Gli anni spezzati: la morte di Roberto Franceschi per mano dello Stato

Chi si trova a passare davanti all’Università Bocconi di Milano può contemplare Il Maglio, opera collettiva, alta sette metri, del peso di cinquanta tonnellate, realizzata, dopo lunga elaborazione, sotto la supervisione di Enzo Mari da un gruppo di quaranta artisti nel 1977. Dal 23 gennaio 2013 quest’opera, restaurata e proclamata monumento cittadino per Roberto Franceschi dal sindaco Giuliano Pisapia, è posta di fronte al luogo dove lo studente milanese fu ucciso lo stesso giorno del 1973 dalle Forze dell’ordine. Tra i sostenitori dell’appello alla realizzazione di “Il Maglio” troviamo Padri Costituenti come Pertini, Terracini e Basso e personalità di spicco della vita culturale milanese di allora come David Maria Turoldo.

FOTO 1. Il maglio
Il Maglio

Negli anni Settanta “socialismo” era ancora una bellissima parola, che faceva pensare al perseguimento della giustizia sociale e al sogno della liberazione di tutti gli esseri umani dallo sfruttamento e dalla povertà. Di questo sogno si era innamorato Roberto Franceschi e la sua vita, spezzata da una delle morti più ingiuste del periodo successivo alle mobilitazioni del 1968, merita di essere raccontata.
Roberto Franceschi era un leader del movimento studentesco e aveva respirato aria di libertà in famiglia, dal padre, democratico e antifascista, costretto a fuggire all’estero all’avvento del regime mussoliniano e dalla madre, Lydia, insegnante di matematica che poi divenne preside. Era stato proprio Roberto a consigliarle di intraprendere quella carriera, come lei stessa ricorda in un libro. «Come preside –, mi diceva, – puoi più facilmente sviluppare una politica scolastica a favore dei giovani, specie per quelli in difficoltà, che generalmente abbandonano la scuola senza avere conseguito un titolo di studio, oggi indispensabile per inserirsi nel mondo del lavoro. Inoltre puoi far rispettare più facilmente certi principi costituzionali che stanno alla base del nostro vivere civile».
Lydia Franceschi, anche grazie all’incoraggiamento di Roberto, divenne una preside a difesa della legalità ed io ebbi il privilegio di conoscerla in uno dei primi corsi di aggiornamento sulla Costituzione a cui presi parte all’inizio del mio percorso di docente. Ne percepii immediatamente la carica vitale e l’energia positiva e contagiosa.
Franceschi era uno studente brillante e appassionato, curioso e pieno di voglia di vivere. Prima di iscriversi alla Facoltà di Economia politica alla Bocconi aveva frequentato il liceo Scientifico, in Sicilia, dove la famiglia si era trasferita, e poi il “Vittorio Veneto “di Milano. Tra i tanti allievi era stato scelto come rappresentante della scuola in un viaggio, organizzato con il Ministero che allora, per fortuna, si chiamava ancora della Pubblica Istruzione, per un gruppo di studenti italiani in Germania su invito delle autorità scolastiche di Bonn, dove era stato ospite della famiglia del giudice Hans Stössel, Presidente del Tribunale Regionale di Wurzburg.
Da sempre interessato alle questioni sociali e politiche, durante le manifestazioni seguite al movimento del ’68 si era distinto per la difesa della cultura e per il contrasto alla via facile agli studi, che pure serpeggiava all’interno del Movimento.

FOTO 2.1972_Roberto Franceschi (al centro) in manifestazione a Parigi per il Vietnam (1972)
Roberto Franceschi (al centro) in manifestazione a Parigi per il Vietnam (1972)

Era studioso, serio, come lo ricorda una sua docente, Meris Antomelli, del Liceo in cui Roberto si diplomò a pieni voti: «Roberto aveva con la cultura un rapporto intenso, sorretto dalla convinzione che fosse indispensabile a sé, e alla causa di democrazia e giustizia che aveva scelto. Verso i compagni di classe, sui quali aveva un indubbio ascendente, non si atteggiava, per temperamento e convinzione, a leader. Era un ragazzo fermo nei suoi propositi, intelligente e esigente. Ma anche un ragazzo cordiale, allegro e sereno: un ragazzo molto stimato, ma anche molto amato». Franceschi si era battuto per garantire l’accesso all’Università degli/delle studenti che non avevano frequentato i Licei. Tra le sue tante battaglie mi piace ricordare la contestazione all’esame di analisi matematica: richiese che fossero attivati i corsi propedeutici all’esame per consentire agli studenti senza la preparazione adeguata di sostenere seriamente l’esame. Se ci pensiamo bene, questo è proprio ciò che ci richiede la Costituzione, quando ci spinge ad impegnarci, nei luoghi in cui ci troviamo a vivere e operare, a rimuovere gli ostacoli che impediscono “il pieno sviluppo della persona umana”. Quanto di questo sguardo potrebbe servire oggi a una scuola e a un’Università popolate da persone provenienti da diverse parti del mondo!
La sera del 23 gennaio 1973, a Milano, all’Università Bocconi, era in programma la prosecuzione di un’assemblea del Movimento Studentesco, la cui richiesta porta la firma di Franceschi. Assemblee di quel tipo, non più possibili nelle altre Università milanesi, erano state fino ad allora autorizzate senza difficoltà e non avevano mai provocato incidenti. Quella volta però il Rettore dell’Università ordinò che vi potessero partecipare solo studenti con il libretto universitario di riconoscimento. Quando ragazzi e ragazze arrivarono in Bocconi trovarono solo personale amministrativo che impediva l’ingresso agli studenti di altre università e agli studenti lavoratori. Schierati davanti a loro c’erano quasi cento uomini della terza celere. Ci fu un conflitto di pochi secondi, gli studenti cercarono inutilmente di spiegare le loro ragioni ma ad un certo punto furono costretti a scappare dalla carica della polizia che si mise a sparare ad altezza d’uomo e colpì Roberto Franceschi alla nuca e l’operaio Roberto Piacentini alla schiena. I celerini non spararono a salve né in aria e non impiegarono lacrimogeni. Usarono consapevolmente colpi di pistola. Roberto Franceschi, soccorso dagli amici, perse conoscenza e fu ricoverato in rianimazione al Padiglione Beretta. Si spense il 30 gennaio senza mai più riprendere conoscenza.
“L’Avvenire” ricorda il giorno dei suoi funerali, caratterizzati da un silenzio insolito per Milano, con le saracinesche abbassate. La salma di Roberto era stata vegliata nella sua amata Università da amici, parenti, compagni e compagne di scuola. Il feretro fu portato fuori dall’ateneo, da sei giovani, tra due file di bandiere rosse, senza simboli di partito. Erano accorsi in tanti, donne, giovani, lavoratori, sindacalisti, autorità. L’allora Presidente della Camera dei deputati, Sandro Pertini, aveva inviato una corona. In piazza S. Stefano, poco lontano dall’Università Statale, uno studente ricordò l’impegno politico di Roberto Franceschi, «un esempio per tutti coloro che lottano per la democrazia e per il socialismo». Gli studenti intonarono sommessamente l’Internazionale e salutarono con il pugno chiuso il passaggio della bara.

FOTO 3. Corteo funebre. 3 febbraio 1973. Foto di Carla Cerati
Il corteo funebre. Foto di Carla Cerati

I funerali proseguirono in forma privata e la salma di Franceschi fu sepolta a Dorga, in provincia di Bergamo, dove Roberto trascorreva spesso le estati.
Lydia Franceschi racconta in un’intervista che, subito dopo la morte di Roberto, ci fu la fila dei politici ad offrirle una poltrona, cosa non insolita, purtroppo, in Italia. Pur dichiarandosi di sinistra, disse no ad ogni proposta, da vero spirito libero qual era. Non voleva che la morte del figlio fosse strumentalizzata. La sua battaglia, insieme a quella del marito e della figlia Cristina, fu per la ricerca della verità attraverso la Magistratura, secondo la via indicata da quella Costituzione che insieme ai figli e al marito amava ed ama sopra ogni cosa, percependone la forte carica rivoluzionaria. Non poteva non credere nello Stato di diritto, in quello Stato, cioè, soggetto esso stesso alla legge e in quella legalità che, come scrive Vaclav Havel, è “il potere dei senza potere”.
Cominciò così la personale odissea della famiglia Franceschi per scoprire di chi fosse la responsabilità di una morte tanto ingiusta. All’inizio la versione dei giornali addossò la colpa agli studenti e furono necessarie delle lettere dei genitori perché si facesse vera luce su quell’omicidio di Stato.
Cinque processi penali non riuscirono ad accertare chi fu a sparare il colpo che spezzò per sempre la vita di Roberto Franceschi. La fiducia nella Magistratura cominciò a vacillare. Tuttavia fu accertato che in quella circostanza la polizia non era autorizzata all’uso legittimo delle armi, che quindi non sussisteva una causa di giustificazione del reato, che il colpo era partito dalle forze di polizia e che a sparare furono almeno in cinque. Il processo penale era un’arma spuntata e l’avvocato Ianni, con grande determinazione e forza di persuasione verso la famiglia, che era sul punto di arrendersi, intraprese un processo civile, in cui il Ministero dell’Interno fu dichiarato responsabile per la condotta dei suoi dipendenti e tra il 1990 e il 1999 la famiglia Franceschi fu risarcita per la morte di Roberto.
Ci vollero vent’anni per arrivare a questa conclusione, ma di fatto nessuno potrà mai sapere quale rappresentante dello Stato fu responsabile dell’omicidio di un giovane cittadino della Repubblica italiana, che stava esercitando i suoi diritti costituzionali di riunirsi e di esprimere liberamente il proprio pensiero, cercando di mettere in atto il sogno di un mondo più giusto ed umano, quello disegnato dalla nostra Costituzione.
Lo Stato di diritto, allora come oggi, resta spesso solo un’idea. Forse la frase che più lo rappresenta oggi è “Lavori in corso”.
La Fondazione Roberto Franceschi, istituita nel 1995, con i soldi del risarcimento per la morte del giovane, è stata un modo per continuare a far vivere gli ideali di giustizia, libertà e democrazia in cui Roberto credeva. La sorella Cristina, insieme alla madre, ne è una delle più grandi animatrici. Tra le tante attività della Fondazione c’è la distribuzione gratuita, a tutte le scuole che costruiscono progetti sulla legalità e ne facciano richiesta, di una Costituzione commentata con dispositivi della Corte Costituzionale su semplici casi concreti, con interventi di Valerio Onida e Gherardo Colombo, una serie di pubblicazioni interessanti sui diritti dei bambini e delle donne, su rom e sinti, sul diritto alla buona acqua, progetti per le scuole superiori per sensibilizzare le e gli studenti a tematiche sociali, borse di studio destinate a universitari ed universitarie che prospettino soluzioni per superare la povertà e le disuguaglianze, Convegni e conferenze. La Fondazione ha creato anche una Biblioteca nel quartiere Niguarda dove si possono trovare edizioni rare difficilmente reperibili in altre biblioteche, con sezioni su Marxismo, socialismo e sistemi politici affini, storia della Resistenza e storia italiana degli anni Settanta, con numerosi libri sulle Stragi di Stato e testi stampati ed editi dai movimenti studenteschi.
C’è anche una sezione specifica che riguarda la tematica di genere e di storia delle donne.
Una Biblioteca socialista di quartiere di vera controinformazione.
Tra i tanti progetti destinati alle scolaresche degli istituti secondari di secondo grado merita di essere ricordato il progetto “Diritto al lavoro”, a cui ho avuto la fortuna di far partecipare per alcuni anni le mie classi. In anni di neofeudalesimo e sistematica distruzione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, avvenuta con l’alibi della globalizzazione e in nome della parola feticcio flessibilità, i percorsi della Fondazione Franceschi sono stati un valido supporto alla costruzione di anticorpi potenti al pensiero unico dominante che spinge i giovani alla rassegnazione verso uno status quo che sembra, ma non è, immodificabile.
Tra le molteplici attività culturali della Fondazione Franceschi, che invito a scoprire attraverso la consultazione del sito omonimo, segnalo la Rassegna stampa “Cogito ergo sum”, che offre settimanalmente una panoramica dei migliori articoli di approfondimento pubblicati da riviste, quotidiani, blog, un supporto indispensabile per lavori su temi politici, sociali ed economici da svolgere in classe nelle ore di lezione. Leggere la newsletter settimanale è un po’ come continuare a dialogare con la mente fervida di Roberto e godere della grande generosità nel condividere il sapere con tutti e tutte, in uno spirito “socialista” nel senso più alto del termine.
Spesso le custodi della memoria sono donne. Chissà perché quando penso a Lydia Franceschi, mi viene da paragonarla a un’altra madre innamorata della cultura e della scuola, Felicia Impastato, a cui fu ucciso il figlio per mano mafiosa. Anche la casa di Lydia Franceschi, come quella di Felicia a Cinisi, è piena delle fotografie del figlio e uno dei suoi più grandi desideri è far conoscere Roberto a più persone possibili. Anche Lydia Franceschi ha combattuto, insieme alla figlia Cristina, la sua battaglia per la verità e più volte, in occasione del 12 dicembre, data della strage di Piazza Fontana, ha voluto prendere la parola, ricordando un’altra morte misteriosa della storia della nostra Repubblica, quella provocata dal ”malore attivo” dell’anarchico Pinelli. Tre morti scomode per il cosiddetto Stato di diritto italiano, in cui è molto difficile continuare a credere.
Ricorda Lydia Franceschi che, proprio in occasione della strage che avrebbe dato inizio alla strategia della tensione in Italia, Roberto volle uscire di casa e raggiungere Piazza Fontana, nonostante il pericolo che questo gesto poteva rappresentare. La madre gli disse: «Roby, è proprio necessario che tu vada, ripensando a Saltarelli ho paura, in fondo sono solo una mamma. Lui la guardò, le passò la mano sui capelli e le rispose: “Mamma per ognuno che cade mille sorgano. Se non andassi sarei un vigliacco.” E mentre apriva la porta Lydia continuò: “ma vuoi capire che se ti accadesse qualcosa la mia vita sarebbe finita, io morrei con te”. E lui, dandole un bacio: “Se mi dovesse capitare qualcosa, tu devi continuare nella mia lotta”». Questa frase è oggi incisa sulla porta della cappella nel cimitero di Dorga, dove è sepolto. Il posto di Roberto è stato preso da Lydia, da Cristina e da tutte le persone che partecipano a questa Fondazione, come relatrici, formatrici, docenti e studenti. Lo Stato quel giorno ha ucciso Roberto ma la forza dei suoi ideali e il suo amore per la cultura sono stati e continuano ad essere fecondi al di là di ogni immaginazione.
A Roberto Franceschi sono state intitolate tre scuole: l’Istituto Comprensivo di Milano, l’Itis di Gallarate e l’Istituto Comprensivo di Trezzano sul Naviglio; una lapide è stata posta presso l’Aula Magna dell’Univrsità Statale di Milano; un’aula studio, gestita dal gruppo studentesco “ULD – Studenti di sinistra”, lo ricorda all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Sono state scritte poesie e canzoni, reperibili sul sito della Fondazione.
Il 23 gennaio 2020, come ogni anno, verrà attuata l’eredità culturale di Roberto. La mattina nell’Aula Magna dell’Istituto Artemisia Gentileschi ci sarà la rappresentazione per studenti Muselakwakaba – Colui che si sposta, un progetto didattico-teatrale sulle rotte dei migranti di e con Marco Brinzi.                                                                                          La serata in ricordo di Roberto Franceschi si svolgerà come sempre alle 20.00 nell’Aula Magna dell’Università Bocconi in via Gobbi 5. Si intitolerà Perché non sono nata coniglio – Letture, musica, poesie per Lydia Franceschi, dal libro omonimo curato da Claudio Jampaglia, in uscita per Alegre. Il programma prevede un reading teatrale. A seguire l’ incontro con alcune donne, di varie generazioni, il cui impegno possa essere idealmente collegato a quello di Lydia: Laura Boldrini, Tiziana Ferrario, Cristina Franceschi, Mariapia Mendola, Giulia Di Donato.

FOTO 4. La presentazione del monumento alla Biennale 76. Manifesto di Enzo Mari
La presentazione del monumento alla Biennale 76. Manifesto di Enzo Mari

Se passate davanti alla Bocconi, tempio del pensiero economico neoliberista e della formazione delle classi dirigenti, fermatevi a meditare davanti al Maglio, che reca questa scritta, forse datata, ma non retorica: «A Roberto Franceschi e a tutti coloro che nella Nuova Resistenza dal ’45 ad oggi caddero nella lotta per affermare che i mezzi di produzione devono appartenere al proletariato». Secondo Riccardo Lombardi, in una lettera a Lydia Franceschi, meglio si sarebbe potuto scrivere su quel monumento: «Roberto Franceschi studente rivoluzionario ucciso dalla polizia per responsabilità di un potere prevaricante e impunito», senza timore alcuno, perché, di lì a poco, anche all’interno delle forze di polizia il contagio benefico della Costituzione avrebbe portato a spinte democratiche. Quel monumento, realizzato per essere indistruttibile, diversamente dalle prime lapidi poste nello stesso luogo e più volte distrutte dai fascisti «è la denuncia visualizzata del contrasto fra un oggetto industriale, simbolo del lavoro, oggi alienato, e l’edificio dell’università, simbolo della cultura, oggi separata» (Francesco Poli). Fermarsi a pensare non sarà solo il modo giusto per ricordare Roberto e per riflettere sull’importanza del lavoro nella nostra società, sui tanti morti sul lavoro, sulle morti per mano dello Stato come la sua e quella degli studenti Saltarelli e Zibecchi e dell’anarchico Pinelli. Quel monumento sarà capace di dirci, con le parole di Lydia «Prima di usare la forza, ricordatevi di Roberto Franceschi, pensate al diritto che hanno i giovani di manifestare, di ricercare una loro dimensione, una loro coscienza che può non essere solo la continuità con quella dei padri».

 

 

Articolo di Sara Marsico

Sara Marsico.400x400.jpgAbilitata all’esercizio della professione forense dal 1990, è docente di discipline giuridiche ed economiche. Si è perfezionata per l’insegnamento delle relazioni e del diritto internazionale in modalità CLILÈ stata Presidente del Comitato Pertini per la difesa della Costituzione e dell’Osservatorio contro le mafie nel sud Milano. I suoi interessi sono la Costituzione, la storia delle mafie, il linguaggio sessuato, i diritti delle donneÈ appassionata di corsa e montagna. 

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