Cibo, agricoltura e ideologia. I passeri di Mao

«All’alba, un giorno della scorsa settimana, è iniziato il massacro dei passeri a Pechino, proseguendo una campagna che dura da mesi nelle aree rurali. L’obiezione ai passeri è che, come il resto degli abitanti della Cina, hanno fame. Sono stati accusati di aver beccato i rifornimenti nei magazzini e nelle risaie a un ritmo ufficialmente stimato di quattro chili di grano per passero all’anno. Così per le strade di Pechino sono state dispiegate divisioni di soldati, i loro passi soffocati da scarpe da ginnastica con suola di gomma. Studenti e dipendenti pubblici in tuniche dal colletto alto e scolari che trasportavano pentole e padelle, mestoli e cucchiai, andarono con calma ai loro posti di combattimento. La forza totale, secondo Radio Pechino, era di 3 milioni» (Time, 5 maggio 1958).

Nel 1958 Mao Zedong impose alla Cina Popolare il Grande balzo in avanti per riformare rapidamente il paese, trasformando il sistema economico rurale, fino ad allora basato sull’agricoltura, in una moderna e industrializzata società comunista, caratterizzata dalla collettivizzazione. Non essendoci in Cina proletariato industriale degno di nota, egli vide nei contadini l’anima della rivoluzione industriale cinese e poiché i contadini odiavano gli “animali nocivi” come lui odiava i nazionalisti di Chiang Kai-shek, decise di lanciare la Campagna di eliminazione dei quattro flagelli, ovvero i ratti, le mosche, le zanzare e i passeri. Poiché gli era stato detto che un passero mangiava 4,5 kg di cereali l’anno e dunque un milione di passeri mangiava tanto cibo quanto 60.000 persone, Mao decise che i passeri erano nemici del popolo. Nel 1958 l’uccellino fu ufficialmente proclamato ‘agente reazionario al servizio del capitalismo’ e fatto oggetto di una campagna di sterminio pianificato dallo stato e condotta dai quadri del partito e dall’esercito popolare. Così la Campagna di eliminazione dei quattro flagelli divenne nota come Grande campagna anti-passeri o campagna Uccidi i passeri.

La guerra di Mao contro i passeri (fonte Difesa Online).
La guerra di Mao contro i passeri (fonte Difesa Online).

La campagna era accompagnata da musiche patriottiche gridate a pieno volume dagli altoparlanti e da inni rivoluzionari: «Alzatevi, alzatevi, oh milioni con un cuore solo; sfidando il fuoco del nemico, marciate». Quando le ambasciate straniere, comprese quelle dei paesi fratelli socialisti, davano asilo ai poveri uccellini, decine di migliaia di attivisti si schierarono con tamburi e pentole a far rumore per impedire ai passeri di posarsi a terra in modo da sfinirli e farli morire.

Attivisti in azione per spaventare i passeri a Pechino (fonte Cinaoggi 2022).

In base ai rapporti almeno 310.000 passeri vennero uccisi nella sola Pechino e circa 4 milioni nel resto della Cina, tuttavia non esistendo stime precise di quanti passeri furono ammazzati, alcuni ipotizzano che, se fossero stati anche soltanto uno per ogni abitante, si tratterebbe di circa 600 milioni di uccelli. 

«Mao non sapeva nulla di animali» afferma Dai Qing, giornalista e preminente ambientalista cinese, «Aveva deciso che quegli animali dovevano essere uccisi e basta». L’anno successivo si scoprì che a parte qualche chicco di grano o riso i passeri mangiavano gli insetti infestanti, i parassiti e soprattutto le cavallette. Senza i passeri questi animali saccheggiarono i raccolti creando un crollo della produzione di riso tra il 10 e il 15% e scatenando una carestia senza precedenti. Le stime ufficiali cinesi, sicuramente sottodimensionate, parlano di circa quindici milioni di morti, ma gli studiosi del periodo stimano almeno quarantacinque milioni di decessi, mentre quelli più pessimisti parlano di un numero di morti di settantotto milioni, e questa fu l’unica volta in cui si verificò una diminuzione della popolazione cinese.

Vista la catastrofe Mao decise di togliere il passero dalla lista dei quattro flagelli sostituendolo con la cimice dei letti e segretamente fece importare centinaia di migliaia di passeri dall’Urss. Tuttora è tabù parlare dello sterminio dei passeri in Cina e gli anni della carestia vengono chiamati ufficialmente “I tre anni difficili” o “I tre anni di disastri naturali”. Il motivo è molto semplice: nel 2004 in occasione della Sars il governo cinese, impermeabile all’evidenza scientifica e storica, agì in puro stile maoista imponendo una “grande campagna patriottica” per lo sterminio di zibetti (civet cat), procioni, tassi, scarafaggi e ratti nella provincia del Guangdong senza alcuna prova che lo zibetto (specie già in pericolo di estinzione) fosse portatore del virus e di eventuali squilibri ecologici.

Un zibetto in gabbia, 12 novembre, mercato della selvaggina di Guangzhou, capitale della provincia di Guangdong (China Photo / Reuters)

Purtroppo Mao era anche un seguace delle teorie di Lysenko, un biologo pseudolamarckiano, che era stato il beniamino di Stalin e le cui teorie, unite alla politica agraria sovietica, erano state causa dell’Holomodor. Lysenko è un’altra dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, che l’applicazione ideologicamente cieca delle leggi di una disciplina a un’altra può causare solo danni. A differenza dei suoi colleghi nazisti che, come vedremo applicavano le leggi della biologia alle scienze sociali, Lysenko decise di applicare le teorie marxiste leniniste alla biologia. Tra le innovazioni obbligatorie di Lysenko vi era quella per cui i semi di diverse piante dovevano essere piantati gli uni vicini agli altri, in modo tale che esse potessero aiutarsi a vicenda secondo i principi della lotta di classe.

Lysenko nel 1948 all’Accademia delle Scienze URSS (fonte Current Biology 2017).

Nella pratica piantare semi troppo vicini e di piante con diverse caratteristiche non fece altro che mettere in competizione gli organismi gli uni contro gli altri con esiti disastrosi. Egli era convinto che in profondità il suolo diventasse più fertile e che i semi piantati profondamente crescessero più vigorosi. Grazie a questa direttiva i contadini sovietici, cinesi e africani si spaccarono le schiene per piantare semi fino all’insensata profondità di due metri, compromettendo in questa operazione gli strati di suolo più superficiali che sono davvero determinanti per la coltivazione.

Poster di propaganda sovietica della seconda guerra mondiale: “Il duro lavoro nei campi verrà ripagato!” (autore: Mikhail Solovyov)

Applicando alla biologia l’ideologia marxista per cui solo l’ambiente poteva influenzare la formazione di piante e animali, tramite la “vernalizzazione” Lysenko cercò di ‘educare’ le colture sovietiche a germogliare in diversi periodi dell’anno convinto che la solidarietà proletaria tra le piante avrebbe trionfato e che le future generazioni di colture avrebbero ricordato queste indicazioni ambientali e, anche senza essere trattate, avrebbero ereditato i tratti benefici. Come i suoi contemporanei nazisti, in agricoltura Lysenko rifiutava l’utilizzo di fertilizzanti di sintesi, poiché considerava la chimica qualcosa di intrinsecamente altro rispetto al mondo delle leggi della natura: per arricchire il terreno erano ammessi solamente il letame e la rotazione delle colture. La tecnica è antichissima, ma nella Cina del Grande balzo in avanti di Mao essa si trovava di fronte un problema: dove trovare tanto letame? La risposta fu, per così dire, “alchemica”: ovvero fu ordinato di mescolare il letame con la terra in proporzioni uno a dieci per trasmettere al terreno le proprietà fertilizzanti e poi usare il “compost” come letame. Purtroppo la “trasformazione” non avvenne, anzi i contadini cominciarono ad aggiungere liquami tossici avvelenando le culture. I danni delle teorie agricole maoiste si sparsero in tutto il mondo in particolare in Africa che non aveva beneficiato della Green revolution americana. Liberia, Sierra Leone, Gambia, Etiopia e Zimbabwe, tra gli altri, applicarono i principi maoisti con risultati spesso tragici. 

Negli ultimi anni il lysenkoismo sta vivendo una sorta di rinascita in Russia. La ragione principale di questa rinascita è un crescente sentimento di rifiuto della cultura occidentale. Inoltre, i nuovi sostenitori del lysenkoismo accusano la scienza della genetica di servire gli interessi dell’imperialismo americano e di agire contro gli interessi della Russia. Purtroppo anche l’attuale dirigenza cinese non è estranea alle rinnovate suggestioni del lysekoismo. Salvo alcune esplosioni vulcaniche disastrose, la storia ci insegna che le grandi carestie sono quasi sempre il frutto tossico di esperimenti ideologici imposti da regimi dittatoriali su strutture sociali arretrate. La Campagna antipasseri di Mao ne è un esempio, ne vedremo altri che ci serviranno per trarre dallo studio della storia quegli insegnamenti che possono servirci nella situazione attuale.

Fino al 1850 circa l’aumento della concentrazione di CO2 in atmosfera, iniziato nel 1700, non può che essere di origine naturale in quanto le emissioni antropiche erano praticamente nulle. Da allora le emissioni antropiche hanno iniziato ad aumentare e ora sono circa il 5% del totale. Nell’atmosfera oggi si riversa il 95% di emissioni naturali in massima parte dagli oceani e il resto dalla terra ferma: solo il 5% è di origine antropica. In tutto il mondo ci sono un miliardo e trecento milioni di bovini, due miliardi e settecento milioni di ovini e caprini, un miliardo di suini, dodici miliardi di polli e galline e altro pollame. La Fao stima che 7.516 milioni di m3/anno di CO2 siano dovuti al bestiame di allevamento (bovini, cavalli, bufali, pecore, capre, cammelli, maiali e pollame) ovvero il 18% del totale di GHGs (GreenHouse Gas, Gas Effetto Serra). I ruminanti (bovini, renne, pecore, capre, cammelli, cervi, caprioli, antilopi, giraffe) emettono anche CH4 (metano). Se diamo al danno ambientale che una specie comporta il valore di 100%, nei ruminanti il 44% è ascrivibile alla produzione di CH4, il 29% a quella di NO3 e il 27% a quella di CO2. Secondo la FAO nel 2007 il 44% del metano di produzione antropica derivava dal bestiame tramite la fermentazione enterica e la defecazione. La conclusione di questa campagna sui GHGs porta gli ambientalisti a chiedere la chiusura degli allevamenti e un regime vegetariano (se non addirittura vegano). Purtroppo questa richiesta non si pone il problema che il paese con più capi di bestiame non sono gli Usa o l’Argentina, ma è l’India, paese notoriamente vegetariano.

Fiera del bestiame a Bateshwar, Agra, Uttar-Pradesh, India (fonte web).

L’India ha trecento milioni di bovini; di questi centonovantuno milioni sono vacche da latte e quasi centonove milioni sono bufali. «Le vacche che smettono di produrre latte e che vengono lasciate libere secondo la tradizione induista sono ogni anno dai tredici ai quindici milioni, secondo un calcolo del quotidiano The Indian Express. Questi animali, da soli, o a volte in mandrie di quaranta o cinquanta esemplari, vagano liberi per le strade, invadendo i campi alla ricerca di cibo, scrive Italia Oggi: «Mangiano grano e patate e in una notte sono capaci di divorare un intero raccolto, mandando in rovina gli agricoltori» (Carni sostenibili, 18/2/2019).
Nel 2014 il Bharatiya Janata Partyl (Bjp) è andato al potere sterzando il paese verso un’India a trazione induista che sta schiacciando la pluralità indiana sotto il rullo dell’Hindutva, l’ideologia dell’induità che, tra le sue priorità, ha ovviamente la protezione delle vacche. Questa “protezione” ha comportato l’inasprimento della legislazione sull’abbattimento dei bovini imponendo anche la chiusura dei mattatoi. In questa situazione molti agricoltori non potendo più rivendere le proprie mucche, le abbandonano per evitare di nutrirle in perdita. La misura, che riguarda tori, mucche, bufali e cammelli, rischia di alienare piccoli macellai e allevatori, oltre a infliggere un duro colpo all’industria della carne, alla comunità musulmana in India e ai dalit (i fuoricasta induisti) che con i mussulmani sono impiegati nella macellazione. Nel sistema delle caste indù, a ogni sottocasta è attribuito un mestiere e, per esempio, la comunità musulmana dei Qureshi è destinata alla macellazione della carne. I casi di linciaggi e omicidi ai danni di musulmani, dalit e trasportatori di bestiame per mano di giustizieri induisti, come quelli avvenuti in Uttar Pradesh a Dadri nel 2013 e Muzaffarnagar nel 2015, sono diventati sempre più frequenti.

Il controllo delle fonti di cibo e della sua manipolazione è sempre stato centrale nella definizione del potere e di chi lo detiene. Come hanno messo bene in luce tra gli altri Levy Strauss e Mary Douglas, vi è un forte legame tra sessualità, cibo e religione interpretando la religione come la forma arcaica, ovvero pre-partitica, politica e organizzativa con cui si è imposto nelle società il dominio del maschio sulla femmina, forma organizzativa che tuttora permane e permea potentemente tutti gli aspetti della vita umana e animale. Discutendo di cibo, sesso e religione viene in mente la patata. La patata entrò nell’alimentazione europea piuttosto tardi a causa di una diffidenza nei confronti di ciò che “cresce sottoterra”, ovvero vicino ai morti o all’inferno, e fu perciò oggetto di taboo religiosi ammantati da scientismo come quello che portava ad affermare che il cibarsene diffondesse la lebbra.

Malgrado i pregiudizi la patata cominciò a diffondersi in Irlanda, Germania e Austria all’inizio del 1600 come un cibo per poveri, di scarso valore nutritivo ma era adatto ai piccoli appezzamenti individuali da pochi metri quadri. Essa tuttavia salvò la popolazione tedesca durante le carestie che si verificarono durante la Guerra dei Trent’anni: un esercito di passaggio, infatti, mentre requisiva con facilità il frumento e gli altri cereali oltre che il bestiame, non aveva certo il tempo di scavare per terra per cercare le patate.
La carestia delle patate irlandese è utilizzata come esempio storico dei danni della monocultura e del liberismo, ma essa fu scatenata dalle leggi segregazioniste anticattoliche più che dalla peronospora. Le leggi anticattoliche che seguirono la vittoria orangista del 1691 e il cottier-tenant system, che consisteva nell’affitto di piccolissimi appezzamenti di terra agli agricoltori su cui si basava l’agricoltura irlandese, spiegano l’intensiva coltivazione di patate: un ettaro di terreno, infatti, poteva sfamare per un anno tre persone adulte se coltivato a frumento, ma ben venti se coltivato a patate.

Rudolf Steiner (1861-1925)

La condanna religiosa della patata, comunque rimane sottotraccia anche oggi. Rudolf Steiner, (1861–1925), esoterista e teosofo austriaco e fondatore dell’antroposofia, considerava la patata un alimento che impoveriva e indeboliva l’organismo, perché a differenza delle graminacee come la segale, il frumento ecc., trattandosi di un tubero cresciuto nell’oscurità, non poteva venir digerito completamente dall’intestino, almeno da un punto di vista animico-spirituale, e per questo arrivava a sottrarre forze alla testa, inducendola a pensieri rozzi e grossolani.
Fuori dall’Europa e dalle Americhe, la patata non è mai stata accolta con favore.

Le religioni induiste assegnano alla patata un valore nutritivo e spirituale molto basso, quello del tamas, che è l’attributo infimo della materia, il più distante e separato dagli dei, e quindi incapace di elevare, di operare in senso religioso, cioè di connettere la terra col cielo. La patata inoltre non si è mai diffusa in Cina, Giappone e in tutta l’area islamica.

Visto che si è parlato di Steiner, agricoltura e cibo vale la pena di ricordare le radici oscure dell’ecologia. Il termine ecologia fu coniato nel 1866 dallo scienziato tedesco Ernst Haeckel (1834-1919) nel libro Generelle Morphologie der Organismen. Come risultato della lotta per l’esistenza Haeckel postulava che le razze inferiori dovessero essere sterminate. La sua teoria della ricapitolazione, che Haeckel sintetizzò nella frase «l’ontogenesi ricapitola la filogenesi», affermava che lo sviluppo di un singolo organismo biologico, o ontogenesi, possiede parallelismi e riassume lo sviluppo evolutivo della propria specie, o filogenesi. Questo approccio avrebbe potuto essere sfruttato per creare una gerarchia delle specie viventi, in cui quelle più recenti sarebbero state considerate le più perfette e perciò dotate di maggiori diritti di sopravvivenza e di dominio. Egli è considerato anche uno dei padri ideologici del nazismo in quanto fu il primo a vedere le scienze sociali come campi di biologia applicata, anche se i suoi scritti furono proibiti dai nazisti a causa del suo libero pensiero e del tributo dato agli scienziati ebrei.

L’ambientalismo tuttavia aveva anche altre radici antisemite e reazionarie. Uno dei suoi padri fu Wilhelm Heinrich Riehl: il suo saggio del 1853, Campi e foreste, finiva con un richiamo alla lotta per “i diritti delle terre incolte”. «Quando il popolo tenta di ribellarsi contro la ferrea logica della natura, entra in conflitto con gli stessi principi a cui deve l’esistenza come esseri umani. Le loro azioni contro natura devono condurre alla loro caduta» (Adolf Hitler 1935). Hitler, vegetariano e crudista, proponeva le fonti energetiche rinnovabili come alternative al carbone indicando “l’acqua, i venti e le maree” come la strada energetica del futuro. Il ministero dell’agricoltura del Reich retto da Richard Walther Darré aveva il quarto budget in ordine di grandezza tra tutta la miriade di ministeri nazisti fino al 1943. La più importante innovazione di Darré fu l’introduzione su larga scala di metodi di agricoltura biologica, significativamente etichettati “agricoltura secondo le leggi della vita”. Questa è la vera eredità dell’ecofascismo al potere: «genocidio sviluppato in una necessità sotto un manto di protezione ambientale».
Come sottolinea Natasha Frost (2018) i Nazisti erano molto interessati al cibo tanto che il 1 ottobre 1933, nove mesi dopo la loro salita al potere, imposero la Eintopfsonntag (domenica dello stufato). La prima domenica di ogni mese, decretarono, ogni famiglia tedesca avrebbe dovuto sostituire il tradizionale arrosto con un piatto unico più economico – un Eintopf, dal tedesco ein Topf, ovvero “una pentola” – e mettere da parte i risparmi per la raccolta di beneficenza Winterhilfswerk gestita dai nazisti. Alice Weinreb in Modern Hungers: Food and Power in Twentieth-Century Germany, sottolinea come «Cucinare in ‘una sola pentola’ (ein Topf) doveva simboleggiare la creazione nazista di ‘un solo popolo’ (ein Volk)». L’Eintopf era insomma una specie di crogiolo magico nazista. I nutrizionisti nazisti sostenevano che il modo migliore per nutrire il corpo ariano fosse una dieta razziale appropriata ovvero patate e prodotti di produzione tedesca. Un libro di cucina ufficialmente approvato si intitolava: Casalinghe, ora dovete usare ciò che vi dà il campo! Pasti sani e nutrienti dal suolo nativo!

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Articolo di Flavia Busatta

Laurea in Chimica. Tra le fondatrici di Lotta femminista (1971), partecipa alla Second World Conference to Combat Racism and Racial Discrimination (UN Ginevra 1983) e alla International NGO Conference for Action to Combat Racism and Racial Discrimination in the Second UN Decade, (UN Ginevra 1988). Collabora alla mostra Da Montezuma a Massimiliano. Autrice di vari saggi, edita HAKO, Antrocom J.of A.

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