Mustang

I mustang sono una popolazione di cavalli “rinselvatichita”, dell’America nord-occidentale. La parola inglese mustang deriva dallo spagnolo mesteño (o mestengo come si dice in Messico), che significa non domato.
Il film Mustang del 2015, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs al Festival di Cannes 2015, è l’opera prima della regista turca Deniz Gamze Ergüven, con la quale dà il via alla propria incoraggiante carriera. Il film ha vinto diversi premi ed è anche stato candidato come “miglior film straniero” agli Oscar per la Francia (la produzione del film è turco-francese).
Ambientato in una graziosa località di mare a circa 1000 km da Istanbul, il film racconta la storia drammatica di cinque sorelle orfane che vivono in una grande casa in collina con la nonna e lo zio. Sonay, Selma, Ece, Nur e, la sorella più piccola, Lale.
 Lale personifica il punto di vista narrativo attraverso il quale si racconta la storia. Tutto ciò che lo/la spettatore/spettatrice vede è, più o meno, ciò che è a disposizione degli occhi di Lale, con poche significative eccezioni. 
La bambina è sveglissima e molto curiosa. La storia comincia con l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze: un lungo abbraccio accorato di Lale alla propria insegnante, quasi come già immaginasse di non poterla più rivedere. Le sorelle più grandi un po’ la sfottono, quindi si avviano insieme verso la spiaggia con i compagni. Fanno il bagno nel mare (vestite), giocano senza malizia con amici ed amiche. 
Tale episodio “scandaloso”, per la morale e l’onore familiare, viene riferito alla nonna e allo zio dalle comari paesane, costituendo l’espediente narrativo per introdurre un crescendo di imposizioni e prevaricazioni verso le ragazze. La tensione sale fino alla prigionia totale in casa, con le grate alle finestre e il filo spinato sopra la recinzione. Alle ragazze viene impedito di tornare a scuola, cominciano corsi casalinghi di cucina, pulizia e quanto altro occorre a divenire ‘donne morigerate’. 
La via d’uscita da tale prigionia, misogina e patriarcale, è univoca: il matrimonio.
Un matrimonio tra famiglie per bene, come si conviene ‘combinato’, naturalmente ‘inshallah‘.

“Sembra che i ragazzi si siano piaciuti, poi avranno tempo per prendere confidenza… ”

Questo uno dei soliti commenti dei parenti di fronte all’ (unico) incontro tra futura sposa e lo sposo precedente il matrimonio. 
Il padre di lui chiede la mano ai parenti di lei, la nonna la concede di buon grado, d’altronde “i ragazzi si sono piaciuti, tutto andrà bene con l’assenso del Profeta e la benedizione di Allah… Inshallah

Questo l’iter normale seguito dalle famiglie ‘da bene’ per dare in matrimonio le proprie figlie e i propri figli: la proceduta è valida infatti anche per i ragazzi, i quali però sono sottratti a una serie di vessazioni particolarmente odiose. Una tra tutte, il controllo del ginecologo rispetto all’integrità fisica della ragazza. 
Con queste “attenzioni” si sposano le due sorelle grandi, Selma e Sonay.
Il conflitto centrale del film non è tra ragazze e ragazzi, quanto più generazionale: tra un’epoca passata da un lato, che reagisce per non cedere uno spazio che ritiene proprio, e la modernità dall’altro, che pareva fatta e finita ma in realtà stenta ad arrivare. La scena della prima notte tra Selma e il neo marito Osman fa capire proprio questo: Selma non perde sangue, la sua verginità è perciò messa in dubbio, Osman però non pare dispiaciuto dal fatto in sé. Anzi è esclusivamente preoccupato di ciò che potranno pensare i genitori, in attesa morbosa di ammirare il talamo nuziale tinto di rosso.
 Siamo in epoca di re-islamizzazione nella Turchia di Erdoğan, le cinque sorelle pongono una vera e propria resistenza culturale di fronte ai matrimoni combinati (tra minori, il film non ha bisogno di esplicitarlo) e alla soggezione patriarcale. La laica Turchia kemalista è un lontano miraggio, probabilmente appannaggio esclusivo della borghesia dei grandi centri. Le aree periferiche-rurali restano immerse in una visione retrograda delle cose.
 La verginità è assunta come assoluto valore ontologico della condizione femminile e conditio sine qua non per l’ingresso ‘nel mondo degli adulti’, la pena da pagare in caso di insolvenza è la propria stessa vita, che sia in senso figurato come una segregazione dal mondo esterno o sia letterale, come nel caso di Ece, poco importa. Ece muore suicida dopo esser stata vittima degli abusi dello zio ed essersi concessa frettolosamente ad uno sconosciuto in un parcheggio. Troppo grande forse il carico di pressione psicologica da sopportare. Il funerale è l’unico momento nel quale le restanti quattro sorelle sono riunite, nello stesso letto, a consumare insieme il proprio dolore.
 La condizione appare senza via di fuga, la libera Istanbul un miraggio libertario troppo lontano da raggiungere. Lale non pensa ad altro, sogna di andare allo stadio a tifare il Galatasaray e in un’occasione riesce anche ad andare insieme alle sorelle, grazie all’aiuto di un ragazzo di nome Yasin, che diventerà suo amico.
 Al gol di Burak Yilmaz la regia televisiva inquadra le ragazze in visibilio, solo la ‘copertura’ di una parente evita allo zio orco di scoprire il fatto.
Lale incarna un condensato di tutte le virtù delle sorelle, è determinata, coraggiosa, non si arrende, né smette mai di ingegnarsi. È in assoluto, pur essendo la minore, la sorella più forte. Tutte le altre, nonostante siano caratterizzate da grande positività e ostinazione, hanno delle paure, delle fragilità adolescenziali, fanno delle concessioni, accettano sommessamente, infine, dei soprusi.
Tutte tranne la più piccola, l’ultima della generazione si erge a baluardo delle oppresse, il faro di speranza da seguire.
Il film è pregno di una forte simbologia, di allegorie che non arrivano immediatamente allo spettatore ma che col passare dei minuti riemergono in tutta la loro potenza. A partire dal titolo, sul quale la stessa regista (nonché co-sceneggiatrice) ha dichiarato:

“I mustang sono cavalli selvaggi che simboleggiano perfettamente le mie cinque eroine, il loro temperamento indomabile, focoso. Perfino visivamente le loro capigliature ricordano delle criniere, il loro scorrazzare nel villaggio ricorda quello di un branco di mustang… E la storia procede velocemente, qualche volta a tamburo battente. Per me il centro del film è proprio questa energia che somiglia a quella dei mustang del titolo.”

Le ragazze indossano magliette estive e blue jeans, contrapposti alle tuniche “color merda” delle vecchie paesane e ai başörtüsü islamici.
Il girato è immerso nell’azione delle giovani, talmente reale da apparire ‘amatoriale’ in certi frangenti, grazie al magistrale uso della camera a mano. La fotografia è saturata a tratti, tanto solare e luminosa negli spazi esterni, quanto claustrofobica nella casa-prigione.
Il montaggio diviene serrato con l’arrivo al climax, a tratti palpitante. Pare evidente la volontà di raccontare la tragicità della condizione attraverso la realtà. Lo spettatore è dentro l’azione: si assapora, ad esempio, la noia delle cinque sorelle tenute in casa a giocherellare tra di loro, quando non costrette a pulire\cucinare. A tratti c’è ironia e spensieratezza, più spesso malinconia e curiosità morbosa verso l’esterno: questa dualità del sentire adolescenziale restituisce uno “spaccato” verace di una porzione, altamente verosimile, di vita negata.
La somiglianza dei temi con il più famoso Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola (1999), non va oltre un rispettoso, quanto dichiarato, omaggio.
Le splendide musiche del compositore australiano Warren Ellis,(poli-strumentista con Nick Cave nei Nick Cave and the Bad Seeds sin dal 1994) seguono pedissequamente l’andamento emotivo del film.
Un altro punto di forza della pellicola è quello di aver evitato un manicheismo di maniera sul tema dell’emancipazione femminile in rapporto all’Islam. La narrazione tutta al femminile risulta attraente, mette al centro dello schermo la freschezza dei corpi, corpi in evoluzione con tutto il loro carico di curiosità, aspettative, passioni e desideri.
Desideri repressi dalla morale patriarcale, che non accetta ‘esplorazione’ del sé, bensì solo riconduzione inerme al modello precostituito.
Il finale colmo di speranza è esaltato dall’eroismo della protagonista. L’amico di Lale, Yazin, le insegna a guidare durante uno dei molti tentativi di fuga. 
Tale capacità permetterà a Lale di riuscire a fuggire, traendo in salvo Nur, l’altra sorella rimasta in casa, dall’ennesimo matrimonio combinato.
Il film si conclude come era iniziato, con un abbraccio colmo di speranza tra Lale e la sua vecchia insegnante, questa volta ad Istanbul. L’incredibile tramonto sul Bosforo saluta l’arrivo delle due sorelle in città. La chiosa positiva è ben rappresentata da una dichiarazione della regista in commento al suo film:

“Malgrado tutto, i tempi stanno cambiando in meglio”

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Articolo di Edoardo Cuccagna

Senza titolo-2Laureato in legge, cultore di Islam e politica mediorientale, sta seguendo il master Mislam alla Luiss, il Corso di Giornalismo investigativo e la Scuola per la buona politica presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso. Ha una grande passione per il cinema ed è un profondo estimatore di Petri, Altman, Pontecorvo, Caligari, Sergio Leone. Quando non si occupa di cose più serie tifa l’Inter e ascolta musica inglese.

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