Nonostante il titolo richiami le trame di fantascienza, nei quasi sessant’anni anni dell’era spaziale casi di ammutinamento sono realmente successi, il che non deve sorprendere più di tanto.
È opinione diffusa che gli uomini e le donne inviati nello spazio siano dei supereroi, con una salute di ferro, una tenuta psicologica a prova di bomba, insensibili a stress e a prove estreme. In realtà si tratta pur sempre di esseri umani che, come tutti, hanno i loro limiti, oltre i quali possono sviluppare comportamenti imprevedibili ma sempre verificati e documentati.
Il caso più noto riguarda l’equipaggio dell’Apollo-7 che nell’ottobre 1968 rimase in orbita 11 giorni. Era una missione cruciale: per la prima volta la nuovissima capsula Apollo veniva collaudata con equipaggio dopo il tragico incidente dell’Apollo-1 di 21 mesi prima (gennaio 1967) in cui erano bruciati vivi tre astronauti durante i collaudi a terra pre-lancio.
La Nasa era sotto pressione per raggiungere il traguardo che l’ex Presidente John Kennedy aveva indicato in un famoso discorso del 1961 in cui impegnava gli USA a «sbarcare un uomo sulla Luna e a riportarlo sulla Terra sano e salvo entro la fine del decennio non perché sia facile, ma perché è difficile» – e comunque prima che lo facessero i sovietici. Ora, quel tragico incidente aveva imposto una riprogettazione della capsula, causando per conseguenza dei ritardi.
L’Apollo-7 doveva dunque collaudare tutti i sistemi e le manovre principali nel corso di un programma di volo densissimo. La missione, un successone ampiamente sbandierato ai media e all’opinione pubblica statunitensi, diede finalmente luce verde al proseguimento del programma Apollo che avrebbe portato allo storico sbarco del luglio 1969.
L’America tirò un sospiro di sollievo e si sentì di nuovo in grado di battere i sovietici, fino ad allora rimasti sempre un passo avanti e forse – questo era il timore – impegnati segretamente in una corsa competitiva verso la loro prima missione lunare (sospetto confermato parecchi anni dopo, ma mai messo in pratica a causa di errori di progettazione e di alcuni incidenti).
Non era invece noto il tenore fisico dell’equipaggio: 15 ore dopo il lancio il comandante Walter Schirra, veterano di due missioni spaziali, iniziò a manifestare i sintomi di un brutto raffreddore, seguito ben presto dai due colleghi, Don F. Eisele e Walter Cunningham. Si seppe poi che Schirra aveva già sentito delle avvisaglie prima del lancio e, secondo le rigide regole della Nasa, avrebbe dovuto segnalarle, ma questo avrebbe certamente causato la sostituzione dell’equipaggio con quello di riserva.
Può sembrare un inconveniente non così importante, ma in gravità ridotta anche un banale raffreddore diventa una grossa complicazione perché il muco non è libero di fluire e rimane dove si forma, intasando completamente le vie respiratorie e costringendo a soffiarsi il naso di continuo.
Durante l’intera missione i tre astronauti dovettero combattere contro questo problema, che li rese di cattivo umore e poco disposti allo scambio di convenevoli: per esempio cercarono (inutilmente) di rimandare la prima diretta televisiva dallo spazio, infilata dai controllori di volo nella fittissima agenda dell’equipaggio. Schirra, raffreddato e oberato di impegni, avrebbe voluto spostarla alla fine dei test, per non rischiare di perdere la concentrazione, ma non riuscì a spuntarla su Houston.
A peggiorare le cose c’erano i pasti non proprio esaltanti, lo spazio ristretto e il sistema di smaltimento liquami con sacchetti “perfezionabili” che lasciavano fuoriuscire cattivo odore (un problema che, seppur migliorato nel tempo, tormenta da sempre le agenzie spaziali). In 11 giorni, i tre astronauti li utilizzarono in tutto solo 12 volte.
Fu comunque notevole che, malgrado tale situazione, tutti gli esperimenti e le manovre previsti venissero portati a termine.
Il vero e proprio ammutinamento arrivò in seguito, per la questione dei caschi. Molto prima della preparazione per le fasi di rientro, l’equipaggio cominciò a insistere sulla decisione di compiere l’atterraggio senza il casco, un nuovo modello privo di visore che tuttavia avrebbe impedito di soffiarsi il naso. Schirra temeva che, con le forze gravitazionali create durante il rientro in atmosfera, l’accumulo di muco potesse danneggiare i timpani degli astronauti. Il controllo di Terra si mostrò fortemente in disaccordo: se ci fosse stata una perdita di pressione durante il rientro gli astronauti sarebbero morti (come effettivamente avvenne tragicamente quattro anni più tardi alla capsula sovietica Soyuz-11, i cui tre membri dell’equipaggio non indossavano i caschi di sicurezza). In un vero e proprio tira e molla Schirra si impuntò ed ebbe la meglio: il rientro avvenne senza caschi e, fortunatamente, senza incidenti.
Agli occhi della Nasa questo costituì un ammutinamento e l’insubordinazione non passò inosservata, tanto che nessuno dei tre tornerà più nello spazio. Schirra aveva già annunciato il suo ritiro ma gli altri due erano al loro primo volo. Ali tarpate sul nascere!
Ma grazie a questi primi scontri (e a quelli successivi nelle missioni Skylab), la Nasa cominciò ad interrogarsi sugli aspetti psicologici delle missioni spaziali.
In questa vicenda è difficile separare le ragioni dai torti: il comandante Schirra, veterano dello spazio, avrebbe dovuto segnalare l’incipiente raffreddore che poteva contagiare i suoi compagni, come effettivamente avvenne, ma evidentemente non se la sentì di rinunciare alla sua ultima opportunità di volo. Dal canto suo la Nasa dimostrò scarsa attenzione per i suoi astronauti che considerava (e che ha a lungo considerato) come macchine sempre disponibili, senza discussioni.
Un altro ammutinamento, o meglio uno sciopero, avvenne durante la missione Skylab-4 del 1973-74, ultima spedizione del programma americano Skylab.
La Skylab, prima e ultima Stazione spaziale interamente statunitense, era formata dal terzo stadio del gigantesco razzo lunare Saturno-V. Dopo la fine prematura delle missioni lunari (le ultime tre vennero cancellate) la Nasa si ritrovava un surplus di razzi e navicelle e decise quindi di modificare il terzo stadio dell’ultimo razzo Saturno-V ancora disponibile trasformandolo in laboratorio orbitale adatto a lunghe permanenze nello spazio. Era un laboratorio veramente enorme, anche per gli standard odierni, con un volume abitabile di 320 m3, all’incirca come un appartamento di 100 m2.
Ma disgraziatamente durante il lancio la Stazione riportò seri danni che ne fecero temere la perdita.
I primi due equipaggi, Skylab-2 e 3, dovettero dedicare molto tempo alle estese riparazioni mirate a ripristinare le funzionalità del laboratorio, lasciando meno tempo del previsto per gli esperimenti scientifici. Lo Skylab-4 era quindi il primo equipaggio che avrebbe potuto dedicarsi interamente al programma di ricerca scientifica e par questo risultò parecchio sovraccaricato. I tre astronauti, Carr (il comandante), Pogue e Gibson, rimasero nello spazio 84 giorni, all’epoca un record assoluto.
I problemi si manifestarono subito: dopo l’aggancio in orbita con il laboratorio, l’equipaggio cominciò a soffrire di mal di spazio, fastidioso disturbo passeggero simile al mal di mare che colpisce in misura diversa quasi tutti gli astronauti durante i primi giorni in orbita. Pogue fu colto da vomito nel momento in cui lo Skylab si trovava fuori contatto radio con il centro di controllo. Nel timore che i medici dessero eccessivo peso a tale inconveniente, pronosticando ritardi sul piano di volo o addirittura l’interruzione della missione, Carr scelse di minimizzare e di riferire solo un lieve malessere di Pogue. Ma aveva fatto i conti senza l’oste: non aveva considerato che tutti gli scambi verbali effettuati a bordo della Stazione venivano registrati e ritrasmessi a Terra con qualche ora di ritardo. Così il giorno successivo la direzione di volo apprese dell’accaduto e non mancarono aspri rimproveri a Carr per l’omissione dei fatti. Tanto bastò per minare la reciproca fiducia.
Fu solo l’inizio dei pessimi rapporti tra l’equipaggio e la direzione di volo. Il fittissimo programma di lavoro da eseguire durante la giornata consentiva pochi attimi di tregua. Inoltre i tempi previsti per le singole operazioni si dimostrarono presto poco realistici. Capitò di dover montare degli esperimenti scientifici mai visti prima, in un ritmo fuori misura. Le “parti” non discussero mai apertamente i problemi per trovare soluzioni condivise e, in un crescendo di tensioni, gli astronauti decisero infine di scioperare spegnendo le comunicazioni radio e prendendosi una giornata libera nel piano di volo, ovviamente non concordata. Solo dopo questo sciopero i rapporti iniziarono a migliorare.
Tale fatto risulta poco documentato o parzialmente omesso nella documentazione ufficiale della Nasa e il risultato fu che, al solito, nessuno degli astronauti poté più tornare nello spazio.
Tre erano le cause principali dei conflitti. Innanzitutto c’era l’enorme onere di incombenze, stesso errore commesso con l’Apollo-7. È vero che la giornata di lavoro aveva la stessa durata che nelle precedenti missioni, ma qui si trattava di rendere al massimo non per uno o due mesi come per gli Skylab-2 e 3, bensì per quasi tre mesi, mentre fatica e stress aumentavano con il passare dei giorni.
In secondo luogo pesò il venir meno della fiducia tra il centro di controllo e l’equipaggio, a causa del taciuto malessere iniziale dell’astronauta Pogue. I responsabili a Terra infatti furono scettici per tutta la durata della missione ed ebbero costantemente dubbi che ulteriori fatti intervenuti a bordo non venissero comunicati.
La terza difficoltà sorse dalle ripetute carenze di tipo tecnico. Con il passare del tempo nella Stazione si verificarono vari malfunzionamenti e questo finì per creare malcontento, se non addirittura rabbia, che si scaricava durante i colloqui con la base.
In queste prime missioni di lunga durata emerse chiaramente l’importanza dei risvolti psicologici, maggiore forse degli aspetti tecnici e fisiologici. Vivere in ambienti chiusi, angusti, in isolamento per lunghi periodi, richiedeva un affiatamento perfetto, doti di resistenza non comuni e capacità di gestire i conflitti. Fu così che la Nasa si trovò di fronte alla necessità di coinvolgere gli equipaggi nelle scelte e di calibrare meglio i carichi di lavoro.

Un altro caso di ammutinamento “ufficioso” vide protagonista il cosmonauta russo Vasily Tsibliyev, veterano di missioni spaziali di lunga durata, che nel 1997, al comando della Stazione spaziale russa Mir, si rifiutò di compiere (rischiosi) interventi di riparazione alla Stazione dopo l’impatto contro una navicella di rifornimenti Progress. La Mir ne aveva riportato danni ingenti, fino a rischiare la totale e fatale depressurizzazione.
Ma mentre la Roscosmos (la Nasa russa) indicò come motivo di tale rifiuto un’aritmia cardiaca, gli esperti della Nasa, presenti a Mosca per seguire da vicino la missione a cui partecipava anche un loro astronauta, parlarono sottobanco di ammutinamento: secondo loro, la malattia che aveva messo ko il comandante della Mir era solo una parziale verità. Tsibliyev aveva effettivamente avuto episodi di aritmia cardiaca ma si disse che in realtà il comandante era sotto shock per la catena di incidenti che aveva colpito la Stazione spaziale negli ultimi mesi: prima un incendio scoppiato a bordo, poi il succitato scontro in orbita causato da un errore di manovra durante il collaudo di nuovi sistemi di aggancio. I media russi e lo stesso Presidente Putin incolparono pubblicamente l’equipaggio, e in particolare Tsibliyev. Al suo rientro a Terra il comandante si difese indicando come causa degli incidenti la mancanza di supporto da Terra e l’assoluta inadeguatezza dell’intera organizzazione spaziale russa, che negli anni Novanta, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, stava effettivamente toccando il fondo a causa dei pesanti tagli ai finanziamenti e della riduzione di personale.
Secondo gli americani quando Tsibliyev rifiutò d’impegnarsi nelle operazioni di ripristino del modulo danneggiato adducendo problemi di salute, stava solo cercando di evitare i rischi e i problemi di un lungo, difficile e complicato lavoro di riparazione in un clima di sfiducia generale. Toccò a equipaggi successivi eseguire le operazioni essenziali per salvare la Stazione e riportarla al 70% della potenza elettrica; ma ormai il destino della Mir era segnato e venne dismessa tre anni dopo, quando era già iniziata la costruzione della Stazione Spaziale Internazionale, tuttora in orbita.
Tsibliyev non tornerà più nello spazio.

Questi casi dimostrarono inequivocabilmente che l’essere umano rimane altamente imprevedibile quando è sottoposto a situazioni di forte stress, anche tra i soggetti più selezionati e controllati.
Le agenzie spaziali impararono ben presto che la pianificazione perfetta delle missioni era una pia illusione. La presenza dell’uomo era e rimane indispensabile per effettuare serie ricerche scientifiche grazie alla flessibilità e all’intuito di una mente addestrata, ma l’imponderabile fattore umano imponeva un salto di qualità.
L’addestramento degli astronauti si è fatto quindi via via più complesso nei decenni, allentando da un lato i severi requisiti fisiologici – oggigiorno per diventare astronauti “basta” quella che definiremmo una sana e robusta costituzione, non occorre essere supermen e superwomen – ma includendo anche periodi di isolamento totale in grotte, in laboratori subacquei o in Antartide e migliorando la profilazione psicologica.
È sempre più evidente che la “conquista dello spazio”, sogno della generazione che negli anni Sessanta assistette allo sbarco sulla Luna, resta ancora ampiamente fuori portata: man mano che il livello e la durata delle missioni spaziali si alza, i problemi legati alla salute psicofisica degli astronauti aumentano di pari passo.
Una eventuale missione umana verso Marte fra andata e ritorno, con la tecnologia attuale, durerebbe come minimo 21 mesi e siamo ancora ben lontani dal padroneggiarne tutte le conseguenze sanitarie: solo per citare le più importanti, l’assenza di peso (che crea atrofismo muscolare, cuore compreso), la conseguente debolezza ossea (una volta arrivati sul pianeta rosso gli astronauti potrebbero non essere letteralmente in grado di camminare), problemi alla vista (quasi tutti sperimentano turbe visive anche molto dopo la missione, causa l’aumentare della pressione dei fluidi intracranici e oculari), l’esposizione alle radiazioni nello spazio interplanetario (più forti di quelle in orbita terrestre e capaci di innescare mutazioni genetiche e tumori). Per non parlare della necessità di una sala operatoria e di un ambiente di degenza in caso di incidente o di malattia.
Ma mentre su questi fattori si stanno almeno studiando o ipotizzando soluzioni, sugli aspetti psicologici siamo pressoché all’anno zero.
A cominciare dall’attività sessuale: sebbene ufficialmente non sia autorizzata durante le missioni, non si può affatto escludere che degli esperimenti siano stati ufficiosamente condotti, né che qualche astronauta abbia compiuto di nascosto qualche atto sessuale, visto che a bordo della Stazione Spaziale Internazionale le cuccette, per quanto minuscole, consentono un minimo di privacy e che le missioni durano in media sei mesi. A questo proposito varie voci e fakenews si sono diffuse negli anni, soprattutto tramite i media a caccia di notizie pruriginose, ma nessuna agenzia spaziale ha mai fatto ammissioni in tal senso.
Da segnalare che, ad oggi, solo una volta marito e moglie hanno volato insieme nello spazio: Nancy Jan Davis e Mark Lee, missione STS-47 del settembre 1992, si erano sposati di nascosto durante l’addestramento e quando la Nasa ne venne a conoscenza era ormai troppo tardi per cambiare l’equipaggio. Non è dato a sapere se la coppia ebbe qualche attività sessuale in orbita. Comunque i due divorziarono nel 1998.
È ovvio che più le missioni si allungheranno, più il problema diventerà importante. Compiere atti sessuali a gravità zero obbligherebbe sicuramente a comportamenti e movimenti molto diversi da quelli “terrestri” e delle sperimentazioni dovrebbero essere pianificate. Inoltre l’attività sessuale di coppia in un viaggio spaziale di lunga o lunghissima durata potrebbe diventare un’arma a doppio taglio: probabilmente migliorerebbe la salute psicofisica degli interessati ma potrebbe suscitare gravi tensioni con il resto dell’equipaggio.
Altro punto fondamentale sarà la qualità del cibo, che non potrà più essere trascurata. Un cibo gustoso e soddisfacente impatta moltissimo sull’umore dei “naviganti” come avviene a bordo delle navi, altra situazione in cui esseri umani vivono a stretto contatto in spazi angusti, per lungo tempo, e dove il cuoco e la qualità della sua cucina rivestono un ruolo primario.
Ai casi di ammutinamento qui riferiti, che probabilmente non sono i soli, si aggiungono altri misfatti clamorosi, commessi da astronauti e astronaute sia a Terra che in orbita, tra cui tentato omicidio, rapimento, stalking e violazione dolosa della privacy, sfociati in denunce, arresti e processi. Ma tutto ciò sarà argomento di una prossima puntata.
In copertina. L’equipaggio dell’Apollo-7. Da sinistra: Eisele, Schirra, Cunningham (Nasa credit).
Articolo di Ovidio Scarpulla
Dedito all’astronomia, con passione per le letture scientifiche e per la matematica, osservando i tristi riti in atto sulla Terra, mi rivolgo con speranza allo studio del più ampio Universo. I miei miti sono le grandi menti che, nel rispetto dell’ambiente e degli esseri umani, hanno aperto nuove vie, oltrepassando le barriere preconcette.