Il 24 ottobre di quest’anno, tutti/e noi siamo rimasti/e sbalorditi alla notizia dei 39 migranti orientali (31 uomini e 8 donne, quasi tutti cinesi) trovati senza vita nel rimorchio refrigerato di un camion a Grays, a est di Londra. Si stima che quelle povere persone fossero intrappolate nel container, a -25°C, da almeno dieci ore e che, se non le avesse uccise il freddo, l’ossigeno rimasto all’interno della cella sarebbe stato comunque insufficiente a permetterne la sopravvivenza.
«Mi dispiace, mamma. Il mio viaggio all’estero non è andato bene. Ti amo così tanto! Sto morendo perché non posso respirare» sono le ultime parole scritte, in un disperato sms, dalla giovane ventiseienne vietnamita Pham Thi Trà My, la sera prima di morire.
Ciò che resta, di queste immense tragedie umane, è il segno di una ingiusta sconfitta, la consapevolezza che il coraggio, a volte, non basta, il vuoto lasciato dalle speranze infrante, dai legami recisi, soprattutto quelli familiari. Penso alla foto di Alan Kurdi, il bimbo siriano riverso sulla spiaggia turca, o a quella della bimba messicana, annegata col padre che la teneva stretta nella maglietta, nelle acque del Rio Grande. Persino chi vede nello straniero un pericolo e nei viaggi improbabili di chi fugge dalla guerra o dalla dittatura una follia ingiustificata non può non ritrovare anche in sé stesso il senso profondo di quei legami tra figlie e madri, tra figli e padri, che spesso le cronache sui migranti riportano.
Da qualsiasi parte del mondo veniamo, siamo attraversati dalle stesse emozioni, tutti appartenenti a una umanità che cerca nelle relazioni profonde il proprio riconoscimento, la propria identità. Non a caso, è da un fatto di cronaca molto simile a quelli fin qui descritti che nasce la volontà, da parte dell’Onu, di proclamare una Giornata internazionale per i diritti dei migranti, ufficialmente dichiarata nell’anno 2000. Nel 1972, infatti, un camion che avrebbe dovuto trasportare macchine da cucire ebbe un incidente nel tunnel del Monte Bianco. Nascosti nel retro vi erano ventotto lavoratori del Mali, che da giorni viaggiavano diretti in Francia, nella speranza di trovarvi migliori condizioni di vita. Nell’incidente del tunnel morirono tutti.
La risonanza che questa notizia ebbe in tutto il mondo spinse l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a istituire nel 1979 un gruppo di lavoro con il compito di redigere una Convenzione per la protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e delle loro famiglie, documento che vide la luce il 18 dicembre 1990. A oggi, purtroppo, la Convenzione annovera solo 47 ratifiche, la quasi totalità delle quali da parte di Paesi di provenienza dei flussi migratori. Tale documento riconosce la specifica situazione di vulnerabilità dei lavoratori e delle lavoratrici migranti, promuove condizioni di lavoro e di vita dignitose e fornisce una guida per l’elaborazione di politiche nazionali in materia di migrazione basate sul rispetto dei diritti umani.
L’Italia, così come il resto dei Paesi europei, non è tra i firmatari. La cosa, anche se può farci rammaricare, non stupisce più di tanto. Nel nostro Paese, comunque la si pensi, il tema dei migranti è da molto tempo una triste costante e, malgrado l’importanza della questione, i toni del dibattito politico non sono mai – né lo sono stati in passato – sereni o costruttivi. Sui migranti si giocano partite ideologiche, si sciorinano slogan ad effetto capaci di convincere un certo elettorato, si propongono soluzioni drastiche, spesso palesemente anticostituzionali o in aperta violazione del diritto internazionale. Eppure, al di là delle soluzioni temporanee trovate, pronte a crollare al primo cambio di governo, e oltre ai numerosi pasticci normativi, c’è qualcuno che è stato in grado, negli anni, di costruire realtà di accoglienza e integrazione non soltanto sostenibili, ma addirittura ammirevoli per creatività, trasparenza, capacità di coinvolgimento, risultati. Questa è l’Italia che amo e che mi piace raccontare. Proprio di recente, ho avuto la grande fortuna di poter ascoltare, durante un Convegno nazionale sul tema del Welfare di Comunità, organizzato a Lodi (altro territorio nel quale il privato sociale sta cercando di attuare interessanti realtà di inclusione per gli stranieri), il racconto di una magnifica esperienza di micro accoglienza diffusa, direttamente narrato dal Sindaco di Malegno Paolo Erba, classe 1978. Malegno è un comune della Valle Camonica, di circa duemila abitanti, a 364 metri di altitudine e benché uno dei soprannomi dei suoi abitanti sia cràpe de légn (teste di legno), i cittadini di questo bel borgo collocato sulla riva destra del fiume Oglio, posti di fronte all’emergenza accoglienza, si sono inventati una soluzione estremamente intelligente e creativa per gestire la questione. Le fondamenta vengono gettate nell’anno 2000, quando nasce la Commissione “Pace, diritti, intercultura”, che promuove sul territorio progetti di integrazione basati sulla creazione di momenti di socialità quali feste, concerti, pranzi, spettacoli. Il progetto vero e proprio nasce nel 2011 e si basa sul sistema di accoglienza straordinaria (quello dei famosi c.a.s.), creato per gestire la cosiddetta “emergenza nord Africa”. L’allora sindaco di Malegno, Ales Domenighini, coinvolge la cooperativa K-Pax in una idea che parte da una ipotesi che potremmo definire socio-psicologica: la gente di montagna è, per natura, diffidente, ma, vivendo in un territorio disagevole e a volte difficile, ha nel proprio dna una certa naturale tendenza ad intervenire in aiuto di chi si trova in difficoltà. Con la prima ondata di migranti dal Maghreb, dall’Albania, dalla Romania e dal Senegal, il rischio concretissimo, peraltro realmente visto in numerose realtà di montagna, è di trovarsi con una quarantina di ragazzoni assiepati in un albergo camuno per un tempo sufficiente a terrorizzare la quasi totalità della popolazione, in gran parte costituita da vedove ultrasettantenni nate e cresciute in Valle Camonica. Ora, non so a voi, ma a me l’immagine della vecchietta barricata nella stalla perché ha paura degli invasori neri che le hanno riempito il paesino ispira moltissima solidarietà. Comprendo la sua paura e forse la condivido. Cosa succede, invece, se gli stessi migranti vengono distribuiti in quaranta paesi della Valle, in case altrimenti sfitte o abbandonate, con una incidenza numerica minima sulla popolazione locale? Intanto che non si crea il panico da invasione, con un vantaggio evidente sulla gestione dell’ordine pubblico e di eventuali malumori. La proposta di una soluzione alternativa consente inoltre ai comuni di contrattare con la Prefettura un accordo tale per cui, se il progetto funziona, non ci saranno ulteriori invii destinati a strutture alberghiere. Gli altri aspetti positivi sono legati al fatto che si tratti di un modello di facile gestione da parte delle amministrazioni locali e che sia economicamente vantaggioso, perché consente di trattenere sul territorio camuno il 90% dei 35 euro giornalieri previsti per ciascun richiedente asilo; in ultimo, tale gestione dei migranti crea opportunità di lavoro, poiché per ogni cinque richiedenti è possibile ricavare un posto part-time per un giovane locale. Il sindaco Erba sottolinea con una certa soddisfazione quest’ultimo aspetto, che forse gli sta particolarmente a cuore, essendo egli stesso uno dei pochi laureati in Scienze dell’educazione che non ha dovuto abbandonare le montagne per collocarsi professionalmente. Il progetto di micro accoglienza diffuso arriva ad accogliere 150 richiedenti asilo, grazie ad accordi che coinvolgono la Prefettura, i comuni, la Comunità montana, il Terzo settore e il privato sociale. La forza del progetto sta nella sua semplicità; per attuarlo sono sufficienti due cose: mettere a disposizione soluzioni abitative (anche private) in grado di accogliere queste persone e attivare una rete sul territorio (parrocchie, associazioni, realtà del terzo settore, cittadini/e volontari/e ecc). Ai migranti accolti vengono proposti lavori e formazione; alcuni puliscono le strade, altri coltivano patate biologiche (che i consumatori definiscono ottime: provare per credere!), imparano a cucire e tutti seguono i corsi di alfabetizzazione.
Ora, come in tutte le fiabe che si rispettino, arriva sempre il momento della sfida col drago. In questo caso il Decreto sicurezza che nel 2018, con la riduzione dei c.a.s. e delle competenze specifiche, ha gettato un’ombra sinistra sulla possibilità che esempi positivi di accoglienza e integrazione come questo possano continuare a costituire risposte concrete e funzionali alla gestione dei flussi migratori. Staremo a vedere. Ciò che a me resta, di tutta questa storia, sono soprattutto gli occhi del sindaco Paolo, pieni di quella forte spontaneità di chi sa di essere sulla strada giusta. Così mi sembra che guardino anche gli occhi di Liliana Segre, Vandana Shiva o Gino Strada, per fare solo alcuni esempi: tutte persone che cercano soluzioni per i problemi dell’umanità e fanno proprie le difficoltà dell’altro.
Io, per non sbagliare, il 18 dicembre un giretto a Malegno magari me lo faccio. A respirare l’aria buona, dico. L’aria dell’accoglienza e della convivenza possibile.
Articolo di Chiara Baldini
Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.