«El mundo es poco». La scoperta dell’America

Il mare trasferito in terra. Così doveva apparire il porto di Palos de la Frontera nell’agosto del 1492. Genti, una moltitudine indefinita di esseri umani a spingersi e chiamarsi tra i pontili e la battigia. Urla, colori e profumi salmastri messi all’angolo da un andare e venire continuo, quasi che la folla avesse tramutato il molo e gli attracchi in scenografia e teatro.

È difficile distinguere e distinguersi quando anche gli odori sanno di terre lontane, quando l’orizzonte di casa chiama altri orizzonti a malapena conosciuti. È, però, il 1492 e nel porto andaluso coloro che partono sono, per buona parte, riconoscibili. Gruppi di persone, accompagnati da carri di masserizie, dall’aria mesta e con uno speciale segno da portare addosso per legge: sono i Sefarditi, gli ebrei di Spagna, cacciati con editto reale del 31 marzo per volontà delle Loro Maestà Cattolicissime Ferdinando di Aragona e Isabella di Castiglia.

Nel nuovo regno liberato dai Mori infedeli, non vi è posto per il popolo che ha condannato a morte il figlio di Dio.

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Inserisci Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia

C’è poi un altro gruppo. Novanta uomini, quasi tutti con la cappa grigia e il lungo berretto rosso: sono marinai, un equipaggio pronto alla partenza. Tra di loro l’umore è sicuramente diverso. Hanno l’entusiasmo dell’avventura, la gioia di guadagni certi e di una ritrovata libertà. Chi li guida li ha convinti che è possibile arrivare in India navigando verso ovest, che loro avrebbero aperto questa nuova rotta, che la Spagna li avrebbe trattati come eroi, che le corti lusitana, inglese e francese si sarebbero pentite di aver chiuso le porte in faccia a questa spedizione. Per un anno di navigazione, riceveranno dodicimila maravedis, 350 grammi di biscotto al giorno, 250 grammi di carne secca o di pesce e un azumbre di vino. Questo promette e ribadisce il loro ammiraglio, tale Cristoforo Colombo, un genovese che parla il portoghese, perché lingua della navigazione, e il latino, perché lingua delle élite culturali e politiche europee. Colombo è uno che sa il fatto suo, nonostante abbia appreso le proprie conoscenze nautiche alla «scuola della gavetta». Non è un pazzo né un visionario. La sua idea è già stata elaborata. È possibile. È reale. Aristotele e Strabone avevano ipotizzato si potesse raggiungere l’Asia muovendosi a occidente; la Geografia di Tolomeo parlava di un continente euroasiatico che occupava buona parte dell’emisfero settentrionale, al quale si arrivava navigando verso ovest. Aveva letto Marco Polo, Colombo, e la lunga descrizione che egli faceva delle isole del Cipango, estese fino quasi a 30° di longitudine al largo della terraferma asiatica; e aveva letto anche Pierre d’Ailly, che nel suo Imago Mundi affermava che l’oceano Atlantico non è così grande da ricoprire tre quarti della superficie della Terra, come molti andavano affermando.

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Imago Mundi di Pierre d’Ailly

L’equipaggio è con lui. La regina gli crede. Dopo quasi sette anni di obiezioni, e grazie all’intercessione del confessore reale, Isabella di Castiglia, il 17 aprile 1492, firma le Capitolaciones. Con esse concede a Colombo i titoli di ammiraglio del mare oceano e di viceré delle terre raggiunte, il diritto di armare tre navi, il 10% dei metalli e delle pietre preziose trovate e un ottavo dei profitti commerciali. La sovrana ha bisogno di Colombo e ha bisogno – soprattutto – che la missione sia un successo.

Il 2 gennaio l’esercito cristiano ha conquistato Granada, ultimo avamposto moresco in terra iberica, liberando – di fatto – il regno dalla dominazione araba. Questa vittoria, enorme, porta la firma e il sigillo di Ferdinando di Aragona. Isabella, dunque, accetta di finanziare l’impresa del navigatore genovese per cercare un’affermazione del regno castigliano che potesse bilanciare l’impresa del marito, tanto più che, pochissimi anni prima, il portoghese Bartolomeu Dias – al cui ritorno trionfale in patria era presente lo stesso Colombo – era riuscito a doppiare Capo di Buona Speranza. La via per le Indie era, per il regno portoghese, solo una questione di tempo e, tolti di mezzo gli intermediari arabi, le casse statali lusitane si sarebbero rimpinguate enormemente. Bisognava fare in fretta. Con uno stanziamento di circa due milioni di maravedis – un milione e mezzo venivano dalla corona, 250.000 li ebbe in prestito Colombo da ricchi conoscenti e 250.000 erano di Luis Santángel, ministro delle finanze spagnolo – il 3 agosto del 1492 la flotta è pronta a levare l’ancora.

Le imbarcazioni sono tre, due caravelle e una nau: la Pinta, la “dipinta”, 140.000 tonnellate, capitanata da Martín Alonso Pinzón; la Niña, la “bambina”, vero nome Santa Clara, guidata da Vincente Yaňez Pinzón; la Santa Maria, la nave ammiraglia, 150.000 tonnellate, vero nome la Gallega, “la Galiziana”, di proprietà del cartografo Juan de la Cosa, al comando lo stesso Colombo. Le due caravelle hanno il ruolo di collegamento tra la flotta e di esplorazione di foci e coste; la nau stiva la maggior parte dei rifornimenti e delle potenze di fuoco. Tutte sono formate da tre alberi, una vela principale quadrata e da vele di mezzana triangolari.

Gli uomini dell’equipaggio sono novanta: ottantaquattro spagnoli, il portoghese Juan Arias, il nero delle Canarie Juan Portugues, e gli italiani Anton Calabrés, calabrese, Juan Vecano, veneziano – entrambi a bordo della Pinta – e Jacome el Rico, genovese, mozzo della Santa Maria. Tra gli spagnoli, quattro personaggi degni di nota: Bartolomé de Torres, Juan de Moguer, Alonso Clavijo e Pedro Izquierdo. Il primo aveva accoltellato a morte l’esattore delle tasse di Palos, Juan Martin e – per questo – era stato condannato alla pena capitale. Evaso con l’aiuto degli altri tre, decide insieme ai suoi compari – anche loro condannati a morte – di imbarcarsi con Colombo a seguito dell’ordinanza reale del 3 aprile che concedeva la sospensione dei processi e delle sentenze per coloro che fossero partiti con il navigatore genovese. I quattro sono tutti a bordo della Santa Maria.

L’umore è alto. Alle otto del mattino di venerdì 3 agosto dell’anno del Signore 1492, la piccola flotta alza le vele; nella tasca del suo ammiraglio un passaporto in latino: «con questo noi mandiamo il nobile uomo Cristoforo Colombo con tre caravelle sui mari oceani, verso le regioni dell’India per certi scopi e ragioni».

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Cristoforo Colombo

Il genovese è sicuro della buona riuscita della missione. E forse, l’idea che tutto sia nato da un naufragio lo fa sorridere, alto sul cassero della nave ammiraglia. Perché, sì, i marinai sono superstiziosi, ma qui si tratta di calcoli, di studi, di pensieri razionali: l’oceano Atlantico non è poi così vasto, il Giappone neanche troppo distante, e se tutto questo è figlio di una spedizione finita nel peggiore dei modi, allora vuol dire che il destino si è già pagato il conto, che il Padreterno ha un buon senso dell’umorismo e poi anche Roma – a ben vedere – è nata da un omicidio.

Era il 13 agosto del 1476 quando, dopo un assalto da parte di corsari francesi, una piccola flotta genovese, carica di merci da vendere in Portogallo, in Inghilterra e nelle Fiandre, venne quasi completamente distrutta. Aggrappato a un legno galleggiante, un marinaio si salvò, nuotando per chilometri verso la costa. La riva lusitana era abbastanza vicina e a Lisbona c’era un fratello che avrebbe potuto dargli aiuto e ospitalità. Iniziò così il soggiorno di Cristoforo Colombo in terra portoghese, un soggiorno che – nel corso del successivo decennio – darà luce al progetto di vita del genovese. Per mantenersi, egli intraprese un viaggio commerciale in Inghilterra, Irlanda e Islanda e qui, nel 1477, udì i racconti della Vinland di Leif Ericsson: navigare verso ovest era dunque possibile. Rientrato a Lisbona, iniziò un’attività di cartografia che gli permise di studiare accuratamente longitudini, latitudini e rotte. Inoltre, tra il 1478 e il 1479, si maritò con una nobildonna, tale Filipa Perestrelo Moniz, il cui padre, morto da qualche decennio, aveva una fornitissima collezione di mappe, carte e libri nautici. La collezione andò in dono allo sposo. Colombo studiò il materiale del suocero, analizzò le correnti e i venti dell’Atlantico, lesse dell’esistenza di altre terra a occidente. Fu così che, nel 1484, i pezzi del mosaico andarono a posto e nella testa del navigatore genovese si materializzò l’idea di raggiungere le Indie muovendosi verso il tramonto. I calcoli che egli fece davano conferma della possibilità reale del progetto. Egli riteneva che ogni grado di longitudine corrispondesse a circa quaranta miglia nautiche a 28° di latitudine nord, la latitudine – cioè – sulla quale intendeva navigare, e che la distanza tra le Canarie e il Giappone fosse di circa 60° di longitudine, 2.400 miglia, 800 leghe. Con questi calcoli in testa, dopo anni di richieste di finanziamenti, Colombo poté finalmente partire per rincorrere il proprio sogno.

Dunque, il 3 agosto la missione prende il largo. Dopo poco più di un mese, il 6 settembre, fa una tappa di collaudo alle isole Canarie. È l’ultimo attracco prima del mare aperto. Secondo le previsioni di Colombo, puntando verso ovest, e muovendosi a una velocità di quattro nodi l’ora, avrebbero coperto le 2.400 miglia che li separano dal Giappone in appena tre settimane. Passano i giorni e non c’è alcun segnale della prossimità della terraferma. Davanti all’equipaggio, solo acqua. Ottobre è iniziato e le 2.400 miglia che li avrebbero dovuti portare in Asia sono state abbondantemente coperte. Gli animi dei marinai stanno cambiando. La gioia e l’aspettativa della partenza stanno lasciando il posto a un’insofferenza sempre maggiore. L’equipaggio si sta convincendo che Colombo voglia diventare grande a spese delle loro vite, che ciò che ha in testa è solo una fantasia malata e che per essa sarebbe anche disposto a morire e a condannare tutti alla stessa, misera, fine. Il 6 ottobre, il comandante della Pinta chiede un cambio di rotta. Il 10 ottobre, l’ammutinamento sta per scoppiare: i marinai vogliono gettare l’ammiraglio fuori bordo, tornare in patria e raccontare a tutti che Colombo è caduto accidentalmente dalla nave mentre osservava le stelle. Si raggiunge a un accordo: se entro pochi giorni nessuno avesse avvistato terra, le caravelle e la nau sarebbero tornate in Spagna. Poi, due giorni dopo e grazie al cambio di rotta, alle due di notte del 12 ottobre del 1492, l’orizzonte uniforme sembra spezzarsi: a bordo della Pinta, Juan Rodriguez Bermejo, aiutato dal riflesso lunare, scorge la linea di terra appoggiata nel mezzo del mare. «Terra!» è forse la parola più bella che le orecchie di Colombo sentono pronunciare. La missione è salva. Egli aveva avuto ragione.

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La rotta

Almeno, questo è ciò che il navigatore genovese crede per il resto della sua vita. Il nuovo ammiraglio del mare oceano è convinto di aver raggiunto una delle isole al largo delle coste asiatiche e, nel suo oriente, egli tornerà altre tre volte sempre con la speranza di trovare una via per la terraferma continentale, scoprendo molte delle principali isole caraibiche – tra cui Cuba, Giamaica, Hispaniola, Dominicia – le isole Leeward, Trinidad, Puertorico, le isole Vergini, la foce del fiume Orinoco, Costa Rica, Honduras e Panama. Il continente americano, frapponendosi tra Colombo e le Indie, ha – di fatto – salvato la vita all’intera spedizione poiché i calcoli del genovese risultano errati: ogni longitudine misura circa sessanta miglia e la distanza tra le Canarie e il Cipango di Marco Polo è di 10.600 miglia.

Nonostante tutto, in madrepatria si grida alla grande impresa. Se prima era la Spagna a dover inseguire i portoghesi nella ricerca di una nuova rotta, adesso in terra iberica le carte si giovano da protagonisti ed è il resto d’Europa a dover correre ai ripari. In questo contesto, l’Inghilterra proverà, nella figura dell’italiano Giovanni Caboto, a trovare il famoso passaggio a Nord-Ovest. Tutta l’economia europea tende, dunque, a spostare il proprio centro gravitazionale verso occidente e verso nord. Cambia profondamente anche l’assetto finanziario. Si sviluppa in questi anni un nuovo sistema, il mercantilismo, caratterizzato soprattutto dalla convinzione che l’ammontare della ricchezza di un Paese dipenda dalla quantità di metalli preziosi – oro e argento – che esso possiede. Questa nuova teoria è la naturale conseguenza, tra le altre cose, dell’evoluzione del mercato sempre più dal respiro globale. Ora, si ritiene fondamentale incoraggiare le esportazioni piuttosto che le importazioni al fine di garantire la ricchezza e la potenza statale; quest’ultima deve avere come sua stabile base una popolazione numerosa, che sarà anche sinonimo di autosufficienza; i nuovi Stati devono esercitare, d’ora in poi, un completo e totale controllo sulle economie nazionale e internazionali.

Con la spedizione di Colombo, l’Europa deve reinventarsi anche in un altro senso. I vecchi limes vengono abbattuti; Adamastor, pur con tutto il suo carico di terrore e incertezze, non è più ostacolo tanto insormontabile da obbligare le navi in porto; il “Nec plus ultra” appartiene, ormai, solo all’evo passato.  I popoli con i quali l’uomo moderno si trova a fare i conti sono delle realtà non preventivate dalla cultura canonica del tempo: agli Indios deve essere data una collocazione e così essi vengono visti, di volta in volta, come i discendenti delle dieci disperse tribù di Israele o come gli abitanti delle mitologiche Esperidi. Ciò che si vuole rivendicare è comunque il dominio spagnolo sulle nuove terre scoperte e sulle popolazioni che le abitano. Colombo stesso, carico di una visione millenaristica e apocalittica di conversione di tutte le razze come missione propria della Spagna, crede di poter ricostruire con l’oro delle Indie il tempio di Gerusalemme. La sua spedizione è una crociata, gli Spagnoli il popolo eletto e il loro re l’imperatore salvatore.

Con le scoperte geografiche – e dopo la Reconquista –  il Vecchio Continente prende definitivamente coscienza di sé. Già a partire dalla fine dal XV secolo, si era affermata l’idea che esso fosse costituito da un insieme di popoli riconoscibili in un’unica civiltà e il confronto, iniziato già con Arabi, Turchi e Cinesi, esplode con gli abitanti del Nuovo Mondo, contribuendo in maniera definitiva alla creazione di una forte autocoscienza. Ciò che nel Medioevo era chiamata Christianitas, adesso ha anche l’appellativo di “Europa”, una realtà coesa geograficamente e spiritualmente. Gli Europei sono consapevoli di appartenere a una civiltà superiore, che esce vincitrice dal confronto tanto con gli Indios, quanto con gli antichi così tanto idealizzati in passato. Nasce così, accanto alla figura del cristiano, dell’eretico e dell’infedele, anche quella del selvaggio. A pagare il prezzo più alto di questa nuova coscienza europea sono le popolazioni del Nuovo Continente che, da questo momento in poi, subiscono un vero e proprio olocausto. Dovranno alzarsi voci autorevoli come quelle di Bartolomé de Las Casas, passato alla storia come il difensore degli Indios, di Montaigne fino ad arrivare alla bolla papale di Paolo III Farnese, la Sublimis Deus, nella quale si afferma che «Indios veros homines esse», per porsi anche solo il dubbio sulla liceità di tali barbarie.  Ma siamo già nel 1537 e il pontefice, come la storia narra, rimane inascoltato.

Con la scoperta dell’America, dunque, inizia un’epoca nuova, rivoluzionaria nel bene e nel male, dal carattere straordinario e universale, nella quale i contemporanei si rendono forse conto per la prima volta che, per dirlo con le parole di Cristoforo Colombo, «El mundo es poco».

Articolo di Sara Balzerano

FB_IMG_1554752429491.jpgLaureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.

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