A Ciambra è un film italiano di Jonas Carpignano, presentato alla Quinzaine di Cannes 2017.
Il regista italo-americano, in fase di produzione, è stato supportato economicamente da nientepopodimeno che Martin Scorsese (in veste di produttore esecutivo del film), appassionato sostenitore del cinema emergente.
La storia di Carpignano, e il modo in cui arriva alla realizzazione del film, sembra a sua volta un film.
Jonas parte dall’America e va a vivere a Gioia Tauro nel 2011, poco dopo gli viene rubata l’automobile con tutta la sua attrezzatura cinematografica: conosce così, ben presto, il contesto più o meno ‘responsabile’, che lo colpisce a tal punto da volerci fare un film.
Incontra pure per la prima volta Pio, undicenne analfabeta sempre con la sigaretta in bocca.
Il film racconta la vita della comunità rom nella ‘Ciambra’ di Gioia Tauro, ghetto multietnico bucolico, internamente diviso per comunità (rom e africani), che però spesso si trovano a condividere attività, interazioni e aspettative verso la vita.
La storia narrata è quella della famiglia Amato, secondo il punto di vista di Pio, adolescente di circa quattordici anni, troppo giovane per stare con i grandi, troppo grande per stare con i bambini. L’operazione condotta dal regista è una sottile osmosi tra sceneggiatura di finzione e vita reale dei soggetti raccontati, i quali effettivamente parlano quel mix di sinti imbastardito dal regionalismo calabrese che si ascolta nel film.
Il Pio Amato, personaggio del film, altro non è che Pio Amato nella vita reale.
Del cast fa parte tutta la sua famiglia e buona parte degli eventi narrati sono presi da spunti realmente accaduti o da dinamiche reali della comunità d’appartenenza. Il microcosmo rom è reso con un’oggettività disarmante, forte il richiamo e l’omaggio ai capolavori del cinema neorealista con qualche incursione nel surrealismo onirico tanto caro a Fellini.
Il prodotto finale entra di diritto in una dimensione di commistione tra opera di finzione e documentario, sfociando a tratti nella meta-narrazione. La camera a mano segue pedissequamente i personaggi nelle loro case e porta lo spettatore dentro la scena, catapultandolo tra cene, fatte di lunghe tavolate, o sui sedili di ruggenti scooter. Il tema rom, sempre agli onori della cronaca nazionale, per un motivo o per un altro viene trattato con disillusione risonante. I personaggi sono prigionieri delle proprie forme mentali, dei propri paradigmi culturali, delle proprie radici: si mostrano per quello che sono, senza speranze altre, o giudizi morali didascalici. Gli uomini vivono alla giornata, alla perenne ricerca di una svolta, di un’occasione, per portare i soldi a casa. Senza riuscire ad immaginare piani o progetti di qualsiasi tipo. Le donne sono relegate alla vita familiare, con poche possibilità di esprimersi realmente e con il solo compito di gestire i soldi che ‘portano’ loro i mariti, i fratelli, quindi, i figli.
La vita di tutti i giorni, fatta di furti, traffici, roghi, estorsioni, rapporti con la criminalità locale, scorre tra un passato di erranza e cavalli e un presente di corse in motorino e di macchine rubate. Tutto ciò senza privare i personaggi della propria umanità dissonante.
Pio è un potenziale evil che stimola empatia e alle volte compassione, una via di mezzo tra vittima e carnefice. Un po’ Marcello Fonte nel Canaro di Garrone, un po’ Noodles ragazzo in C’era una volta in America: Pio, chissà quanto consapevolmente, regala un’interpretazione struggente ed emozionante che dà grande forza a tutta la narrazione. Il finale controverso non lascia molte speranze, ma neanche l’illusione di averle mai davvero cercate. Le necessità, i costumi, le consuetudini fanno più di un presunto imperativo morale: il protagonista tradirà l’unica persona che gli aveva dimostrato affetto per essere così riammesso nel proprio contesto familiare ed accedere, finalmente, al mondo degli adulti.
A Ciambra è un film che andrebbe visto spesso per ricordare alle persone di non aver poi tanta fretta di disumanizzare gli/le altri/e: costruisce empatia senza etnocentrismo, adotta uno sguardo nativo, vernacolare, più emico che etico nel raccontare il canovaccio di vita della comunità rom. Il film, pur rimanendo ostico al grande pubblico, ha avuto un discreto successo di sala e di critica, vincendo diversi premi e venendo candidato dall’Italia per l’Oscar al miglior film straniero 2018. Purtroppo però non ha raggiungere la short list, come del resto i ben più noti Dogman, quest’anno, o Non essere cattivo, tre anni fa.
Articolo di Edoardo Cuccagna
Laureato in legge, cultore di Islam e politica mediorientale, sta seguendo il master Mislam alla Luiss, il Corso di Giornalismo investigativo e la Scuola per la buona politica presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso. Ha una grande passione per il cinema ed è un profondo estimatore di Petri, Altman, Pontecorvo, Caligari, Sergio Leone. Quando non si occupa di cose più serie tifa l’Inter e ascolta musica inglese.