In Tunisia c’è un fermento femminista che si muove: sono le donne storiche del movimento i nuovi collettivi non misti e non istituzionali, che promuovono la lotta dal basso.
La Tunisia è sempre stato considerato uno di quei paesi avanzati per quanto riguarda i diritti delle donne all’interno dell’area africana. A partire dal 1956, infatti, il Codice di Statuto personale emanato dal nuovo governo fece sì che la religione islamica e la sunna non fossero le uniche leggi a regolamentare la società e il diritto di famiglia.
Da allora molta strada è stata fatta e soprattutto negli ultimi anni pare che vi siano delle novità sostanziali che confermano la Tunisia come paese chiave per l’emancipazione delle donne.
In questo senso fondamentale è stata l’approvazione, nel luglio 2017 di una legge contro la violenza e i maltrattamenti sulle donne e per la parità di genere che per molti ha rappresentato un’azione di cambiamento storico. A seguire, nel settembre dello stesso anno è stata cancellata la legge che vietava alle donne tunisine di sposare uomini non musulmani. Pochi mesi fa, nella primavera 2018, il presidente della Repubblica tunisina Essebsi annunciava la possibilità di dirimere una questione annosa e cioè quella dell’eredità: alle donne spetterebbe un’eredità al pari di quella degli uomini. Tuttavia questa idea si scontra con i precetti del Corano e con la volontà dei più conservatori, ed è stata vista più che altro come una mossa di Essebsi per il consenso.
Tutto questo è stato possibile grazie al protagonismo delle femministe tunisine, che da anni rappresentano un faro nella lotta dei diritti delle donne. Il femminismo tunisino, però, lungi dall’essere univoco è frastagliato e può essere diviso in due gruppi: le femministe di “vecchio stampo”, quelle formatesi negli anni ‘60 – ‘70, che lottano per un’uguaglianza di genere all’interno delle istituzioni (e quindi hanno come obiettivo la promulgazione di leggi o l’abrogazione di altre), e i nuovi collettivi, che lottano dal basso contro mentalità patriarcali, sessiste e discriminatorie nei confronti dei diritti LGBTQI.
Fra questi ultimi c’è il gruppo Chouf, che da tre anni organizza ogni autunno un festival dedicato alla produzione artistica femminile. Un festival che di certo non è soltanto un’occasione di svago, ma è «anche un’esperienza unica per le attiviste per incontrarsi e fare rete in modo da rinforzare il movimento». Sono sempre loro a portare poi l’arte nelle strade, cercando di incidere nella quotidianità e ricordare, a cielo aperto, che la lotta è continua.
Ad esempio, questo murales è stato realizzato in un quartiere di Tunisi “dominato da maschi”, dove i retaggi della tradizione maschilista sono ancora forti. Le due donne, che guardano direttamente lo spettatore, invitano alla lotta, l’una dicendo «Sii tenera con te stessa» e l’altra raccomandando «Ascolta la tua rabbia». Il fuoco, presente in entrambe le figure, rappresenta allo stesso tempo il fuoco interiore della lotta dentro se stesse e fuori, la rabbia per le ingiustizie, la forza per cambiare.
E poi sulla stessa linea c’è Chaml, un altro collettivo femminista. Anche questo si dichiara femminista, non istituzionale e non misto. Ne fanno parte soltanto donne, convinte che la lotta partendo da se stesse sia il primo passo verso una maggiore solidarietà con gli uomini.
Molte di queste attiviste, inoltre, passano dal web, utilizzando la rete come mezzo di comunicazione interno e transnazionale: internet infatti è diventato per molte di loro uno spazio sicuro in cui esprimere liberamente la propria opinione. Asma Kaouech, Amina Sboui e Amina Tyler sono solo alcuni dei nomi di queste donne, che diventano punti di riferimento per chi a questa lotta appartiene.
La strada, però, è ancora molto lunga: ci sono grandi differenze, ad esempio, fra donne che vivono in città e donne che vivono in campagna, la religione islamica ha ancora un forte peso e determina in molti casi mentalità tradizionaliste e patriarcali, molestie e violenze nei confronti delle donne sono ancora molto diffuse, segno che la lotta femminista deve ancora andare in profondità.
articolo di Elisabetta Elia
In lei vivono tre mondi: quello della Calabria, dove è nata, quello di Roma, dove ha studiato Lettere Moderne e poi giornalismo, quello del Kurdistan, dove non è ancora stata ma è sicura che andrà. Appassionata del mondo del sociale, dei cambiamenti che vengono dal basso e delle lotte femminili e femministe: la sua ambizione è vederli e raccontarli. E con le parole, magari, trasformare il mondo.