Pena di morte, l’ingiustizia dura a morire

Il 10 ottobre ricorre la giornata europea contro la pena di morte. Tale tematica è al centro di diversi dibattiti da molti anni. Prima di analizzare le motivazioni utili per sostenerne l’abolizione, occorre porre in essere alcune distinzioni per meglio comprendere la diffusione del fenomeno. Il sito Amnesty International, organizzazione non governativa internazionale impegnata nella difesa dei diritti umani, distingue fra Paesi totalmente abolizionisti (106, tra cui l’Italia), Paesi abolizionisti per reati minori (8 Paesi che hanno deciso di mantenere la pena capitale solo per reati particolarmente gravi), Paesi abolizionisti de facto (28 Stati che, pur conservandola come opzione nel loro sistema giuridico, non la applicano) e Paesi mantenitori (56 Paesi che la mantengono in vigore e la utilizzano per reati più o meno gravi). 

Lo Stato che detiene il triste primato di condanne a morte è la Cina che da molto tempo mantiene il segreto sull’effettivo numero delle esecuzioni. Seguono l’Iran, l’Arabia Saudita, il Vietnam, l’Iraq, l’Egitto, gli Stati Uniti, il Giappone, il Pakistan e via discorrendo (la lista completa è consultabile sul sito http://www.amnesty.it). In particolare per quanto concerne gli Stati Uniti, sono solamente 19 su 50 gli Stati che hanno completamente abolito la pena di morte, ma sempre più numerose sono le organizzazioni che manifestano dissenso su questa pratica da Medioevo. 

Un recente studio ha inoltre dimostrato in quale misura un pensiero tanto frequente quanto spaventoso possa essere realtà. Infatti, una delle domande più frequenti che ci si pone riguardo alla pena di morte è l’ipotetica innocenza della persona condannata. Tale studio, condotto dalla University of Michigan School Law su ben 7482 condanne a morte sentenziate dal 1973 al 2004, ha evidenziato che 340 persone erano in realtà innocenti. Di queste solamente 144 sono riuscite a dimostrarsi tali prima di finire su una sedia elettrica o sul lettino del boia pronto a iniettare la soluzione letale. 

Svariate sono le motivazioni proprie di coloro che sostengono l’abolizione della pena, fra le tante: il suo violare il diritto alla vita, la sua inumanità, il fatto che non abbia valore deterrente, il suo negare ogni possibilità di riabilitazione. L’elenco, necessariamente parziale, fa ben comprendere come la riflessione a riguardo non possa mai essere superficiale. Progresso significa, o dovrebbe significare, anche impegno nel trovare soluzioni più civili, più umane, che non siano privare qualcuno del proprio diritto alla vita.

 

L’omicidio di Stato (Laura Candiani)

Prendo spunto dal recente articolo comparso sul trimestrale di Amnesty International (3 luglio 2019) a firma di Chiara Sangiorgio per fare il punto sulla situazione attuale. In un mondo incattivito, aggressivo, violento, in cui il possesso delle armi è talvolta (come negli Usa) un diritto acquisito, può sembrare impossibile trovarsi di fronte a belle notizie; invece i dati forniti dal rapporto sono incoraggianti. Intanto vediamo qualche caso esemplare. In Nigeria, il 27 aprile, il governatore di Lagos ha annullato venti condanne a morte, commutandone sei in ergastolo e rilasciando quattordici prigionieri che già avevano trascorso in carcere almeno venti anni. Il 9 maggio, in California, il nuovo governatore Gavis Newsom ha annunciato la sospensione della pena di morte per il suo intero mandato, cioè fino al 2023. In Gambia, l’8 maggio il presidente Adama Barrow, dando seguito alla moratoria sulla pena capitale, ha commutato in ergastolo ventisette condanne a morte a persone colpevoli di omicidio. Significativi anche i gesti avvenuti nella Repubblica Democratica del Congo (700 prigionieri rilasciati, per lo più accusati di essere pacifisti) e in Azerbaigian (400 prigionieri graziati, cinquantuno di loro erano incarcerati per ragioni politiche).

Passando alla situazione generale, il rapporto spiega che nel 2018 si è verificato un calo significativo di esecuzioni: il 31% in meno dell’anno precedente e il miglior risultato dell’ultimo decennio. 690 esecuzioni, a fronte di 993 del 2017. In Iraq e Somalia le esecuzioni si sono dimezzate, come pure in Iran, dove è andata in vigore una nuova legge sul controllo del traffico di droga. In Pakistan si è passati dal picco di 300 condanne nel 2014, a quattordici.

Nel mondo i Paesi che hanno praticato condanne capitali sono passati da ventitré a venti, ma venti anni fa erano ancora trentuno. Interessante sapere che, nella settima risoluzione dell’Onu, il numero degli Stati che si sono pronunciati a favore di una moratoria è cresciuto a 121.

Lo scorso anno in Burkina Faso la pena di morte è stata cancellata dal codice penale, mentre in Gambia e in Malesia si è giunti a una moratoria. Positive notizie anche negli Usa: la Corte suprema dello Stato di Washington, infatti, ha dichiarato incostituzionale la legge stessa che consente l’applicazione della pena di morte. Tuttavia, a livello complessivo, negli States le condanne e le esecuzioni sono lievemente aumentate.  

Il silenzio copre qualsiasi notizia certa proveniente dalla Cina, dove la questione è ritenuta segreto di Stato; sembra che ancora si utilizzino i famigerati furgoni della morte, grazie ai quali il boia arriva ovunque, anche nei luoghi più sperduti. Sconfortante la situazione a Singapore, con un raddoppio delle esecuzioni. Il Giappone nazionalista ottiene un triste primato: il numero più alto di esecuzioni degli ultimi dieci anni. Qui fra l’altro la pratica della pena è particolarmente crudele: il condannato non sa quando morirà e tutto si svolge nel massimo segreto, in maniera da coglierlo di sorpresa. Nel Sud Sudan (e pure in Iran) le condanne si applicano anche a chi era minorenne al momento del reato. La morte per impiccagione resiste in Egitto, a livelli preoccupanti e spesso a seguito di processi ingiusti. Alcuni leader populisti, in Paesi come le Flippine e lo Sri Lanka, invocano il ripristino della pena capitale come se costituisse un rimedio contro corruzione e delinquenza, mentre circa 19.000 persone risultano essere attualmente nel braccio della morte. La situazione a Cuba – anche in relazione alla salvaguardia dei diritti umani – rimane nell’incertezza perché è l’unico Stato delle Americhe in cui è vietato l’accesso agli osservatori internazionali e ad Amnesty.  Dunque c’è tanto ancora da lavorare per incrementare le buone notizie.

Per concludere vorrei richiamare alla memoria un testo fondamentale: Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria (1765) nel quale il grande pensatore, con argomentazioni e ragionamenti ineccepibili, dimostrava la crudeltà e inutilità della tortura e della pena di morte. La prima perché le violenze inflitte portano anche gli innocenti a confessare reati mai commessi. La seconda perché risulta meno spaventosa rispetto a una pena certa: su questo si deve basare una buona giustizia. 

Processi brevi, equi e pene sicure, che dovrebbero portare chi ha sbagliato a riflettere sugli errori, a redimersi attraverso lo studio e il lavoro. Questo è stabilito anche dalla nostra Costituzione nell’articolo 27 (molti giuristi/e si interrogano oggi sull’utilità e legittimità dell’ergastolo, se è vero che un/a condannato/a può cambiare vita e avere diritto a un’altra opportunità). Ispirato dalla lettura assidua del Beccaria e sensibile alle idee illuministe, il granduca della Toscana Pietro Leopoldo di Lorena, non ancora quarantenne, emanò per primo in Europa una legge rivoluzionaria. Era il 30 novembre 1786. Con il nuovo codice penale erano aboliti tortura e pena di morte; tutti i lugubri strumenti furono dati alle fiamme nel cortile del Bargello, all’epoca carcere fiorentino. E quello fu un falò gioioso, simbolico, degno segnale di una svolta. D’altra parte il granduca aveva abituato la popolazione toscana alle novità, da quando diciottenne neo-sposo arrivò da Vienna, spinto da un sincero intento riformatore. E così fu fino al 1790, quando dovette prendere il posto del fratello Giuseppe II, morto prematuramente, sul trono imperiale. Significativo che un bel dipinto del lucchese Pompeo Batoni raffiguri i due fratelli, mano nella mano, vicino a uno scrittoio su cui è poggiata una copia della celebre opera di Montesquieu L’Esprit des Lois. Va ricordato, infine, che la regione Toscana nel 2000 ha scelto proprio la data del 30 novembre come festa commemorativa. Sarebbe bello che questo fosse un monito e un auspicio, al di là dei confini italiani ed europei.

Articolo di Ettore Calzati Fiorenza e Laura Candiani

gJaZLDNROssessionato dalla comunicazione, sostenitore della scienza e dell’importanza del dubbio perché, in fondo, quasi nulla di cui ci crediamo certi è effettivamente tale. Tra i miei interessi principali rientrano anche la letteratura, le arti figurative e la musica. “Le parole sono tutto quello che abbiamo” e per questo faccio del mio meglio per mantenere quelle date, usque ad finem.

 

oON31UKhEx insegnante di Materie letterarie, dal 2012 collabora con Toponomastica femminile di cui è referente per la provincia di Pistoia. Scrive articoli e biografie, cura mostre e pubblicazioni, interviene in convegni. È fra le autrici del volume e Mille. I primati delle donne. Ha scritto due guide al femminile dedicate al suo territorio: una sul capoluogo, l’altra intitolata La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne.

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