Una certa mattina di gennaio, accompagnai un mio alunno al suo primo giorno di alternanza scuola/lavoro, presso il Centro di Raccolta Solidale per il diritto al cibo. Ero lì, in sostanza, per fargli da balia, perché il consiglio di classe, prima di Natale, si era espresso in maniera preoccupante circa la condotta dentro e fuori dall’Istituto del ragazzo in questione e l’idea di cacciare la scuola in qualche guaio sul territorio, in nome dell’autonomia degli studenti, non piaceva a nessuno.
Ovviamente il prescelto per questo tipo di incarichi è quasi sempre il docente di sostegno, anche detto “tuttologo delle gatte da pelare”. Perché questo, di alunno, non è proprio l’allievo modello. Per amor del cielo, ha anche le sue ragioni: una vita difficile e una storia decisamente troppo complicata per la sua giovane età. Ma si sa che certe cose non si possono scegliere: accadono e basta. Imparare a farci i conti fa parte dell’impresa di crescere. Una cosa che richiede tempo, fatica e forse anche una piccola dose di fortuna, per lo meno nel fare gli incontri giusti. Comunque, per dare un’idea della situazione, il nostro eroe, ad oggi, è uno di quegli scolari che, se va bene, nei giorni buoni, si relaziona all’adulto con un bel vaffa e un buon rosario di bestemmie; se va male, diciamo che sarebbe meglio se, da docente, a scuola ci andassi a piedi, per evitare di trovarti qualche pneumatico a terra…con un coltellino svizzero accidentalmente conficcato nella gomma … e magari qualche sano “figlio di…” inciso sul cofano.
Bene, quella famosa mattina, io e il mio santo in erba ci recammo al Centro di Raccolta per quella che pensavamo sarebbe stata una tranquilla giornata di conoscenza dell’ambiente e delle attività. Invece ci trovammo immediatamente catapultati in una realtà parallela, dove, in qualche centinaio di metri quadri, una umanità irrequieta e varia ne incontra un’altra altrettanto frenetica e variopinta (di rosso, nello specifico: il colore della pettorina che indossano i volontari e gli operatori). Da una parte grandi sacchetti vuoti tenuti in mano da padri, madri di famiglia e da un carosello di personaggi dall’età indefinita; dall’altra cassette piene di frutta, formaggio, verdura, pane maneggiate da persone che vanno dal quindicenne studente in stage, al settantenne pensionato.
Cibo salvato dalla macchina assurda degli sprechi e delle eccedenze, alimenti che devono essere selezionati, organizzati, smistati, controllati, equamente ripartiti ed infine consegnati. Con stupore ho ammirato per quasi tre ore il meccanismo della distribuzione alimentare, non perfetto, ma efficace e molto organizzato.
Per due di queste tre ore, mi sono sentita orgogliosa del mio alunno, impegnato a scaricare e trasferire cassette da 15 chili di frutta e formaggi dai camion al magazzino. Orgogliosa di un somaro indefesso, fannullone impenitente, bestemmiatore seriale resistente a qualsiasi esorcismo pedagogico, miracolosamente trasformato in un lavoratore entusiasta e scrupoloso. L’ho visto seguire con attenzione le indicazioni del responsabile – lui che fatica ad ascoltare qualsiasi argomento in classe – ho osservato con quanta cura maneggiava le borse e le riempiva – lui che tratta la sua cartella come fosse lo zerbino di un vecchio bordello in abbandono – l’ho sentito dire “grazie e prego” anziché “porco e minchia”, l’ho persino visto coi miei occhi sorridere felice mentre consegnava alle famiglie sopraggiunte le borse con gli alimenti. Giuro che gli ho chiesto il permesso per fargli un video con il cellulare, in modo da mostrarlo ai colleghi che, altrimenti, non mi avrebbero mai creduta. Non lo avrei fatto nemmeno io, se non fossi stata lì a guardare. Ecco cosa accade se si passa, per una volta, dalla parte dei buoni. Se si abbandona la maschera del ribelle, dell’indolente, dello sfaticato, per indossare quella del ragazzo pieno di energie e capacità da mettere a disposizione di chi ne ha bisogno.
Il bello della Piattaforma, quello che io e il mio alunno abbiamo respirato, è che alla fine si perdono le differenze tra chi aiuta e chi è aiutato. Se non ci fossero state le pettorine rosse ad indicare chi stava distribuendo e chi ricevendo, nessuna diversità si sarebbe notata tra le persone che affollavano il magazzino e il cortile. Chi può dire se ha più bisogno di mangiare un povero di quanto ne abbia un adolescente di sentirsi utile, di sapere che ha trascorso la sua mattina a fare del bene?
Il lavoro intellettuale, quello che chiediamo di fare a scuola ai ragazzi, dà spesso risultati poco visibili, è una semina che ha bisogno del suo tempo per mostrare frutti concreti. Richiede pazienza, un sufficiente grado di capacità proiettiva e di astrazione. Non tutti gli studenti delle nostre classi hanno queste caratteristiche. Purtroppo, certo, ma è così. Prendere da mangiare, riempire un sacchetto e consegnarlo a chi ne ha bisogno, invece, dà un riscontro immediato del frutto del proprio impegno. Forse il mio alunno, in quel momento, aveva bisogno di questo. Era in cerca di un segno tangibile della sua utilità, del suo valere qualcosa per qualcuno. Non domani, ma adesso. Forse aveva bisogno di vedere adulti all’opera non solo con le parole (spesso noi docenti veniamo percepiti così, astratti oratori del nulla), ma anche coi fatti, con le mani e le braccia. Perché in questa città c’è qualcuno che della solidarietà ha fatto un mestiere. Ci sono realtà che gestiscono con professionalità e serietà problemi come la fame, l’emarginazione, gli sprechi, le dipendenze. E, se non li risolvono, almeno li contengono, perché hanno una visione, un progetto, hanno la volontà di costruire ponti di solidarietà e di aiuto reale. Hanno esattamente ciò che manca alla politica, da tempo e in questo momento. Forse sono queste le persone che i nostri alunni più disincantati hanno bisogno di vedere e conoscere. Oltre ad ascoltare mille parole, desiderano fare. Più di interminabili mattine trascorse ad ammazzare zombie (ai quali a volte finiscono per assomigliare), smanettando di nascosto col cellulare sotto il banco, forse hanno bisogno di stringere mani, incontrare persone e storie, diventare protagonisti di un cambiamento vero.
Articolo di Chiara Baldini
Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.