Una donna liquida con un’esistenza liquida dettata da una coscienza liquida. Una donna che rifugge le normalizzazioni, per educazione, per scelta e per professione. Il viaggio come mestiere e la complessità dell’esistenza come unità di misura.
Questa è stata e questa è Margaret Mead. Una tregua – oggi, soprattutto oggi – dall’atmosfera asfittica che rende cianotici animi e cervelli. Una tregua, come un sentiero soleggiato incontrato dopo il tempo costretto in strade cavernose e polverose. Una tregua, pur nella continua mobilità di andare, venire, scoprire e divenire; in confini varcati, attraversati e vissuti quasi come vento e brezza, che arriva, tocca, conosce e se ne va.
Margaret Mead è stata ragazza di more, donna d’inverno e studiosa di profonde innovazioni, vestita sempre di complessità e relativismo, il cui camminare nella vita – propria e degli altri – ha permesso il tracciare di strade inesplorate ma accessibili a chiunque: perché la tregua che ella oggi rappresenta inizia con uno strappo profondo alla sua contemporaneità.
È stata novità e avamposto: allieva di Boas, che già innovò profondamente la disciplina antropologica, lei stessa ha dato il via a un approccio completamente inedito, sviluppando una propria teoria sul relativismo culturale, sorprendendo, scandalizzando e – soprattutto – insegnando a molti/e. Perché Mead crede per prima cosa nella cultura, non solo quella antropologica, e nel dovere che essa ha di essere per tutti, il più possibile. E crede anche nell’essere donna, lei, che donna lo è con disinvoltura, allontanando ogni peso che la società avrebbe voluto imporle.
Nasce il 16 dicembre 1901 a Philadelphia in una famiglia mobile, che alla mobilità da subito la abitua e la istruisce, dove viaggio e trasloco diventano sinonimo di casa. La madre, che negli innumerevoli spostamenti permette ai quattro figli di portare con loro gli oggetti cui sono maggiormente affezionati, le fa conoscere una dinamicità che è anche e soprattutto sociale. Ci crede fortemente, la mamma di Margaret Mead, nella necessità di una maggiore giustizia ed equità – in particolare per le donne – ed è con un’intensa rabbia che si batte, affinché per queste non ci debba essere una scelta obbligata da fare tra la carriera e la famiglia: lei stessa ha dovuto faticare, non poco, nel portare avanti, parallelamente, il suo ruolo di madre e quello di sociologa. Chi, nella famiglia, non ha avuto tali problemi è stata invece la nonna paterna, altra figura fondamentale per l’istruzione, la crescita e la formazione di Margaret Mead. Descritta come «completamente aliena da proteste mascoline o da afflizioni femministe», forse perché facilitata dall’aver avuto un solo figlio, è stata una donna profondamente intelligente e preparata, la migliore insegnante che Margaret abbia avuto; era indifferente alle classi sociali, proveniente da una famiglia di nobili origini ma che, al proprio interno, poteva orgogliosamente annoverare dei veri e propri incapaci. Queste due donne mostrarono una cosa che parrebbe palese ma che – ancora oggi – si prova a negare con vergognosa disinvoltura: il cervello si addice alla donna quanto all’uomo e l’intelligenza non ha sesso.
Tutta l’esistenza di Mead è vissuta lungo confini attraversati e attraversati ancora, sempre sulla linea di demarcazione, a camminare sul filo.
E sul filo cammina durante la scuola, frequentata a momenti alterni, sostituita – al bisogno – dalle lezioni della nonna, ma sempre ritenuta fondamentale e metro di giudizio sulla validità o meno di un determinato luogo; e questa mancanza, in qualche maniera, dello scheletro scolastico ha fatto sì che Margaret Mead potesse crescere con una personalità libera, non irrigidita da alcun contenitore istituzionale. Insegnamento e apprendimento sono affiancati: in ciascun luogo in cui la famiglia si trasferisse, venivano trovate lezioni da seguire, d’intaglio, di pittura, di disegno, di modellatura della creta o di fabbricazione di cestini, di musica, di falegnameria. Non era importante cosa s’imparasse purché chi insegnasse fosse altamente qualificato.
Sul filo, ancora, cammina all’università, dove, nell’iniziale esperienza al DePauw college, si trova a dover denunciare il sistema delle sorority: lei, che nasce in una condizione sociale ed economica privilegiata ma che ha comunque un’attenzione verso le ingiustizie profonde del mondo e verso chi le subisce, è sottoposta a un vero e proprio ostracismo; si trova cioè, contemporaneamente, a vivere da respinta, pur potendosi permettere di stare dalla parte di chi respinge.
Sempre sul filo, sempre all’università, al Barnard College di New York, dove forma con le sue compagne – tra cui la poeta Léonie Adams – un gruppo basato sul rispetto delle diversità, cosa – questa – che fa guadagnare alle ragazze epiteti tutt’altro che lusinghieri, ma che loro, con profonda intelligenza, adottano come propri appellativi: comuniste stupide, caos mentale e morale e, il preferito, i gatti della pattumiera.
Sul filo, soprattutto, durante i suoi viaggi di ricerca a Samoa, Nuova Guinea, Bali, dove, da studiosa occidentale si trova a vivere a contatto strettissimo con gli abitanti del luogo: perché la nuova antropologia fa proprio questo – da Malinowski a Boas – un’indagine sul campo, un’osservazione partecipante, e Mead ne è pioniera, pur mantenendo una distanza necessaria a guardare tutto con gli occhi distaccati della scienziata.
E sul filo, in un pericoloso equilibrio, cammina quando il suo ruolo di divulgatrice la porta a scrivere libri e a tenere conferenze in Europa e negli Stati Uniti: ella mette in contatto lo ieratico mondo accademico con il grande pubblico, rifuggendo il lessico specifico e utilizzando uno stile che riesca a essere il più chiaro e semplice possibile, scrivendo libri di grande impatto. E che non si confonda la semplificazione con la banalizzazione. Possiamo citare almeno: L’adolescente in una società primitiva (1928), Maschio e femmina (1949), Popoli e paesi (1959).
Margaret Mead crede potentemente nell’intelligenza di chi legge, a cui si rivolge parlando dei propri studi. È un alzare l’asticella, il suo, mantenendo però un rispetto profondo e – soprattutto – una grande fiducia, che ella dà, prima di chiedere.
Perché i risultati cui arriva sono fortemente innovativi: non esistono valori, pratiche e rapporti che possano definirsi assoluti, divini o immutabili. Il relativismo esiste, è pregnante anche e soprattutto nell’ambito culturale, ed è quest’ultimo, non di certo la biologia, a formare e plasmare un individuo. Dunque, se l’adolescenza nel lato occidentale del mondo è un periodo di profonda crisi, di malessere e incerto adattamento, non così essa viene vissuta altrove, dove – invece – la mancanza di opprimenti tabù e pesanti regole sociali rende questa fase della vita agevole e lineare con il resto dell’esistenza umana.
Dunque, ancora, le donne devono essere determinate non dalla loro natura né dalla loro capacità riproduttrice: esse non hanno un destino innato, bensì la capacità, il diritto e la cultura per potersi modellare, seguendo la via che ritengono più consona, adatta, giusta.
Questo ribaltamento della visione evoluzionistica va con evidenza a inserirsi nel filone degli studi di genere o women’s studies e, con essi, va a rovesciare quelli che per secoli sono stati ritenuti dei “dati di fatto”. Non esiste una civiltà, o un genere, che sia superiore all’altro, né esiste una cultura che debba ritenersi foriera di verità. Esistono piuttosto tante culture diverse tra loro, tante realtà, ciascuna delle quali può insegnare e dare qualcosa, può cioè fornire la corretta prospettiva per capire le altre, affinarle e – magari – cucirle in maniera più comoda ed equa. È come la neve che, posandosi sulle bacche dei rovi, permette poi alle more di nascere; è un cercare la giusta rotta e la giusta brezza verso cui orientare le proprie vele, sapendo che non esiste – né una rotta né una brezza – che sia assoluta; è la forza di voler cancellare le linee di demarcazione che rendono straniero il diverso, il diverso nemico, il nemico qualcuno da combattere o sbeffeggiare.
Con i suoi studi, ella non spiega cosa o chi vedere: fornisce piuttosto delle lenti che permettano di osservare, con un diverso come, ciò che siamo, ciò che ci riguarda, ciò che da noi è distante e ignorato.
La spinta che dà all’immobilità opprimente del proprio tempo è straordinaria, soprattutto se si pensa che il suo periodo di attività è contemporaneo all’ascesa al potere di Hitler in Germania e di Mussolini in Italia e di poco successivo alla lunga e pressoché stagnante epoca vittoriana. E oggi, essa è ancora – mestamente – più incredibile.
Margaret Mead è stata un’antropologa; Margaret Mead è stata una donna; Margaret Mead è stata, da antropologa e da donna, prima, controversa, esploratrice, distante e aliena da qualsiasi tipo di categorizzazione.
Anche e soprattutto per questo, definire lei e tutto il suo lavoro è impresa non facile e – in qualche modo – anche innaturale. È stata figlia del cambiamento e madre dello stesso, artigiana di cera malleabile in un mondo di plasticità rigida e assoluta.
E forse definire non è ciò che si deve fare.
Piuttosto, si provi a proseguire sulla sua strada, osservando e attraversando, rompendo linee e piedistalli, salvando e salvandoci tendendo mani, occhi e intelligenza a ciò che gli altri e le altre sono e possono essere: a ben vedere – chissà – la parte migliore di noi.
Articolo di Sara Balzerano
Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.