Effetti collaterali in corsia

Trascorrere alcune settimane ad accudire una persona cara in ospedale in un reparto di quelli dove si cerca di strappare  all’invalidità e alla morte degenti colpiti da problemi cerebrali ti dà tanto tempo per pensare, osservare e riflettere e permette di rivedere con decisione anche il modo in cui ci si pone verso la vita quotidiana. Filtrato attraverso le lenti dell’ospedale tutto appare diverso, come se fossero delle lenti speciali che, come quelle di un binocolo, possono ingrandire, a seconda del lato da cui si guarda, alcune cose, e/o rimpicciolirne altre.
Intorno, nel mondo, tutto continua ad andare avanti, nel bene o nel male e grazie all’uso dei nostri telefonini si è in contatto costante con il fuori, ma è la percezione che cambia. E cambia il modo in cui si dà valore alle cose. Alla vita umana ad esempio, al suo essere, nonostante la sua brevità e fragilità, al di sopra di tutto. In ospedale, soprattutto in un reparto di terapie intensive, le priorità sono chiare: salvare vite umane, anche a prescindere dagli effetti collaterali.
E stabilita una tale priorità tutto diventa secondario, dal cibo meno appetitoso alla convivenza in stanza con pazienti e/o parenti, dal fare misterioso e sempre un po’ condiscendente di medici e mediche alla lentezza dello scorrere del tempo. Anche gli effetti collaterali veri e propri, quelli fisici, sono secondari. Problemi che quando stiamo bene sarebbero sgradevolissimi ora sono semplici effetti collaterali laddove la priorità è salvare la vita o la possibilità di condurre il resto della vita in modo dignitoso. Anche avere l’impressione di perderla un po’, la dignità, è un effetto collaterale sacrificabile alla necessità di riconquistarla nel lungo periodo.
Invece figli e figlie, mogli e mariti, e a volte purtroppo anche padri e madri dei/delle pazienti si spogliano del loro ruolo nella vita quotidiana e diventano a loro volta parenti pazienti. E di pazienza ce ne vuole davvero tanta perché anche il tempo in ospedale scorre lento, le giornate diventano all’improvviso lunghissime e ciò nonostante non si abbia quasi il tempo di fare null’altro.
Cambia anche il valore dei giorni della settimana: la domenica scorre ancora più lenta, è un giorno in cui non succede nulla, niente esami o analisi, niente incontri con i medici, un giorno che non può offrire le novità sperate.
E ci vuole pazienza e coraggio per affrontare l’inversione dei ruoli… ti sembra ieri che imboccavi un figlio inappetente e ora devi farlo con un genitore. Ed è difficile per entrambi.
Ci vuole pazienza anche perché spesso bisogna essere diverse da se stesse. E tu che passi le giornate a combattere il sessismo del linguaggio o la misoginia dei comportamenti ti ritrovi a chiamare medico la dottoressa perché ci mancherebbe altro di indisportela nel caso lei non condivida l’uso del linguaggio non sessista o accetti quasi inevitabilmente che il tal medico, lui sì maschio, tratti te donna con condiscendenza e poi si spertichi in spiegazioni mediche con tuo fratello, dando per scontato che lui, anche se meno presente perché vive lontano e quindi non è informato sul  quotidiano, possa comprendere meglio le spiegazioni in quanto uomo.
D’altra parte anche se il reparto è fortunatamente pieno di brillanti dottoresse, inclusa la vice del primario, in ospedale vige, in quanto luogo di cura in senso lato, una divisione dei ruoli fortissima. Nonostante la presenza al 50% circa di dottoresse e infermiere l’assistenza familiare è prestata al 95% da donne e se è previsto che un parente possa stare 24 ore con il malato, questo parente sarà quasi sempre una moglie o una figlia o una nuora. E non vale dire che gli uomini più spesso lavorano fuori casa perché ho visto nuore fare le notti anche nel weekend. Anche perché la legge non scritta dell’assistenza in ospedale da parte di parenti prevede che se il malato è maschio possano assisterlo sia uomini che donne di famiglia ma se la paziente è femmina debbano assisterla donne! Al contrario, i parenti maschi sono tanti quando si attende, nell’orario di colloquio stabilito, di parlare con i medici. Improvvisamente il corridoio dell’ospedale diventa pieno di uomini, pare che parlare con i medici sia il ruolo che gli compete!
Però durante un periodo di permanenza in ospedale ci sono anche gli aspetti positivi, dal punto di vista umano. Medici e mediche, quando impari a conoscerli/e, sono quasi tutti/e non scontrosi/e come potevano sembrare, anzi alcuni/e sono straordinariamente umani ed umane. E si comprende che non è facile svolgere questo lavoro in un reparto in cui si è quotidianamente costretti/e ad assistere al decadimento improvviso, emotivo e fisico, così come non è facile avere a che fare con momenti così delicati della vita delle persone. Molto spesso, dopo il ricovero per le patologie che si curano in questi reparti, anche se la vita non termina e si supera agevolmente la fase critica, la vita non sarà più quella di prima.
È giusto che anche loro si proteggano, che restino un po’ distaccati, affinché possano continuare al meglio il loro lavoro.
E ci sono le amicizie e le relazioni che nascono tra perfetti estranei, diversi per cultura, professione, idee, ceto che improvvisamente si sentono così uniti e unite da condividere informazioni intime e private, che si danno sostegno reciproco, si scambiano favori e cercano, nel contatto reciproco, la forza per affrontare l’attesa, le scelte, l’ansia, il dolore, la speranza. Sì perché anche la speranza va affrontata perché si rischia che possa provocare nuovo dolore, se infondata.
E su tutto e tutti aleggia la parola più amata e desiderata: dimissione, che finalmente arriva ma non necessariamente associata alla guarigione. Ci sarà la necessità di nuove cure, di prepararsi ad un nuovo modo di affrontare la vita quotidiana, per persone malate e parenti e questi ultimi dovranno abituarsi ad un nuova dimensione della persona cara,  mentre medici e mediche ricominciano daccapo, in un ciclo infinito.
Colgo l’occasione per ringraziare tutto il personale del reparto di neurologia ospedaliera degli OO.RR di Foggia (in copertina).

Articolo di Donatella Caione

donatella_fotoprofiloEditrice, ama dare visibilità alle bambine, educare alle emozioni e all’identità; far conoscere la storia delle donne del passato e/o di culture diverse; contrastare gli stereotipi di genere e abituare all’uso del linguaggio sessuato. Svolge laboratori di educazione alla lettura nelle scuole, librerie, biblioteche. Si occupa inoltre di tematiche legate alla salute delle donne e alla prevenzione della violenza di genere.

2 commenti

  1. Leggo con piacere un articolo di una conterranea! Sono anche io una docente foggiana, trapiantata a Milano e lì diventata toponomasta! Un caro saluto

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