Chi sono? Sono una donna. Almeno, questa è la risposta che vi fornisce lo specchio. Lo so, lo so che potete scorgermi a stento: le tende svolgono bene la loro funzione. A tratti vi appare la mia schiena. Guardatela. È magra? Grassa? Gobba? Slanciata? Non lo sapete. Non lo capite. Bene. Però, le mie spalle, quelle sì, potete vederle. Spalle di donna. Larghe. Larghe perché così è la mia corporatura; larghe anche se minute; larghe pure se, dopo di esse, manca un braccio a completare l’opera. Larghe. Spalle larghe perché spalle di donna. Dovrete accontentarvi. Vi basti ciò che vedete; vi serva ciò che a malapena distinguete.
La penombra velata che maschera la mia figura è un’amica fidata, di quelle che proteggono i segreti a costo di negare l’evidenza. E qui, oggi, il segreto e l’evidenza sono io.
Capire chi sono non ha senso. Non è ciò che serve. Arginarmi in un contesto sarebbe come mettere delle condizioni prima dell’ascolto di una fiaba: se Coleridge vi ha chiesto di sospendere la vostra incredulità, io vi chiedo di sospendere la curiosità. Posso dirvi il mio nome. Ma non ora, non adesso. Prima fatemi vestire di tutte le stoffe che devo.
E i cambi di costume sono veramente numerosi. Perché non sono i miei, gli abiti che ho il compito di indossare. Oggi il mio ruolo è quello di manichino, di silhouette scura adatta e adattabile a qualsiasi aspetto serva. Oggi sono soprattutto una voce.
Ascoltatemi. Il tono polveroso che mi esce dalla gola vuole raccontarvi storie di tempo dilatato e di spazio in movimento; storie che sono state, ma che ancora esistono; storie di altre che sono me, di me che sono loro; di un identificarsi che ha il sapore del riscatto.
Ascoltatemi. Le parole che sono state pronunciate fino a ora nascono da penne — quasi tutte — maschili. E chi scrive, si sa, ha il potere di accostare aggettivi e definizioni a chi vuole, come vuole. Adesso, finalmente, a parlare sono io.
Ascoltatemi.
In un mondo altro, di oriente orgoglioso ed ereditario, sono stata un’imperatrice. La mia città era il ponte tra l’est e l’ovest su un mare azzurro e verde. Una città dal nome augusto e dalla parlata greca, capitale sorella di una capitale assoluta che non esisteva più.
Sono nata in un anfiteatro, vicino alle belve che mio padre addomesticava. Alla sua morte, ho intrapreso, insieme alle mie sorelle, la carriera che era stata di nostra madre, divenendo ballerina e attrice. Mi esibivo nell’Ippodromo, in spettacoli di mimo, danzando, cantando e recitando. Le mie rappresentazioni potevano essere considerate oscene, per la morale del tempo, e la fama dei miei costumi dissoluti mi ha accompagnata per tutta la vita. Per essa, per la mia professione, per la mia bellezza, sono stata chiamata “puttana”. Non ero una vergine illibata, certo, ma non sono stata più libertina di tante mie colleghe. Più di loro, però, ho avuto il destino: di me s’innamorò un console che, dopo pochi anni, sarebbe divenuto imperatore. Una plebea che diviene basilissa: ecco la mia colpa. Perché dico questo? Qualche tempo prima della mia incoronazione, una legge abrogata aveva annullato l’equiparazione giuridica di attori, danzatori e mimi ai traditori della patria, ai parricidi, alle prostitute. Eppure, l’odore di lupa non mi si tolse mai di dosso. Fui una regina ambiziosa, attiva, presente nel suo ruolo, dispotica. Mi schierai dalla parte delle donne e, grazie al mio intervento, sotto il mio regno, vennero promulgate leggi che regolavano e proteggevano lo stato giuridico della donna nella società, nella famiglia e – persino – nella strada, abolendo la pratica dello sfruttamento delle prostitute da parte dei lenoni. Fui compagna, sempre; accompagnatrice, mai. Il mio nome? Teodora, imperatrice di Costantinopoli.
Se mi muovo avanti nella storia, prostituta lo divento davvero. Io nacqui a Roma, nella città del Papa Re, nel tempo di Michelangelo, Raffaello e Bramante. Stando a quello che dice mia madre, venni alla luce a seguito di una relazione incestuosa. Mio padre pare sia stato un cardinale che, non potendomi ufficialmente riconoscere, mi fece adottare da un cugino. Il cognome sempre lo stesso: d’Aragona. Mia madre, ferrarese, m’instradò alla sua professione. Divenni una delle cortigiane più apprezzare, dedita al sesso, sì, ma anche alla cultura e alla poesia. Nel salotto che tenevo si parlava in latino, si componevano versi, si faceva l’amore. A un certo punto, dovetti fuggire da Roma, per colpa di un uomo rozzo, sporco che, invaghitosi di me, mi pagò una somma enorme per poter trascorrere un’intera settimana in mia compagnia. Resistetti a malapena un giorno: troppo volgare era quell’individuo! Così scappai. Me ne andai a Siena, dove mi sposai, e poi a Firenze, dove finii nei guai con la giustizia: in quanto cortigiana, avevo l’obbligo di indossare un velo giallo per distinguermi dalle donne virtuose. Come se io fossi solo quello! Come se, al di là del mio essere meretrice, non fossi anche un’intellettuale, una poeta! Gli uomini scrivevano rime sui miei capelli e sui miei occhi ed io scrivevo sull’Amore. Avevo ricevuto la migliore istruzione possibile, eppure di me sembravano vedersi solo le mie gambe aperte e non la mia mente spalancata. Alla fine, me ne tornai a Roma, a Trastevere, dove, a nemmeno cinquant’anni, lasciai questa vita terrena. Fui amata da poeti, cardinali, uomini politici. Scrissi sonetti, dialoghi e trattati. Amai profondamente. Amai gli uomini, amai il sesso, amai il denaro, ma soprattutto amai l’arte, le liriche e la bellezza. Il mio nome? Tullia, Tullia d’Aragona, la cortigiana dei poeti.
Attrice lo fui anch’io, una delle prime nella storia del mio Paese. Vissi dopo una testa reale caduta, dopo un periodo asfittico di nero e lutto perenne, dopo un’idea di democrazia trasformata in una dittatura militare. Il sovrano rientrato in patria spalancò le finestre del regno a portare aria nuova. Soprattutto, egli tornò a spalancare teatri. E fu lì, prima nella platea e poi sul palcoscenico, che si compì il mio destino. Da bimba mescevo acquavite nei bordelli, finché un’amica prostituta ottenne la licenza per vendere arance, limoni e dolciumi all’interno dei teatri: Orange Moll era chiamata, ed io e mia sorella diventammo delle ragazze arancioni. Non passavo inosservata: capelli rossi, incarnato diafano, animo allegro e scanzonato, semisvestita per il mio lavoro. In breve tempo, venni notata da Charles Hart che mi insegnò i rudimenti del mestiere e divenni attrice nel momento in cui, per la prima volta nel mio Paese, le donne potevano calcare le assi scheggiate del palcoscenico. Finalmente una Desdemona che fosse credibile! Non solo. A volte, a noi fanciulle erano dati anche ruoli maschili, e immaginate quanto agli uomini potesse piacere vederci nelle breeches parts, con le nostre belle gambe fasciate in pantaloni e non più nascoste sotto strati e strati di tessuto. Che ressa, in platea! Che calca! Fui una delle attrici che ebbe più successo. Ci misi poco ad attirare i favori del nobile Lord Buckhurst. Però, il mio amante più famoso fu sicuramente Sua Maestà, dal quale ebbi due figli, il primo dei quali, unico sopravvissuto, divenne addirittura un duca! Vestii la mia fama con profonda ironia, il mio ruolo sociale senza mai prendermi troppo sul serio. Un giorno ebbi la mia carrozza assediata da una folla inferocita che mi aveva scambiata per l’altra amante del re, una cattolica. Ci misi presto a farmi riconoscere: «Calma, ragazzi – gridai – sono la puttana protestante!». Io non fui né imperatrice né un’intellettuale e, nonostante questo, sono sempre andata fiera della mia vita, del mio essere riuscita a riscattarmi. Sono stata fedele a me stessa e alle mie origini plebee, non dimenticando mai da dove provenissi. Il mio nome? Ladies e gentlemen, ecco a voi Eleanore Nell Gwyn.
Io nacqui due volte. La prima, quando venni al mondo, da un padre laureato in scienze e da una madre amante di musica e poesia; la seconda, quando mi riconobbi come scrittrice. Fui la maestra di me stessa, non andai oltre le scuole elementari. Ma lessi, lessi tanto, tantissimo. Mangiai libri senza mai esserne sazia. A sedici anni mi sposai con l’uomo che mi aveva stuprata. Due anni dopo, nacque mio figlio. Due anni dopo ancora tentai il suicidio. Ciò che mi permise di uscire dal gorgo nero che mi stava divorando fu la letteratura. Iniziai con lo scrivere articoli e recensioni, e finii con il creare romanzi e raccolte di poesie. Di me posso dire di aver avuto un animo combattente, combattivo e combattuto. E in questa folle tempesta che è stata la mia vita, due cose mi hanno tenuta aggrappata alla sopravvivenza: l’impegno sociale e l’amore. Fui una femminista convinta, una comunista tesserata e una donna che sentiva il dovere di combattere per le altre donne. E fui un’amante, totale e totalizzante nei miei sentimenti. Amai molti uomini, per lo più artisti e letterati, tanto che il buon Prezzolini ebbe a definirmi «lavatoio sessuale della cultura italiana». Ma non me ne importò nulla. Fui sempre e solo padrona di me stessa. Pavese mi disse che, per vivere una vita degna, è necessario avere un mito in cui credere. Quel mito, oggi, posso dire di essere stata io, incarnazione – senza falsa retorica – dello spirito femminile, della donna artista. Scrissi tanto, soprattutto di e su di me, romanzandomi in prosa e in versi. Non mi fu perdonato di aver abbandonato mio figlio, di aver scelto la mia felicità di donna a discapito del mio essere madre. Anche nel romanzo che più mi rappresenta avrei dovuto cambiare il finale, portare con me la mia creatura per poi, magari, farmela strappare via dalle leggi del tempo. Così, almeno, non mi sarei macchiata di un tale peccato. E che importa se avrei falsificato la realtà! Che importa se, prima di essere genitore, io sono una donna che ha cercato, per tutta la propria esistenza, solo di essere felice. Sono fuggita da un matrimonio umiliante e abominevole, ho lottato, amato, sono caduta e mi sono rialzata. Soprattutto, però, ho creato: ho fatto nascere parole tanto potenti da riuscire ad ancorare il futuro. Il mio nome? Sibilla Aleramo. Sibilla Aleramo, donna.
Tante altre storie dovrei raccontare, tanti altri destini farvi conoscere, ma credo che adesso sia giunto il tempo di presentarmi. Un momento, però, aspettate che mi alzi. Il mio viso è ancora nascosto, ma il corpo no e potete vederlo chiaramente. È il corpo di mille corpi insieme, lacerato, ferito e bellissimo. È un corpo libero, di un cuore libero, di una mente libera. È il corpo di ogni donna fiera di ciò che è, nonostante tutto e nonostante tutti. Io sono ogni donna vento, ogni donna affrancata, spudorata, sconveniente, indecente, fuori luogo. Sono la donna che avete giudicato, quella che avete avvelenato, quella ancora che avete cacciato e abbandonato. Sono la puttana per scelta, quella per pregiudizio, quella per malelingue; sono la puttana per vocazione e quella per sottomissione. Sono la donna che sceglie di amare sé stessa e la vita, che non fugge davanti a ciò che è, ma che porta orgogliosa in alto la bandiera del proprio io. Volete sapere come mi chiamo? Beh, a ben vedere, il mio nome non è chiaro nemmeno a me. Però so una cosa: anni fa un poeta ha deciso di battezzarmi nel più dolce dei modi possibili ed è da allora che mi faccio chiamare così. Il mio nome? Bocca di Rosa.
Articolo di Sara Balzerano
Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.
Bellissimo, molto poetico!
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