Demografia, consumo del suolo, agricoltura e cibo

In occasione della celebrazione della Giornata mondiale della popolazione, l’Onu ha annunciato che la popolazione mondiale ha raggiunto gli 8 miliardi di persone il 15 novembre 2022

Nel 2007, per la prima volta nella storia dell’umanità, la popolazione che viveva nelle città ha superato quella insediata nelle campagne e il divario continuerà ad aumentare a favore degli agglomerati urbani. Entro il 2030 nelle città vivrà oltre il 60% della popolazione mondiale. Ovviamente queste persone hanno bisogno di cibo.
Una delle accuse di Greenpeace, una Onlus-Azienda da 200-300 milioni di dollari, nei confronti della Green Revolution e dell’agricoltura industrializzata è che, secondo il rapporto iPES Food del 2016, malgrado essa abbia ridotto la percentuale di persone affamate nel mondo, ha fallito l’obiettivo di eliminare la fame. Tuttavia, in questa accusa contro l’agricoltura industriale specializzata non si tiene conto dell’impressionante crescita demografica dell’Africa, della Cina, dell’India, del sudest asiatico e dell’America Latina.

Nello stesso rapporto si evidenzia la necessità di una transizione da una agricoltura industriale specializzata a una agricoltura agroecologica diversificata.

Le Agenzie ambientaliste globali spingono per promuovere, attraverso i governi e le istituzioni internazionali, il passaggio dall’agricoltura industriale specializzata o dall’agricoltura di sussistenza all’agricoltura agro-ecologica diversificata, nelle economie povere o in via di sviluppo in particolare in Africa. Questa politica, tuttavia, non tiene conto di alcuni fattori: l’aumento demografico, che non permette passaggi “lenti”, la fortissima urbanizzazione caratteristica degli ultimi 50 anni, i governi nazional-social-religiosi di quasi tutti i paesi interessati e il fatto che la produzione dell’agricoltura agro-ecologica per sua natura non dà la stessa quantità di cibo di quella industrializzata.
L’Africa, soprattutto quella subsahariana, continua a essere ben lontana dall’obiettivo della transizione demografica, che arbitrariamente si raggiunge quando si ha «un numero medio di figli per donna pari a 2,5 e una speranza di vita di 70 anni», come afferma Livi Bacci in Il pianeta stretto del 2015. Il tasso di fertilità in Africa rimane tragicamente alto: nel 2021 è stato pari a 4,4 bambini per donna in età riproduttiva, quasi il doppio della media globale (pari a circa 2,4 nascite) con punte come il Niger, con un tasso di fertilità di 6,2 figli in media per donna. In altre parole nel 1950 la popolazione africana era di 221 milioni di persone, oggi è arrivata a 1.250 milioni, ovvero in soli 67 anni è aumentata del 565%. In base alle previsioni dell’Onu, la popolazione africana sarà pari a 2.800 milioni di persone nel 2050, in maggior parte giovani sotto i 20 anni e già oggi gli under 25 sfiorano il 60% della popolazione.

In generale la crescita percentuale degli agglomerati urbani nel continente rispetto al dato del 1950 si attesta intorno al 1984%. Si stima che, entro il 2050, le città africane raccoglieranno 950 milioni di cittadini in più rispetto agli attuali

Benché il quadro presentato dell’agricoltura agroecologica diversificata sia affascinante esso non tiene conto di due fattori: la demografia e l’urbanizzazione. Dopo una lunga spiegazione per giustificare che i dati su molti fattori – non ultima la resa dei raccolti – non sono comparabili, il documento dell’iPES Food del 2020 afferma che «I confronti sono sempre più favorevoli ai sistemi diversificati quando si confrontano le produzioni totali piuttosto che le rese di colture specifiche» e qui le parole produzioni totali ci fanno chiedere: l’agricoltura agroecologica diversificata dà la stessa quantità di cibo dell’agricoltura industriale specializzata?
Il documento iPES Food afferma tra l’altro «È stato inoltre dimostrato che i miscugli producono in media 1,7 volte più biomassa raccolta rispetto alle monocolture di singole specie e sono più produttivi del 79% rispetto alla monocoltura media». Questa affermazione, tuttavia, gioca sull’ambiguo. Infatti ciò non significa che la policoltura dia maggiore quantità ad esempio di frumento rispetto alla monocultura, solo che dà una maggiore quantità di una serie diversificata di prodotti che vanno dal frumento ai fagioli, al trifoglio per foraggio, alla canapa, al legname per biomasse, tutti prodotti ottimi, ma che non sfamano. Traducendo, la policoltura dà meno cibo (frumento e fagioli) di una monocultura tutta a frumento, un dato non da poco se si debbono sfamare 8 miliardi di persone. 

Un altro problema di cui dobbiamo tenere conto quando si parla di cibo e agricoltura è il consumo del suolo e il fabbisogno energetico sia agricolo che in generale della società. Mai come in questi giorni si parla di mutamenti climatici, emissioni di Gas Serra (Ghg = Green house gas), guerra in Ucraina… e di conseguenza di energie alternative ai combustibili fossili.
C’è una parola chiave onnicomprensiva e pur tuttavia ambigua da considerare: biomasse. Il concetto di biomassa, per quanto intrigante, è di per sé generico e fuorviante. Secondo la definizione UE la biomassa è «la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall’agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l’acquacoltura, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani» (Direttiva 2009/28/CE). Oggi nel gergo delle fonti energetiche il concetto di biomassa si rifà principalmente al processo di fotosintesi che produce sulla terra circa 100 miliardi di tonnellate di biomasse (vegetali, intesi dagli alberi alle alghe) e in particolare quando si parla di biomasse si intende la legna da ardere in tutte le sue forme, dal ciocco al pellet.

Carovana di trasportatori di legname in sciopero. Tasmania. Foto di Tim Johnstone del 19/10/2022

Purtroppo l’energia solare, benché enormemente superiore in quantità al fabbisogno mondiale, è troppo dispersa e poco utilizzabile rispetto ad altre fonti energetiche (petrolio, carbone, ecc.), perciò si è pensato di “concentrarla” sia attraverso il fotovoltaico che attraverso le biomasse (via fotosintesi). Mantenendoci sul concetto biomasse = vegetali, per l’Italia per ottenere da biomasse tutta l’energia pro capite necessaria (anche ipotizzando fabbisogni pari a quelli degli anni 1980) sarebbe necessaria tutta la superficie attualmente usata per scopi alimentari (terre arabili e pascoli). Parlando di energia prodotta dobbiamo tenere conto che vi sono differenze tra il significato fisico di energia e quello economico. Per esempio 1 t di petrolio è uguale, in termini di calorie o joule, a 2,5 t di legna, tuttavia le temperature che si possono raggiungere bruciando petrolio sono molto maggiori di quelle ottenute bruciando il legno perciò, per il Secondo principio della termodinamica, il petrolio è migliore del legno come fonte energetica. Da un punto di vista economico, inoltre, è molto importante il fattore “densità di energia”. In fisica si presume che entrambe le fonti energetiche siano immediatamente utilizzabili, ma se le 2,5 t di legname sono disperse su 30 ettari di colline e occorre del lavoro per concentrare la legna nel punto di utilizzo, e se questo lavoro di trasporto è più costoso dell’energia fornita, la legna non è una risorsa. Inoltre bisogna tener conto dei fattori di conversione dell’energia termica in meccanica o elettrica, per cui in pratica solo il 35% del calore è realmente disponibile.
Un altro problema connesso a questo tipo di biomasse (legname, cippato, pellets) è l’inquinamento chimico dovuto alla combustione delle biomasse vegetali. L’inquinamento chimico dipende dal tipo di vegetali usati. Se si utilizza paglia l’inquinamento sarà molto diverso da quello ottenuto bruciando legno di pino, ricco di resine che danno composti catramosi. Facendo un breve elenco, oltre alla CO2 e all’Ossido di Carbonio (CO), la pirolisi di sostanze vegetali dà una notevole serie di composti tra cui metano, idrocarburi leggeri, catrami di legno, alcoli terpenici, fenoli, oli di trementine, composti azotati (NOx) e composti solforati (SOx) a seconda del tipo di vegetale usato e dei trattamenti chimici della coltura (anticrittogammici, antiparassitari, concimi ecc). Fuliggine e nerofumo sono componenti importanti della pirolisi di biomasse vegetali, a differenza del metano che dà solo CO2 e acqua. Lo Iarc (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) ha valutato che il «nerofumo è probabilmente cancerogeno». Diversi studiosi nel 2014, nell’ambito dell’attività dell’Istituto nazionale ricerca sul cancro di Genova, evidenziarono come, in due paesi appenninici dove è diffuso l’uso della legna da ardere, le concentrazioni di benzo(a)pirene nelle case che utilizzavano legna era tendenzialmente maggiore di quelle trovate in abitazioni che usavano il metano o il GPL. Le particelle di nerofumo, inoltre, assorbono radiazioni solari e radiazioni infrarosse (emesse dalla superficie terrestre) e per questo motivo, se sospese in atmosfera, hanno un potenziale di riscaldamento globale (Gwp) molto elevato.

Un rapporto dell’ISDE (Associazione medici per l’ambiente) nel 2021 afferma: «L’uso delle biomasse legnose come energie falsamente “rinnovabili” accelera la devastazione delle foreste così come il taglio degli alberi nelle nostre città. Secondo i dati forniti da Enea (13° Commissione del Senato), per l’anno 2017 avevamo in Italia una disponibilità complessiva di circa 26,4 milioni di tonnellate di biomasse vergini da utilizzare per i vari usi energetici, mentre per lo stesso anno 2017 il Gestore servizi energetici, la controllata dal Ministero dell’Economia che fornisce incentivi alle energie rinnovabili, ha fornito dati dai quali si ricava un consumo tra 51 e 53 milioni di tonnellate di biomasse vergini per il medesimo anno 2017: stiamo tagliando e bruciando esattamente il doppio del massimo del legno che avremmo potuto utilizzare».

Qual è la cosa di cui le popolazioni povere sono ricche? Sono gli escrementi. Nel 1960 l’India si trovò ad affrontare una gravissima crisi: l’estrema povertà rendeva irraggiungibile l’utilizzo dei combustibili fossili e l’aumento della popolazione aveva praticamente azzerato le aree a foresta causando indirettamente una grave carenza di combustibile, soprattutto nelle regioni rurali. Questo comportò che quasi tutto il letame bovino, miliardi di tonnellate annue (l’India, come abbiamo visto è il paese con il maggior numero di capi di bestiame al mondo, considerando che si stima per difetto un rapporto di due bovini per abitante), veniva (e viene) utilizzato, previo essiccamento al sole, come combustibile, il che comporta sia problemi igienici spaventosi (dalla tubercolosi al fumo acido che si sprigiona durante la combustione nei focolari domestici, responsabile di gravissime malattie agli occhi), e priva il suolo dei sali organici che potrebbero fertilizzarlo soprattutto in presenza di coltivazioni che saharizzano il terreno.

Una donna mette ad asciugare “focacce” di escrementi bovini su un muro. Allahabad, India. Foto Jitendra Prakash, REUTERS, 04/16/ 2014

Contemporaneamente alla crisi del legname negli anni Cinquanta e Sessanta (malgrado le carestie) l’India vide una impressionante esplosione demografica che comportava con sé un ulteriore costo: l’abbondanza spropositata dei liquami di origine umana. Come in tutti i paesi poveri l’unica cosa che abbondava erano le immondizie. L’India, a differenza del resto del mondo, aveva continuato a utilizzare piccoli digestori di biomasse che sfruttavano la stessa tecnologia di 3000 anni prima con la civiltà Harappa, perciò fu ad essa che si rivolse. Nel 1961 fu creata la Gobar gas research station a Ajitmal, con a capo il dottor Ram Bux Singh. Il digestore anaerobico (AD) di biomasse di tipo Gobar diede una risposta di cui tuttora poco si parla a questi due problemi

Poster della campagna del governo indiano per la creazione di biodigestori rurali e utilizzo del biogas
Cucinare col biogas. Distretto di Kolar, Karnataka, India. Foto Myclimate 2022

Rani, villaggio di Soumpura Karnataka, racconta: «Io e i miei figli dovevamo passare 4 ore al giorno per raccogliere legna da ardere. Ora ci vogliono solo 20 minuti per produrre biogas. Non c’è più fumo in casa mia e ottengo un ottimo fertilizzante per la coltivazione delle verdure».
Quando si parla di biogas oggi non si pensa solo alle deiezioni zootecniche, ma anche ai rifiuti organici urbani e industriali. Gli impianti di biogas si prestano particolarmente a trattare direttamente reflui particolarmente concentrati come quelli dell’industria alimentare e stabilizzano i fanghi (compresa la carica batterica patogena) senza dispendio energetico a differenza dei fanghi attivi usati nella depurazione delle acque. Il dato più importante per una efficiente produzione di biogas è di garantire all’impianto una alimentazione continua. Gli impianti attuali, oltre ad essere costruiti con standard affidabili, non considerano più il metano il prodotto principale, ma i maggiori ricavi si ottengono oggi dai “fanghi”, ovvero dal digestato, che non solo è un ottimo fertilizzante e rigeneratore dell’humus, ma anche oggetto di incentivi governativi.
Nei paesi poveri o in via di sviluppo, spesso strangolati dal problema della raccolta della legna da ardere per cuocere il cibo, gli studi si sono concentrati invece verso impianti di biogas tecnologicamente poveri, di basso costo e realizzabili con materiali reperibili anche in comunità isolate

Digestore in India. Foto AR Shukla
Digestore di biogas in Uganda. Foto WCEF International

In copertina: Lagos, Nigeria.

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Articolo di Flavia Busatta

Laurea in Chimica. Tra le fondatrici di Lotta femminista (1971), partecipa alla Second World Conference to Combat Racism and Racial Discrimination (UN Ginevra 1983) e alla International NGO Conference for Action to Combat Racism and Racial Discrimination in the Second UN Decade, (UN Ginevra 1988). Collabora alla mostra Da Montezuma a Massimiliano. Autrice di vari saggi, edita HAKO, Antrocom J.of A.

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