Una donna quasi per caso

«Infin dalla puerizia si vide, ch’ella niente aveva di fanciullesco, fuorché l’età; niente di donnesco, fuorché ‘l sesso. Ingegno sublime e maturo, senno più che senile, disprezzo d’ogni culto, e d’ogni delizia, niun altro piacere di corpo, salvo il faticoso della caccia, né di mente, salvo l’attuoso de’ libri: altrettanto liberale del tempo allo studio, quanto avara al sonno, a cui non dava più che tre ore. Fece in pochi anni sì gran profitto, che arrivò ad intender bene undici lingue, tra le quali la latina, la greca, l’ebrea, l’arabica, e non meno a penetrare i sensi quantunque profondi de’ più famosi scrittori, che in ciascuna di esse fiorivano».  
[“Descrizione del primo viaggio fatto a Roma dalla regina di Svezia Cristina  Maria convertita alla religione cattolica”, di Francesco Maria Sforza Pallavicino]

Ribelle, colta, irrequieta e dalla personalità profondamente irriverente. Cristina di Svezia è stata descritta così e – ancora – in molte altre maniere. È stata interpretata con le più svariate chiavi di lettura, schiava, potremmo dire, del contesto storico nel quale la sua figura veniva di volta in volta vissuta, scoperta, riscoperta e raccontata.
Se nel Seicento massima eco ha avuto la sua conversione, e nell’Ottocento grande evidenza hanno avuto le sue conviventi nature maschile e femminile e il suo animo legato e prigioniero di amori senza speranza, nel Novecento, l’interesse che suscita non è politico né romantico ma sessuale: una eroica precorritrice delle lotte per le libertà individuali. Una donna, dunque, talmente sfaccettata da diventare un simbolo adattato e adattabile alle più disparate esigenze. Ma chi è stata davvero Cristina di Svezia?
Nata a Stoccolma nel dicembre del 1626, è figlia di Gustavo II Adolfo Vasa, re di Svezia ed eroe luterano della Guerra dei Trent’anni, quel grande conflitto religioso che – dal 1618 al 1648 – sconvolge l’Europa, conseguenza diretta di un’ecumenicità cultuale ormai frammentata e sfaldata dalle spinte centripete dei nascenti Stati nazionali. E ben si capisce come, in un tale teatro, la scelta di Cristina di convertirsi alla fede cattolica romana abbia avuto risvolti politici e internazionali di una rilevanza assoluta. Una conversione che, ancora oggi, è materia di studio e di dibattito. I motivi che porteranno la sovrana a scegliere di votarsi alla fede papalina sono oggetto di profonde discussioni: dal rifiuto per il matrimonio alla ricerca di una spiritualità che permettesse al proprio irrequieto animo di allenarsi e dedicarsi a dibattiti e disquisizioni, in una profonda quanto affascinante complessità teologica.

Questo suo vivere in un tale teatro storico traccerà, direttamente e indirettamente, il percorso delle scelte che Cristina, e la società a lei contemporanea, si troveranno a intraprendere. Un esempio su tutti: Fabio Chigi, nunzio pontificio inviato come mediatore durante la firma della pace di Vestfalia – che si rifiutò di trattare proprio con gli scismatici svedesi – sarà il futuro papa Alessandro VII in onore del quale Cristina, convertitasi al cattolicesimo romano, sceglierà come secondo nome quello di Alessandra.
Nasce donna quasi per caso, parafrasando il titolo del romanzo che Dario Fo le ha dedicato: talmente mascolina e affetta da ipertrofia clitoridea da sembrare, agli occhi delle dame di corte, un bimbo, quell’erede maschio tanto agognato dal regno svedese. E come la nascita sarà tutta la sua vita, combattuta tra ciò che ci si aspetta da lei e ciò che ella è davvero. Una dualità che la caratterizzerà sempre.
Profondamente amata dal padre, al quale succederà ufficialmente nel 1650, è, per volontà di quest’ultimo, educata come un vero e proprio erede al trono: figlia femmina adorata e vista come il maschio desiderato; regina consacrata ma chiamata – pare – con l’appellativo di Re; sovrano de iure e de facto, ma in realtà interessata a creare più una ”Atene del nord” che non una “Sparta svedese” o una “Ginevra scandinava”, come forse il contesto storico e politico avrebbero imposto; avversa al matrimonio ma capace di grandi storie d’amore, con uomini e con donne.
Cristina è stata definita come la prima regina europea, protagonista della corte svedese, di quella romana, della realtà francese e di quella imperiale, interessata ai regni di Napoli e di Polonia, conosciuta nel mondo olandese e in quello spagnolo. Regina europea anche perché in quasi tutto il vecchio continente Cristina si muove, a partire dalla propria abdicazione e conversione. Un viaggio, iniziato nel 1654 ad Anversa, che toccherà Bruxelles, Innsbruck, Trento, e poi Ferrara, Bologna, Forlì, Rimini, Fermo, Ancona, descritto in lunghe e disparate relazioni, letto e interpretato in chiave laica ed ecclesiastica, in un’assoluta dimensione pubblica, dove niente sembra lasciato al caso. Quando il corteo a seguito di Cristina giunge a Loreto, ella offre in dono alla Madonna il proprio scettro e la propria corona. Questo episodio è descritto da Carlo Festini, ferrarese, insegnante di Diritto civile alla Sapienza di Roma fin dal 1665, come una semplice e dovuta offerta lasciata dalla regina; di contro, se leggiamo la relazione del cardinale Sforza Pallavicino, lo scettro e la corona sono il simbolo dell’intero trono svedese, piegatosi alla grandezza di Roma e della vera fede cattolica.
Contro questo Cristina ha dovuto sempre avere a che fare: reputata una pedina da muovere, è stata lei, in realtà, a guidare i fili della propria esistenza. Fascio di luce deviato dal prisma di rifrazione seicentesco e, attraverso di esso, decodificata nelle più diverse interpretazioni, Cristina non si è mai fatta comandare. L’accoglienza ricevuta a Roma è stata tra le più fastose e dispendiose mai registrate: si assolderanno artisti quali Gian Lorenzo Bernini e Giovanni Paolo Shor per creare un’atmosfera degna di tutto il carico politico e religioso che la regina portava con sé. E se il pontefice credeva di poterla gestire secondo i propri personali disegni, Cristina a Roma diverrà un assoluto personaggio di spicco, accentratrice di una corte di artisti, politici e uomini di cultura; non sarà mai la donna pia e sottomessa che tutti si sarebbero aspettati e, anzi, la vita monotona e di preghiere alle quali si piega per la prima parte del suo soggiorno romano, farà sì che proverà poi più volte a fuggire, tendando la strada del governo politico – del regno di Napoli, di quello di Palermo, del trono di Polonia – che sembrava aver disdegnato quando esso le spettava di diritto. Nella città eterna Cristina giunge con l’idea di mangiar bene, dormir bene, studiare un poco, chiacchierare, ridere, vedere le commedie francesi, italiane, spagnole, e passare il tempo piacevolmente; pensa di poter vivere, in autonomia, giornate occupate a disquisire di teologia, di poesia, di arte e di scienze. Ella, che aveva intrattenuto rapporti epistolari con Pascal e Pier Gassendi, che aveva tessuto una profonda amicizia con Raniero Montecuccoli, che era riuscita a chiamare alla propria corte svedese Grozio, Freinsheim, Nikolaes Heinsius il Vecchio, Isaac Vossius, Claude Saumaise, Pierre-Daniel Huet, Gabriel Naudé, Christian Ravis, Samuel Bochart e René Descartes, non può certo immaginare un soggiorno fatto di preghiere, rosari e penitenze. Fa arrivare nella residenza di via della Lungara, oggi sede dell’Accademia dei Lincei, parte della propria collezione di opere d’arte, quasi duecentocinquanta pezzi tra quadri e sculture; frequenta assiduamente, infischiandosene delle voci che iniziano a circolare su una loro relazione, il cardinale Decio Azzolini, uomo brillante, vivace, amato dalle donne, membro del cosiddetto Squadrone Volante, al quale sarà legata da una sincera e duratura amicizia; pratica e organizza feste; si veste da uomo; abbandona Roma per la corte di Francia e qui sarà coinvolta nella sordida storia dell’uccisione di Gian Rinaldo Monaldeschi, suo capostalliere; conoscerà e incontrerà la figura, forse, più importante dell’Europa del tempo, il cardinal Mazzarino; si racconta che durante una festa organizzata nel 1658, si presenterà abbigliata “alla turca”; farà poi ritorno nella città eterna, restandovi fino alla morte, avvenuta all’età di sessantadue anni il 18 aprile 1689. Nella chiave di dualità che sempre ha caratterizzato la figura di Cristina, dunque, ella sarà, sì, una donna cattolica, ma sicuramente mai bigotta. Una donna libera, intraprendente e con la ferrea volontà di essere padrona di se stessa e del proprio destino.

LE STORIE.Roma. La stanza di Cristina a Palazzo Corsini.jpg
Roma, via della Lungara. La stanza di Cristina a palazzo Corsini.

Dopo la sua dipartita, il pontefice di allora, papa Innocenzo XI Odescalchi, nonostante le richieste testamentarie di Cristina, che avrebbe voluto una sepoltura priva di sfarzo, decide di rendere l’ex regina di Svezia – ancora una volta – simbolo e pedina di giochi più grandi. La salma è ornata riccamente, circondata da corone e candele, e posta su di un catafalco ricoperto di velluto nero e frange d’oro. Condotta per le strade di Roma in maniera trionfale, il suo ultimo viaggio sarà accompagnato da tutto il popolo che, ci dicono le cronache, cercherà di non perdersi nulla del trasporto della sovrana. Spazio della sepoltura è la Basilica di San Pietro, luogo prettamente maschile, che accoglierà l’eterno riposo della regina e di sole altre due donne laiche: Matilde di Canossa e Maria Clementina Sobieski Stuart. Ma pure in queste sue ultime volontà non rispettate, volendo, possiamo leggere la grande rivoluzione di Cristina di Svezia: la storia, che l’avrebbe voluta pedina, è stata costretta a rendere omaggio a una figura protagonista di se stessa e del proprio tempo, sempre libera e “viaggiatrice” in un mondo che, inutilmente, ha provato a imporle immobilità, etichette e limiti.

In copertina. David Beck – Christina, Queen of Sweden (1644-1654)

Articolo di Sara Balzerano

FB_IMG_1554752429491.jpgLaureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.

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