Le economiste brillano per la loro assenza nei testi delle nostre scuole ma questa non è una novità. Eppure inserire il loro pensiero potrebbe servire ad alimentare nei giovani e nelle giovani quella capacità di immaginare un mondo diverso di cui c’è assoluto bisogno, in questi tempi di cupa rassegnazione. Mariana Mazzucato merita certamente di essere inserita nei manuali di economia, scienza delle finanze e relazioni internazionali delle secondarie superiori.
Nata in Italia (1968), ha seguito la famiglia negli USA a quattro anni, ed è lì che ha compiuto il suo apprendistato accademico. È stata Visiting Professor all’Università Bocconi dal 2007 al 2009. Dal 2015 è consulente del partito laburista guidato da Jeremy Corbyn. Dal 2017 è Professor di Economia dell’innovazione presso lo SPRUR dell’Università del Sussex. Dirige l’Institute for Innovation and Public Purpose all’University College di Londra e fa parte di vari comitati economici di alcuni Paesi europei. Con un curriculum di tutto rispetto, da tempo conduce all’interno del mondo accademico e nei consessi dei policy makers una battaglia discorsiva a proposito del ruolo dello Stato nell’economia.
“Come il Messico fu derubato della California e del Texas facendo leva sull’immagine, fabbricata ad arte, del “pigro messicano che sonnecchia sotto una palma”, così lo Stato viene attaccato e smantellato pezzo dopo pezzo facendo leva sull’immagine di un carrozzone burocratico e maldestro per sua natura”, mentre l’impresa privata viene descritta come dinamica e propulsiva, a prescindere. In “Guasto è il mondo” Tony Judt dice che l’attacco al Welfare State (che comunque, per usare le parole del Prodi professore di economia, rimane “la più grande conquista del ventesimo secolo”) negli ultimi trent’anni è stato caratterizzato proprio da una battaglia discorsiva. E questo ognuno di noi può verificarlo nelle discussioni quotidiane con amiche e amici, negli articoli di fondo dei quotidiani, non solo economici, nei banalizzanti talk show. La narrazione mainstream neoliberista e ultraliberista, con il suo corollario delle politiche di austerity e il debito pubblico come spauracchio, è stata metabolizzata dall’intera opinione pubblica.
Di Keynes e Schumpeter, Mazzucato prende il meglio e lo suggerisce ai policy makers, con un’analisi accurata e approfondita, fondata su dati statistici e ricerche. Partendo dal presupposto che nei Paesi a capitalismo maturo è l’innovazione il motore dell’economia che può creare lavoro, l’economista italo-statunitense dimostra con una notevole serie di esempi che un diverso rapporto tra pubblico e privato può essere la chiave di un grande cambiamento e nello stesso tempo la strada per contenere le disuguaglianze.
Il ruolo dello Stato non può essere soltanto quello di correggere i cosiddetti fallimenti del mercato, dalle bonifiche ambientali, per i danni causati dalle imprese, al finanziamento della ricerca di base. E nemmeno è sufficiente la spintarella (nudge) alle imprese rappresentata dall’alleggerimento delle tasse. Questo è tutto quello che sono capaci di suggerire anche gli economisti più vicini alle forze progressiste. Come sostiene Keynes in La fine del laissez faire, “la cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto”.
Su questa parte del pensiero di Keynes dovremmo puntare oggi nelle nostre lezioni di economia politica, anche qui smontando la narrazione che lo descrive come il sostenitore dello Stato spendaccione, capace di creare solo deficit di bilancio. Leggere i testi di questo grande Padre dell’economia politica, così interessante anche per le sue frequentazioni con il circolo di Bloomsbury e con Virginia Woolf, al di là delle semplificazioni economiciste e un po’ ragionieristiche dei manuali in circolazione, servirebbe a fare appassionare alla materia i nostri e le nostre studenti e ad avvicinarle/i alla cosiddetta “triste scienza”, che così triste non è se collegata alle scienze umane e studiata attraverso le parole di economiste ed economisti.
Molte delle innovazioni più importanti, realizzate dopo ripetuti necessari fallimenti, sono avvenute grazie alla mano visibile dello Stato e la Mazzucato, che conduce il Dipartimento di studi sull’innovazione, nel suo libro, Lo Stato innovatore, lo dimostra con dati e statistiche.
“L’economia capitalistica non è e non può mai essere stazionaria. Né si espande in modo continuo. È costantemente rivoluzionata dall’interno da nuove intraprese, cioè dall’immissione, nel quadro esistente della struttura industriale, di nuove merci, e di nuovi metodi di produzione, o di nuove opportunità di commercio”. (Joseph Schumpeter)
Gli investimenti più visionari sono oggi effettuati in Paesi come il Brasile e la Cina da banche di investimento pubbliche che non si limitano a erogare credito in funzione anticiclica, come suggeriva Keynes nella parte più conosciuta della sua teoria, ma indirizzano questo credito verso settori nuovi e incerti, dove le banche private e il venture capital, attratto dai profitti a breve termine, esitano ad avventurarsi: le biotecnologie, le tecnologie pulite, le nanotecnologie, la green economy, in una parola, il futuro.
Tanti sono gli spunti del suo libro, che invito a leggere anche chi di economia politica mastichi poco perché, come il suo mentore Keynes, la Mazzucato ha una penna facile e leggera e possiede la dote della chiarezza. Il primo su cui mi soffermerò riguarda la cosiddetta finanziarizzazione dell’economia e dell’impresa. È noto a tutti e tutte, dopo la crisi finanziaria del 2007/2008, che “la finanza aveva privatizzato sempre più i guadagni delle proprie attività, socializzando i rischi”. I salvataggi delle banche coinvolte nello scandalo dei mutui subprime e dei derivati hanno ampiamente dimostrato, anche ai più entusiasti sostenitori del mercato, che” il settore finanziario può trasformarsi in una sanguisuga che prosciuga le risorse economiche” senza che noi possiamo farci alcunché. Le finanziarie e le banche hanno raggiunto dimensioni “too big to fail” e si è ormai diffusa l’opinione che, comunque vada, nel caso dovesse ripresentarsi una crisi, si salveranno comunque. A questo punto è chiaro che “operiamo in un’economia che socializza i rischi e privatizza i guadagni, arricchendo le élite a spese di tutti gli altri”. Ma anche il settore privato è sempre più finanziarizzato. Le imprese farmaceutiche private, mentre riducono gli stanziamenti per la ricerca all’interno della spesa per R&S, aumentano i fondi per l’acquisto di azioni proprie, manovra che all’uomo (e alla donna) della strada sembra un ossimoro (“Come si fa e perché si acquistano azioni che già si possiedono?” Mi si perdoni la banalizzazione, ma per molti “analfabeti finanziari” questa domanda non è così scontata), ma la strategia è un’altra: accrescere la quotazione del titolo e di conseguenza il valore delle stock options e delle retribuzione dei top manager. Un solo esempio valga per tutte: la Pfizer, nel 2011, oltre a distribuire 6,2 miliardi di dollari di dividendi, ha riacquistato 9 miliardi di dollari di azioni proprie, un ammontare pari al 90% dei suoi utili e al 99% della sua spesa in R&S. Lo Stato incrementa il supporto alla R&S delle imprese farmaceutiche e le imprese farmaceutiche che cosa fanno? Lo riducono e acquistano azioni proprie. Come definiremmo questo rapporto? Simbiotico o parassitico?
Mazzucato riporta il caso di un nuovo medicinale che produce ricavi annui per oltre un miliardo di dollari ed è commercializzato dalla Genzyme. “Serve per curare una malattia rara ed è stato inizialmente sviluppato dagli scienziati del NIH (National Institute of Health, USA). L’azienda che lo produce ha fissato il prezzo per il dosaggio di un anno a 35.000 dollari e le autorità che avrebbero potuto intervenire per ridurlo a prezzi ragionevoli non lo hanno fatto. Il risultato è un caso estremo di socializzazione di costi (per lo sviluppo del farmaco) e privatizzazione di profitti. E una parte dei contribuenti, che ha finanziato con i soldi delle tasse lo sviluppo di questo farmaco, non ha la possibilità di curare i propri familiari ammalati perché è troppo costoso.”
In settori della new economy, società come la Apple “incassano i benefici di tecnologie sviluppate con soldi pubblici e capitali di rischio forniti dallo Stato (il Darpa e la rete internet) senza pagare quasi nulla di tasse e sottraendo allo Stato fondi che potrebbero essere sviluppati per future tecnologie smart.”
È questo il futuro che vogliamo, si chiede Mazzucato?
Chi si assume veramente il rischio nei processi di innovazione è poi lo stesso soggetto che ne ricava i guadagni? Per garantire una crescita economica equa, stabile e inclusiva, come recita l’obiettivo 2020 della strategia della Commissione Europea, bisogna guardare all’innovazione come a un processo collettivo, che include un’ampia divisione del lavoro con molte parti in causa. Tutte queste parti, ben descritte da Mazzucato, devono partecipare alla distribuzione dei profitti. Altrimenti non solo si perpetua la disuguaglianza, ma anche, a parere di chi scrive, l’ingiustizia sociale.
Lo Stato innovatore dovrà trovare il modo di riprendersi una fetta della torta regalata alle imprese private e Mazzucato suggerisce alcuni modi per farlo. Li aveva proposti anche a Renzi, che si era portato il suo libro in vacanza quando era Presidente del Consiglio, ma probabilmente il maggior partito di centro sinistra era ancora attratto dalle ricette neoliberiste blairiane.
Ma prima di tutto c’è bisogno di rivalutare il ruolo dello Stato, la sua capacità di attrarre i migliori talenti, come accade per Arpa-E che negli Usa attira alcuni tra i migliori cervelli e crea entusiasmo intorno a missioni specifiche. Impresa non facile ma nemmeno impossibile in Italia, Paese in cui la figura di chi lavora per lo Stato non è accompagnata dal prestigio del civil servant britannico, per una serie di ragioni che in questa sede non si possono approfondire, nonostante il disposto dell’articolo 54 della Costituzione reciti: ”Coloro cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. Alcuni dei dati e dei ragionamenti contenuti in questo testo fondamentale sull’innovazione e la disuguaglianza devono entrare a pieno titolo nei nostri manuali o costituire progetti di approfondimento, anche in modalità Clil, laddove si possono sviluppare il critical e il creative thinking di studenti.
Lo dobbiamo alle presenti generazioni, che sono tra i soggetti più vulnerabili in questo stadio del capitalismo.
Articolo di Sara Marsico
Abilitata all’esercizio della professione forense dal 1990, è docente di discipline giuridiche ed economiche. Si è perfezionata per l’insegnamento delle relazioni e del diritto internazionale in modalità CLIL. È stata Presidente del Comitato Pertini per la difesa della Costituzione e dell’Osservatorio contro le mafie nel sud Milano. I suoi interessi sono la Costituzione , la storia delle mafie, il linguaggio sessuato, i diritti delle donne. È appassionata di corsa e montagna.