Chissà cosa pensava del film Papillon il compianto Samuel Beckett.
Più vicino al linguaggio teatrale che cinematografico, lo scrittore e drammaturgo irlandese, massimamente ricordato per ‘Aspettando Godot‘, è l’ autore della celebre massima « [..] Fail again, fail better » che, in soldoni, è il tema fondamentale di questo film.
C’è qualcosa di profondamente attuale nell’angosciante epopea sulla vita carceraria, girata dal regista F. Schaffner nel 1973.
A livello emozionale, sin dalle prime battute del film, lo spettatore si ritrova ad empatizzare rispetto alla condizione di asfissiante mancanza d’ossigeno di un particolare detenuto, rinchiuso in una cella di soli 5 passi per lato.
Cinque soli passi da percorrere, in isolamento totale, per un tempo che pare essere emotivamente infinito.
Il film è basato sull’autobiografia, romanzata, di Henry Charrière, detto Papillon per via di una farfalla tatuata al centro del petto. Charrière è un ladro della Francia degli anni 30′, viene incastrato ingiustamente per un omicidio e detenuto nella colonia penale della Guyana francese.
Il protagonista, interpretato in maniera epocale da uno Steve McQueen probabilmente all’apice fisico-interpretativo della sua straordinaria carriera, potrebbe essere scagionato dalla sua amata: purtroppo non viene considerata attendibile in sede processuale.
Lo spettatore intuisce presto come Papillon non potrà che salvarsi grazie alle sue sole forze.
Il protagonista non desiste, non smette mai di sperare, non si arrende a quella che è una pena la cui manifesta disumanità dovrebbe annichilirlo, alienarlo totalmente per il tempo che gli rimane.
In effetti si riduce in scarni brandelli di pelle e ossa, sorretti da un anelito di vita talmente poco dignitoso, che si potrebbe quasi definire ‘vegetale’.
Continua, nonostante tutto, a tentare la fuga, ancora ed ancora. Ad ogni tentativo di fuga andato a vuoto si moltiplicano gli anni di detenzione, l’isolamento, le pene corporali.
Finisce in ultimo atto su un isola talmente impervia, ‘l’isola del Diavolo’, da non aver bisogno di celle o catene, in quanto ogni tentativo di scappare è così manifestamente suicida da non poter indurre in tentazione. È accompagnato, nelle tante disavventure, da un altro detenuto: il tanto mite quanto pieno di risorse falsario Louis Dega, interpretato da uno stupefacente Dustin Hofmann che, insieme a McQueen, forma una delle coppie meglio affiatate dell’intera storia del cinema.
I due attori condensano, in una sola magnifica interpretazione, tutti gli elementi artistici espressi nelle loro lunghe carriere cinematografiche, (carriere, per altro, per molti versi agli antipodi).
L’alchimia tra Charrière e Dega è profonda: l’amicizia genuina tra i due, a tratti commovente, diviene uno dei temi dominanti del film.
L’amicizia appunto, l’umana solidarietà, il coraggio e la perseveranza sono gli antidoti che Papillon controbatte alle sconfitte patite.
Stilisticamente il film è asciutto, stringato, diretto a colpire lo spettatore con la carica caratteriale del protagonista e la forza dolorosa degli eventi, il ritmo narrativo a tratti si fa incalzante.
Gli occhi di ghiaccio di Mc Queen, i paesaggi tropicali, la pelle ebano della sua amante indigena, rappresentano il variegato spettro cromatico del film.
La Giamaica tropicale degli anni ’70, dove venne girato, appariva un paradiso vergine e incontaminato.
La foga cieca con la quale il protagonista affronta il susseguirsi degli eventi, in un crescendo sempre maggiormente drammatico, conduce l’animo dello spettatore attraverso un’epica cavalleresca applicata ai cattivi o, meglio, ai presunti tali.
Papillon diviene l’eroe incorreggibile degli oppressi, dei perseguitati, dei diseredati. L’uomo al quale hanno portato via ogni cosa tranne la sua stessa vita, ma che pur trova la forza di urlare al mondo, nel finale colmo di speranza “Maledetti bastardi… sono ancora vivo!”.
I contorni ‘mitici’ del personaggio sono alimentati dalla compenetrazione umana dello spericolato McQueen. L’attore pare non amasse usare controfigure davanti alla macchina da presa, contribuendo così ad accrescere i contorni mitici del proprio personaggio: dire solo che diverse scene siano fisicamente impegnative non renderebbe giustizia.
Grandissimi i meriti di Schaffner nel caratterizzare, alle volte solo con poche ‘pennellate’, anche i personaggi secondari: è il caso della madre badessa (Barbara Morrison) che, con quattro battute, incarna perfettamente il lato ipocrita del clero cattolico. Lo stesso personaggio di Maturette (Robert Deman) prende le distanze con grande coraggio e dignità dagli stereotipi stantii sull’omosessuale, regalando una performance di grande eroismo.
Così l’amata indigena (Ratna Assan) non rappresenta l’oggetto amorfo di piacere del maschio bianco, ma anzi appare inusualmente cosciente e consapevole del proprio sentimento, benché velato di una tristezza connaturata alla precarietà dello stesso.
Si diceva in incipit dell’attualità endemica del film: a chi non è mai capitato di sentirsi strozzato nella fredda morsa della routine sociale, dal ricatto quotidiano che l’esistenza salariale impone.
Charriére, alias Papillon, per quanto prigioniero, non ha confini nella propria mente, non vede muri che non possano essere scalati, né mari impossibili da attraversare o catene così dure da non poter spezzare.
L’uomo nasce libero ma ovunque è in catene, così in ‘Papillon’ la cattività imposta all’essere umano si dimostra sorgente di istinti terribili. L’abbrutimento dei detenuti pare inevitabile, solo il protagonista e a tratti l’amico Dega ne sembrano immuni. Probabilmente grazie a quell’umana compassione che li lega l’un l’altro e che Charrière dimostra in massima parte sull’isola dei lebbrosi.
Papillon rappresenta l’incarnazione cinematografica della libertà, dell’impeto imperituro verso la vita, vita intesa come libertà gioiosa di poter andare dove ci pare, senza confini o barriere così forti da poterci trattenere.
Articolo di Edoardo Cuccagna
Laureato in legge, cultore di Islam e politica mediorientale, sta seguendo il master Mislam alla Luiss, il Corso di Giornalismo investigativo e la Scuola per la buona politica presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso. Ha una grande passione per il cinema ed è un profondo estimatore di Petri, Altman, Pontecorvo, Caligari, Sergio Leone. Quando non si occupa di cose più serie tifa l’Inter e ascolta musica inglese.