Al momento della formazione del Regno, ad avere il diritto di voto sono soltanto i maschi adulti alfabetizzati che possiedono oltre una certa soglia di ricchezze e pagano in tasse almeno quaranta lire all’anno, ovvero circa il 2% della popolazione. Va da sé, di conseguenza, che ad avere posti in Parlamento sia una ristretta minoranza di aristocratici e una piccola cerchia di imprenditori dell’alta borghesia. All’interno del Parlamento si vengono a creare due macrofazioni, provenienti da aree culturali ideologiche diverse ma di fatto abbastanza simili nelle iniziative politiche. La prima di queste, guidata da Agostino Depretis, è liberista nell’economia, laica nella politica interna e accentratrice nell’amministrazione: prende il nome di Destra storica e rappresenta gli interessi dei proprietari terrieri e degli industriali. Un importante obiettivo dei governi della Destra storica è raggiungere il pareggio di bilancio, ovvero saldare tutti indebiti contratti con le guerre d’indipendenza; ma tale obiettivo viene raggiunto tassando pesantemente i beni di consumo, quindi le classi sociali più povere. L’altra corrente, guidata da Francesco Crispi, prende il nome di Sinistra storica: costituita prevalentemente da ex mazziniani ed ex garibaldini che hanno accettato la monarchia sabauda, è altrettanto laica rispetto ai rapporti dello Stato con la Chiesa e altrettanto autoritaria nella politica interna, ma punta al decentramento amministrativo e al suffragio universale maschile. Sotto la Sinistra storica, nel 1889 il Ministro della Giustizia Giuseppe Zanardelli abolisce la pena di morte, salvo per i reati di guerra puniti dalla legge marziale.
Strano ma vero, è sotto il governo Depretis che viene allargato il suffragio elettorale dal 2% al 7% della popolazione, una cifra di per sé irrisoria ma pur sempre il triplo dei precedenti votanti: ora possono votare anche borghesi di basso livello e alcuni operai del Nord. Con questa nuova legge, nelle elezioni del 1882 entra in Parlamento il primo deputato socialista, Andrea Costa. Fuori dalla politica si sono chiamati invece i cattolici, offesi per l’invasione di Roma, e i repubblicani, che non si riconoscono nel Regno della famiglia Savoia.
Intanto nel 1878 muore il Re Vittorio Emanuele II. Sul trono sale il figlio Umberto I.
Gli ultimi anni dell’Ottocento vedono l’Europa colpita da una grave crisi agraria, causata dalla forte competizione dei cereali americani, venduti a prezzi molto più bassi. L’economia italiana, basata sulla sussistenza delle famiglie, non è adatta a reggere la concorrenza estera. Bocciata la nazionalizzazione delle ferrovie, che restano di proprietà privata, uno dei provvedimenti introdotti dalla Destra storica volti a risanare le casse pubbliche e mai aboliti dalla Sinistra è la tassa sul macinato: a dover pagare le tasse non è il proprietario terriero che vende il grano del latifondo ma è il mugnaio che lo lavora ad essere tassato a seconda di quanto ne macina. Il risultato di questa legge è l’incremento dei prezzi del pane e la chiusura dei mulini minori che non riescono a sostenere le spese.
Per risollevare il morale facendo leva sul nazionalismo, nel 1889 Crispi tenta la prima impresa coloniale italiana, la conquista dell’Etiopia, ma l’esercito italiano ha la peggio contro una resistenza disorganizzata. Per la sconfitta e l’umiliazione della disfatta, Crispi si dimette. La costosa e inutile missione ha svuotato ulteriormente le risorse economiche dello Stato, già prima scarse.
Dallo scontento sociale disorganizzato, nel 1892 Andrea Costa e Filippo Turati fanno nascere il Partito Socialista Italiano unendo la corrente marxista e quella più moderata: abbandonata la linea rivoluzionaria, si cerca di unire la lotta per il potere politico per via elettorale (dato che una Rivoluzione è impossibile in una Monarchia costituzionale) a quella sociale per il miglioramento delle condizioni di vita della classe operaia tramite l’attività sindacale. Nelle battaglie sociali sono presenti anche le organizzazioni cattoliche, assenti alle urne a causa del Non expedit. Sorge anche in Italia un numeroso movimento di donne che reclama il diritto di voto al pari degli uomini e maggiori tutele sul lavoro, ma si tratta di un fronte molto diviso. Il Partito Socialista è contrario a dare il voto alle donne perché le considera troppo legate alla Chiesa e quindi per loro natura conservatrici; Anna Kuliscioff, pur essendo socialista, è a favore del diritto di voto e chiede soprattutto leggi che esonerino le donne dai lavori eccessivamente pesanti e che tutelino la maternità; invece Anna Maria Mozzoni, femminista liberale, sostiene l’uguaglianza e quindi è contraria a tutele “speciali”. Il tema del voto femminile viene affidato a una commissione parlamentare, la quale dà parere negativo, facendo quindi naufragare la questione. Esterna al Partito Socialista ma numerosa nelle fabbriche è rimasta gran parte del movimento anarchico, che trova un punto di riferimento politico e culturale nelle figure di Carlo Cafiero, Errico Malatesta e Pietro Gori (autore della celebre canzone Addio Lugano bella).
Un aneddoto della lotta di classe, poco noto ma significativo, è datato 20 luglio 1893: il ferroviere anarchico bolognese Pietro Rigosi prende possesso di una locomotiva in sosta e si lancia in velocità su di questa nell’intento di colpire un treno di lusso per vendicare la gente povera e sfruttata che vede nella ricchezza di pochi l’emblema e il simbolo della propria condizione, ma il personale tecnico della stazione di Bologna devia la linea su un binario non in uso e la locomotiva si schianta su dei treni merci in sosta. La stampa contemporanea ai fatti cerca di far passare Rigosi soltanto come un pazzo, togliendo qualunque valore politico al suo gesto per evitare che tra la popolazione più povera si diffondano sentimenti di solidarietà nei suoi confronti; con questo stesso intento al macchinista, uscito vivo dallo scontro, non viene data alcuna condanna ma solo un allontanamento dal lavoro «per motivi di salute». La storiografia successiva si limiterà a far sparire l’episodio dalla cronaca; a recuperare la memoria del gesto di Pietro Rigosi sarà il cantautore emiliano Francesco Guccini nel 1972 con la canzone La locomotiva, una poesia che narra «la notizia di una locomotiva come una cosa viva lanciata bomba contro l’ingiustizia».
Nel 1893 in Sicilia esplode il movimento dei Fasci siciliani, la prima vera forma di lotta agricola di massa dell’Italia unita che raccoglie centinaia di migliaia di socialisti, anarchici e semplici famiglie contadine. I Fasci siciliani propongono la “mezzadria pura”, ovvero la divisione a metà dei prodotti agricoli tra il proprietario terriero e il contadino, senza dover subaffittare la terra ai signori mafiosi. Temendo l’estendersi della conflittualità sociale, sotto il Re Umberto I e il governo di Francesco Crispi, una spietata repressione militare schiaccia il movimento siciliano. L’ordine che arriva da Roma è non solo di sciogliere le organizzazioni contadine ma anche di sparare sulla folla al primo segno di protesta, uccidendo alcune decine di persone.
Visto il pessimo raccolto e di conseguenza la crescente povertà, fattori che si sommano alla disfatta dell’impresa coloniale e alla repressione voluta da Crispi, le elezioni del 1897 premiano il Partito Socialista; spaventata, la classe dirigente di conservatori e industriali preme perché, come previsto dallo Statuto Albertino, sia il Re e non il Parlamento a scegliere il governo. Il nuovo sovrano affida l’incarico prima ad Antonio Di Rudinì e poi a Girolamo Pelloux, due generali reazionari ed estremamente autoritari. Come se non bastasse il cattivo raccolto, la Guerra ispano-americana in corso fa lievitare ulteriormente il prezzo del pane proveniente dall’America. L’Italia è in ginocchio e a fare la fame sono i contadini e i mugnai, non certo i latifondisti. Dalla Sicilia alla Lombardia la popolazione è in subbuglio. Proteste e assalti ai forni da un lato, sparatorie dall’altro. La Stampa e il Corriere della Sera parlano di «infiltrati stranieri» e «agitatori anarchici», di «complotti, saccheggi e istigazione all’odio di classe» ma non di fame e carestia. Il governo, con il consenso del Re, pone lo stato d’assedio, un documento che permette all’esercito di chiudere una città in caso di emergenza : si vuole far credere che non ci sia nessun problema sociale ma solo una pura questione di ordine pubblico. Il 6 maggio 1898 a Milano la tensione esplode. Responsabile della gestione della piazza è il generale Fiorenzo Bava Beccaris. Civili inermi e disarmati reclamano il pane a prezzi calmierati, gridano a mani vuote, alzano barricate simboliche. Su ordine del generale, l’esercito apre il fuoco. Le barricate vengono abbattute a cannonate, vengono arrestati sia i socialisti che i preti presenti nella manifestazione, crollano sotto i cannoni persino le mura di un convento. Il bilancio della giornata è di trecento morti, tra cui anche donne con bambini piccoli in braccio, anziani e semplici curiosi. Davanti a tante vittime Umberto I, che si fa chiamare «il Re buono», chiama a sé Bava Beccaris: il motivo della chiamata non è una sanzione disciplinare ma una medaglia per aver mantenuto l’ordine. La notizia fa il giro del mondo. Colpito dal comportamento del sovrano, ritorna in Italia un anarchico toscano, che era emigrato in America, con l’intenzione di fare giustizia per i morti di Milano: il suo nome è Gaetano Bresci. Il 29 luglio 1900, durante una parata a Monza, Bresci spara al Re uccidendolo.
Articolo di Andrea Zennaro
Andrea Zennaro, laureato in Filosofia politica e appassionato di Storia, è attualmente fotografo e artista di strada. Scrive per passione e pubblica con frequenza su testate giornalistiche online legate al mondo femminista e anticapitalista.