«Tutto era stato inghiottito dall’oscurità che aveva spaventato quanto di vivo c’era in Jerushalajim e dintorni. La strana nuvola giunse dalla parte del mare, il giorno quattordici del mese primaverile di Nisan, verso l’imbrunire». Quando descrive la morte di Gesù di Nazareth nel romanzo Il Maestro e Margherita, Michail Afanas’evič Bulgakov pare concordare con il Vangelo di Giovanni, il quale fa coincidere la morte di Cristo con la vigilia di Pesach (la Pasqua ebraica), il 14 del mese di nisan, mentre gli altri tre Vangeli, detti sinottici, parlano proprio del giorno di Pesach, il 15. Non è mai citato l’anno e anche sull’ora della crocifissione i testi discordano; d’altro canto nessuno degli evangelisti era stato testimone diretto. Bulgakov ce ne dà una versione poetica e struggente, ma nemmeno lui, ovviamente, sa dirci niente di più preciso (anche perché non era suo intento). Parrebbe corretta la descrizione dei Vangeli sinottici, perché l’ultima cena di Gesù sarebbe stata proprio quella per la celebrazione della Pasqua ebraica, in cui si commemora la vigilia della fuga del popolo ebraico dall’Egitto e la sua liberazione, ma d’altro canto la Pasqua ebraica durava otto giorni e, inoltre, all’epoca esistevano differenze di interpretazione sulla data all’interno dello stesso popolo ebraico. L’esecuzione capitale, per motivi procedurali e religiosi, non sarebbe potuta avvenire durante un giorno di festa e anche la discordanza dei calendari ebraico (lunare), giuliano e gregoriano non fanno che complicare la cosa. Se proprio non ci si vuole inoltrare in questioni storico-esegetiche che durano da due millenni e che ancora non trovano unanime accordo, dunque, meglio lasciar perdere e scegliere, a piacere, una delle due versioni.
Il collegamento della morte di Gesù alla Pasqua ebraica è un fatto profondamente mistico. La Pasqua è la commemorazione della fuga del popolo ebraico dall’Egitto ove era tenuto in schiavitù, e l’obbligo di mangiare pane non lievitato deriva dal pochissimo tempo che le famiglie ebbero a disposizione prima della partenza e che non consentiva di attendere la lievitazione del pane per il viaggio. Secondo il libro dell’Esodo, per convincere il faraone a liberare il popolo d’Israele, Dio avrebbe inflitto agli egiziani nove terribili disgrazie; dimostratesi inutili, li avrebbe colpiti con una decima, terribile piaga: lo sterminio di ogni primogenito, umano o animale. Per riconoscere le case ebraiche e risparmiarle, Dio avrebbe intimato di sporcare le porte con sangue d’agnello: alla vista di quel segno sarebbe “passato oltre”, e Pesach (Pasqua) significa proprio “passerò oltre”. L’agnello è di conseguenza l’animale sacrificale che muore per dare la vita; Gesù si sacrifica dunque come l’agnello e deve morire a Pasqua. Ma esisteva una festa ancora più antica, quella del raccolto delle nuove spighe d’orzo – ovvero della primavera – durante la quale si preparavano focacce d’orzo nuove, cioè non lievitate, e quindi le azzime hanno le loro radici anche in tale ricordo.
È chiaro che la Pasqua si radica nelle antichissime feste per il ritorno della primavera, così come il Natale in quelle per il solstizio d’inverno. Anche le date d’inizio dell’anno, a seconda dei vari calendari, oscillano fra la fine di dicembre e marzo/aprile: tutti e due i periodi si possono considerare la fine di un ciclo e l’inizio di uno nuovo, ovvero la morte e la resurrezione.
La discordanza dei vari calendari impedisce di avere un’unica data riconosciuta dalle varie tradizioni ebraiche e cristiane, ma tutti i festeggiamenti culminano con la gastronomia e tutti i cibi hanno significati precisi. La cena di Pasqua ebraica ha un nome che è di per sé un rito: seder, ovvero ordine, perché segue una liturgia ben precisa sia nei cibi che nei canti, nelle preghiere e nelle benedizioni, che spesso cambiano da comunità a comunità. Sono d’obbligo le azzime; l’agnello (talvolta sostituito dal capretto); le erbe amare, che ricordano l’amarezza della schiavitù; l’uovo sodo, che ricorda la durezza del cuore del faraone; la charoset, una specie di marmellata di noci, mandorle, mele, datteri, cannella e vino rosso, che ricorda la malta con cui il popolo ebraico in schiavitù costruiva gli edifici in Egitto. Non mancano diversi bicchieri di vino né canti dedicati ai bambini, a cui nel seder si dà molto spazio.
L’uovo di Pasqua, dunque, deriverebbe dall’arido cuore del faraone, ma è anche un simbolo archetipico della vita e dell’universo. Secondo antiche credenze, infatti, il cielo e la terra erano come l’albume e il tuorlo di un uovo mentre nell’antico Egitto l’uovo rappresentava la fusione dei quattro elementi, acqua aria terra e fuoco. Mircea Eliade scrive che l’uovo cosmogonico è comune praticamente in tutte le culture e che alcuni culti misterici, che consideravano la reincarnazione come fonte di dolore e ne ricercavano l’uscita definitiva, proibivano di mangiare uova. Non a caso, il famoso paradosso dell’uovo e della gallina non offre soluzioni, proprio perché il ciclo vitale è infinito. (Detto proprio tra parentesi: il problema è strettamente linguistico e, sul piano logico, la risposta c’è).
Oggi le nostre uova sono decorate (quelle sode) e contengono sorprese (quelle di cioccolata), ma la loro storia è recente e risale all’orafo russo Karl Gustavovič Faberže, più noto come Peter Carl Fabergé, che nel 1887 ricevette l’incarico dallo zar Alessandro III di realizzare un uovo prezioso da regalare a Pasqua alla zarina Marija Fëdorovna. L’uovo, primo di una lunga e preziosa serie, era in platino, conteneva un altro uovo d’oro e questo, a sua volta, conteneva una riproduzione della corona imperiale e un pulcino d’oro. Una specie di uovo-matrioska, che fa pensare alla femminilità.
Le donne infatti appaiono nella Pasqua, ma con diversi ruoli. Nelle tante rappresentazioni dell’ultima cena non ci sono che uomini (ma nessuno ci dice chi l’abbia preparata, la cena). Nella crocifissione, in mezzo alla folla, le donne sono presenti, disperate e impotenti. Ma il Cristo risorto lo vedono per prime le donne. Sul loro numero i Vangeli, come al solito, non concordano, ma sono unanimi sul fatto che ci fossero solo loro, uniche a non nascondersi impaurite dopo la condanna e la crocifissione.
Articolo di Maria Pia Ercolini
Laureata in Lettere e in Storia e Società a Roma, insegna Geografia e coordina progetti di didattica di genere. È fondatrice e presidente nazionale dell’associazione Toponomastica femminile. Ha pubblicato le guide turistico-culturali Roma. Percorsi di genere femminile, e curato i volumi Sulle vie della parità e Strade maestre e coordina la collana Le guide di Toponomastica femminile.