t di cemento (Parry & Douglas 2011).
Il problema più evidente è la discontinuità della fonte: il vento è anche meno prevedibile del sole e per funzionare le turbine hanno bisogno di un range di forza del vento determinato, né troppo basso, né troppo alto. Il secondo, a parte quello estetico, è quello delle pale. Esse sono, infatti, caratterizzate da resine di poliestere, fibre di vetro o di carbonio, in ogni caso da materiali compositi molto difficili da separare e quindi quasi impossibili da riciclare. Secondo la WindEurope (2020), le turbine eoliche – al momento – hanno una riciclabilità tra l’85% e il 90% in peso. La Bundesverband WindEnergie (BWE, ente di energia eolica tedesco) ha stimato tempo fa che, da qui al 2025, saranno demolite dalle 1.000 alle 2.500 pale all’anno. Tra cinque anni potremmo avere dunque un cimitero di circa 17.500 pale che corrispondono a 140.000 tonnellate di rifiuti (Rubino 2020). Il terzo è il consumo di Ree. Nel caso delle turbine eoliche sono necessarie circa 2 tonnellate di neodimio per turbina, il cui cuore è un magnete fatto con una lega di neodimio-ferro-boro (Nd2Fe14B) (Milmo 2010). «La quota del neodimio e del disprosio che verrà impiegata dal settore europeo dell’energia eolica nell’arco di tempo tra il 2020 e il 2030 rimarrebbe l’1% dell’offerta mondiale», ha commentato Justin Wilkes, Policy Director della European Wind Energy Association (Ewea), oggi a Bruxelles (Rinnovabili.it 2011). Il rapporto del Ccr identifica correttamente il crescente utilizzo di generatori a magneti permanenti nelle turbine eoliche – i principali materiali richiesti per questi magneti sono ossidi di terre rare, soprattutto del neodimio e del disprosio. Nel dettaglio il rapporto del Ccr riporta che:
neodimio – nel 2020 l’industria eolica europea utilizzerà tra le 326 e le 635 tonnellate, pari ad una percentuale tra 1,8%-3,5% della fornitura mondiale 2010;
disprosio – nel 2020 l’industria eolica europea utilizzerà tra le 22 e le 44 tonnellate, equivalente a 1,9%-3,6% (Rinnovabili.it 2011).
Lo studio avverte che le risorse globali di neodimio, utilizzato per i magneti delle turbine eoliche, e il disprosio, impiegato nei veicoli elettrici, con l’aumento vertiginoso della domanda di tecnologie pulite potrebbero presto scarseggiare sul mercato mondiale. Si è calcolato che nei prossimi 25 anni, se le emissioni di gas serra verranno ridotte secondo gli obiettivi fissati, la domanda di neodimio potrebbe aumentare del 700% e quella del disprosio del 2.600%. I mercati, però, potrebbero non avere la capacità sufficiente a soddisfare tale domanda.
In sintesi:

  • Non è una fonte di energia continua.
  • Il problema più evidente, a parte quello estetico, è quello delle pale costituite da resine di poliestere, fibre di vetro o di carbonio materiali impossibili da riciclare.
  • Il consumo di terreno.
  • Il consumo di Ree (nel caso delle turbine eoliche sono necessarie circa 2 tonnellate di neodimio per turbina, il cui cuore è un magnete fatto con una lega di neodimio-ferro-boro).
  • La Cina produce il 50% delle turbine eoliche.
Il dominio cinese nella produzione mondiale di REE; fonte D. Kingsnorth, IMCOA (2011)

Lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio e lutezio sono gli elementi della tavola periodica denominati “terre rare” o Ree (Rare Earth Elements) cui si aggiungono anche scandio e ittrio che però non sono dei lantanidi. Il nome non significa che sono “rare” (c’è più neodimio che stagno sulla superficie terrestre), ma che sono “disperse”. Alcune Ree, come disprosio, lantanio, neodimio e itterbio, utilizzate per leghe necessarie per mantenere la magnetizzazione dei motori elettrici, si trovano principalmente in Cina (70%), Australia (12%), e Stati Uniti (8%). Poiché l’estrazione di questi elementi è particolarmente inquinante, negli anni 1980 gli Usa chiusero i propri giacimenti e “delegarono” alla Cina la fase di estrazione e produzione e oggi le Ree vengono estratte quasi esclusivamente in Cina, che ha cominciato ad applicare restrizioni alle licenze estrattive e alle esportazioni per cercare di conservare le sue riserve (Scheyder 2019).

Lavoratori di una miniera di REE, Nancheng, nello Jiangxi, ottobre 2010 (foto Jie Zhao Corbis via Getty Images)

Bisogna considerare che l’estrazione delle terre rare richiede un grande sforzo, con l’uso di trattamenti chimici tossici (il processo è condotto usando acido solforico, acido cloridrico e idrossido di sodio, fluoro) e la produzione di molti scarti tra cui c’è anche il torio, elemento radioattivo. La produzione di un chilo di ossidi di terre rare, comporta la produzione di 1 o 2 tonnellate di scarti di materiale. Nel bacino di decantazione presso Baotou nel Bayan Obo Mining Distric, vasto circa 10 km e profondo circa 300 metri, vengono pompati circa 7 milioni di tonnellate di “sterili di miniera” dal trattamento delle Ree, ogni anno e il livello di radioattività della discarica è 10 volte più alto di quello delle zone circostanti. Attualmente il “lago” tossico cresce di circa 1 metro l’anno (Parry 2011). Lo Yellow River Conservacy Committee, un organismo affiliato al Ministero delle risorse idriche, ha ammesso che il 33,8% dell’acqua del sistema idrico del fiume ha registrato un grado peggiore del livello cinque nei campioni d’acqua prelevati. Questo significa che l’acqua è inadatta per usi potabili, di acquacoltura, industriali e persino agricoli in base ai criteri usati da Un Environment Programme. Questo significa che la produzione di Ree, necessarie per l’economia green, toglie terreno agricolo alle popolazioni.
La produzione di un chilo di ossidi di Ree, comporta la produzione di 1 o 2 tonnellate di scarti di materiale e tutto il processo di lavorazione produce emissioni e consuma acqua. Ad esempio, nel processo di lavorazione del litio, l’estrazione mineraria richiede grandi quantità di acqua ed emette circa 15 tonnellate di CO2 per tonnellata di litio. Pertanto entro il 2030, solo dalla produzione di litio deriverebbero emissioni per 4,5 milioni di tonnellate di CO2. Non dimentichiamo inoltre che la Cina usa ancora il carbone come principale fonte energetica.
«Le proiezioni sono chiare, ma l’espansione della mobilità elettrica richiede di soddisfare la domanda crescente di elementi e materie prime in particolare di nichel, litio e cobalto per le batterie delle auto elettriche: elementi che non sono infiniti» (Turci 2022).
L’U.S. Geological Survey stima solo 7 milioni di tonnellate di cobalto a disposizione bastanti per circa 57 anni ai livelli attuali di consumo di auto elettriche. Il litio è più abbondante, ma presente in modo sfruttabile in pochi paesi: Bolivia (21 milioni di tonnellate), Argentina (19), Cile (9,8), Australia (7,3) e Cina (5,1). Dal 2009 la Cina ha deciso di ridurre del 72% la quota di Ree destinata alla vendita all’estero e di non vendere più Ree “sciolte”, ma solo all’interno di oggetti (batterie, puntatori ecc) fabbricati in Cina e ha iniziato a non vendere più Ree a stati con cui avesse contenziosi politici come il Giappone. Nel 2019 la Cina produceva il 67% mondiale delle celle per batterie contro il 9% degli Usa (Bloomberg News 2019).

Quote mondiali di elementi necessari per le batterie elettriche; fonte BloombergNews (2019)

La produzione di automobili elettriche autoctone, che sta avendo grande impulso in Cina, darebbe due vantaggi alla dirigenza cinese, il primo geopolitico le permetterebbe di dare un duro colpo agli sceicchi del Golfo che fomentano rivolte nelle popolazioni musulmane in Cina e renderebbe il paese indipendente dalle vie di approvvigionamento del petrolio controllate dalle flotte Usa, il secondo è di controllo sociale interno perché la scarsa mobilità collegata alle auto elettriche impedisce il diffondersi di idee e organizzazioni sovversive.

Export Import delle REE (Cavallo 2019)

La Cina ha già dato numerosi segnali di temere che le sue riserve possano esaurirsi più velocemente del previsto sia per la smodata crescita economica del paese sia per le abnormi richieste di beni utilizzanti Ree da parte del mondo globalizzato. A questo proposito non solo ha mostrato un certo interesse nei giacimenti fuori dai suoi confini, come ad esempio i ricchi depositi dell’Afganistan presenti soprattutto nella regione dell’Helmand ai confini col Pakistan (l’USGS stima 1 milione di tonnellate di Ree siano presenti nelle carbonatiti Khanneshin), ma anche nelle Kreeps lunari.
Oltre che alle Ree lunari la Cina si sta mostrando molto interessata a un altro elemento dal possibile promettente futuro, l’elio-3, che sembrerebbe la chiave per la fusione nucleare ad uso civile, che sembrerebbe presente in quantità interessanti sulla Luna.

Atterraggio della Chang’e-5 con campioni di minerali lunari (Shutterstock photo)
Germogli di cotone sulla Chang’e-4 (foto Chongqing.University)

Le speranze spaziali cinesi sono soprattutto dovute a un “buco” nel Outer Space Treaty del 1967 che definiva lo spazio, Luna compresa, una risorsa e un bene comune dell’Umanità. Nel 2019 con la missione Chang’e-4 Pechino ha dichiarato di aver fatto germogliare dei semi sulla “faccia nascosta” della Luna. La “camera di crescita cinese” conteneva un terriccio di crescita (forse una riproduzione di quello lunare o comunque sterilizzato), semi di patata, rapa, colza, arabidopsis e cotone, uova di moscerino della frutta, acqua e ossigeno. L’esperimento doveva indagare non la sola germinazione, ma gli effetti delle radiazioni e della gravità lunare sulla germinazione e sulla vita dei lieviti dei moscerini della frutta.

Oggi invece di inseguire tecnologie green che tali non sono, ma spostano altrove, fuori dalle Ztl o nel tempo, il collasso, dovremo porci seriamente il problema demografico e della distribuzione ineguale delle risorse dentro ogni singola società. Tutti siamo d’accordo che ci sia in atto un cambiamento climatico, il disaccordo è su quanto l’essere umano incida su questo cambiamento. Il grande capitale finanziario internazionale, il capitalismo delle piattaforme, le organizzazioni internazionali come Onu, Fao, Unesco, Oms, le agenzie ambientaliste globali e i governi considerano eresia il porre in dubbio che il cambiamento climatico sia dovuto agli esseri umani e basano le loro politiche su modelli matematici a cui forniscono i dati.
Nel 2015 il presidente americano Barak Obama affermava:
«Il cambiamento climatico costituisce una grave minaccia alla sicurezza globale, un rischio immediato per la nostra sicurezza nazionale. [Non agire] è diserzione dal proprio dovere. Negarlo o rifiutarsi di affrontarlo mette in pericolo la nostra sicurezza nazionale. Mette a repentaglio la prontezza delle nostre forze armate. […] Ecco perché affrontare il cambiamento climatico è ora un pilastro fondamentale della leadership globale americana». (Obama speech on climate change at Coast Guard Academy 20 maggio, CTMirror Staff 2015).
“Fermare il cambiamento climatico” è il mantra che viene ripetuto in modo martellante. Ma cosa significa nelle condizioni attuali di diseguaglianza economico-sociale fermare il cambiamento climatico? Significa fare qualunque cosa per mantenere uno status quo che vede una assoluta disparità di potere, di distribuzione delle risorse e di ricchezza. La diseguaglianza economica è vista come concausa del cambiamento climatico, ma, stranamente, nelle soluzioni proposte non ce n’è nessuna per eliminare tale diseguaglianza socio-economica.
Quando gli elementi chimici perno dell’economia green saranno esauriti, cosa avverrà? Sposteremo il problema nello spazio pur di mantenerli al potere? Ogni giorno ci ripetono l’imperativo categorico: mantenere lo status quo e fermare il cambiamento climatico, cambiamento climatico basato su modelli matematici gestiti da A.I. su dati forniti da ricerche finanziate da chi oggi detiene ricchezze e potere. Le catastrofi che ci vengono prospettate, sono davvero dovute ai cambiamenti climatici in sé (la Madre terra hitleriana che si “vendica”) o piuttosto sono dovute alla ineguale distribuzione delle risorse e del potere a fronte di cambiamenti climatici in parte ciclici e in parte antropici, come la storia ci insegna?
«Mi va bene questa distribuzione della ricchezza e del potere? Mantenere lo status quo fa i miei interessi?»
No, mantenere l’attuale distribuzione della ricchezza e mantenere al potere il capitale finanziario, il capitale delle piattaforme e il loro apparato statale ecc., non è nei miei interessi come donna e come essere umano.
Perciò pensando a ciò che come essere umano e come donna conviene, mi chiedo: «Perché invece non proviamo a pensare di accompagnare il cambiamento climatico e di sfruttarlo per ridistribuire la ricchezza in modo più giusto?»

In copertina: discarica a Baotou, Mongolia Interna, Cina (fonte Maughan 2015).
Parte 3 di 3. Vedi qui la prima parte e qui la seconda.

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Articolo di Flavia Busatta

Laurea in Chimica. Tra le fondatrici di Lotta femminista (1971), partecipa alla Second World Conference to Combat Racism and Racial Discrimination (UN Ginevra 1983) e alla International NGO Conference for Action to Combat Racism and Racial Discrimination in the Second UN Decade, (UN Ginevra 1988). Collabora alla mostra Da Montezuma a Massimiliano. Autrice di vari saggi, edita HAKO, Antrocom J.of A.

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