«Se il nostro popolo non darà sostegno a questa richiesta (la libertà), una nuova torcia si infiammerà» è il messaggio alla famiglia di Jan Palach, il ventenne studente universitario cecoslovacco che il pomeriggio del 16 gennaio 1969 si dà fuoco di fronte al Museo Nazionale in Piazza Venceslao, a Praga, quello che gli occupanti sovietici avevano crivellato di colpi nell’agosto dell’anno prima.
Il 5 gennaio dell’anno precedente, il 1968, era diventato segretario politico del Partito comunista cecoslovacco Alexander Dubček che aveva dato vita alla cosiddetta “primavera di Praga”, un tentativo di concedere nuovi diritti grazie ad un decentramento parziale dell’economia e ad una relativa democratizzazione. L’Unione Sovietica non gradì affatto le normative che includevano un allentamento delle restrizioni sulla libertà di stampa e la libera circolazione dei cittadini. In particolare, le riforme per il decentramento delle autorità amministrative e le libertà di espressione irritarono molto i sovietici e i negoziati portati avanti da Dubček per avere qualche spazio di manovra fallirono. La notte fra il 20 e il 21 agosto 1968, 500.000 soldati dell’Armata Rossa con circa 7.000 mezzi corazzati e un completo equipaggiamento bellico entrarono in Cecoslovacchia sorprendendo il mondo intero e la nazione stessa.

Anche l’esercito cecoslovacco, contraente del patto di Varsavia, dette un inevitabile contributo all’occupazione del Paese. Nei filmati dell’epoca si vedono al mattino del 21 una grande folla recalcitrante e molti praghesi che vanno incontro ai carri armati sovietici sventolando la bandiera nazionale. Dopo l’invasione, in Cecoslovacchia furono ripristinate le condizioni politiche ed economiche antecedenti a Dubček, Gustáv Husák divenne presidente e annullò tutte le riforme.
Jan Palach si ispira al gesto compiuto nel 1963 da monaci buddisti del Vietnam del Sud contro le discriminazioni inflitte dal presidente cattolico, come ha modo di dichiarare al personale sanitario durante la sua agonia, durata tre giorni. Nella nota di servizio del 18 gennaio 1969 l’agente di pubblica sicurezza maggiore Jaroslav Buchar scrive: «In data odierna, come da precedente accordo, si è fatto visita alla dott.ssa Zádorožná – medica alla Clinica di chirurgia plastica di via Legerova 63, Praga 2, allo scopo di ottenere informazioni sul caso di Jan Palach, nato nel 1948. Nel corso del colloquio è stato riferito che attorno alle 14.45 il giovane fu portato in sala operatoria in stato di shock e fu sottoposto a cure mediche. Era tuttavia in grado di fare discorsi coerenti e alla domanda della dottoressa e delle infermiere su cosa gli fosse accaduto rispose che aveva fatto tutto da solo, che la sua era una protesta contro la politica della sua epoca e che, nel caso il suo sacrificio non avesse raggiunto il risultato sperato, dopo cinque giorni altri avrebbero seguito il suo esempio».

E negli scritti di Jan ritrovati dopo la sua morte, una sorta di testamento politico, si legge: «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero uno, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l’abolizione della censura e la proibizione di “Zparvy” (il giornale delle forze d’occupazione sovietiche). Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s’infiammerà». Jan Palach si dà fuoco pur di non sottomettersi al totalitarismo sovietico che ha duramente represso la “primavera di Praga” e il “socialismo dal volto umano” di Dubček; il suo corpo brucia ferito a morte e con il suo bagliore cerca di squarciare il grigio di molte coscienze e svelare la fragilità del regime totalitario. È un gesto muto e potente, che scuote e sconcerta. Nei giorni successivi di fronte al Museo Nazionale si tiene uno sciopero della fame a sostegno delle rivendicazioni di Palach e viene esposta la sua maschera funebre. Il suo gesto non resta isolato: almeno altri sette studenti, tra cui il suo amico Jan Zajíc, seguono il suo esempio, ma le loro azioni hanno scarsa risonanza mediatica in quanto il governo soffoca la diffusione di queste notizie. Dopo che la salma del giovane è stata esposta per due giorni all’Università Carlo IV e ininterrottamente visitata da migliaia di persone, il 25 gennaio una folla di 600.000 donne e uomini provenienti da tutto il Paese partecipa ai funerali di Jan Palach: sono studenti, operai/e, il corpo accademico universitario al completo, persone comuni che prendono parte a un rito collettivo di dolore e silenziosa protesta.

Sulla facciata di un teatro che si trova lungo il percorso del feretro campeggia una nota frase di Bertolt Brecht: «Infelice quel popolo che ha bisogno di eroi», mentre il decano della facoltà di filosofia nella sua orazione funebre afferma che «la Cecoslovacchia sarà un Paese democratico soltanto quando il sacrificio di un suo figlio non sarà più necessario». Il gesto dello studente di filosofia assume risonanza mondiale e lui stesso diventa un’icona per una generazione che ha visto infrangersi il sogno della “primavera di Praga”, per la gioventù anticomunista e per quella contraria all’oppressione sovietica, oltre che per le menti più aperte dell’epoca. In Italia, nel 1970, Francesco Guccini gli dedica Primavera di Praga, e a Jan Palach si ispirano in seguito altri musicisti, tra cui la Compagnia dell’Anello, gli inglesi Kasabian, Salvatore Adamo e lo scrittore Pier Paolo Pasolini per la sua Bestia da stile.
La tomba di Jan Palach al cimitero di Olšany diventa subito un luogo di pellegrinaggio della memoria e per questo motivo è oggetto d’interesse della polizia segreta; è dapprima rimossa e poi fusa dalle autorità nel luglio 1970, poco dopo l’installazione della lastra tombale di bronzo realizzata dallo scultore Olbram Zoubek, il quale dichiara nella sua deposizione: «Per quanto riguarda il lato artistico, inizialmente pensai a una forma verticale, ma l’amministratore del cimitero stabilì un’altezza massima di 160 cm. e abbandonai allora il progetto della forma verticale, perché una figura umana in piedi è più alta». Nell’ottobre del 1973, dopo lunghe insistenze da parte della polizia segreta, i genitori acconsentono infine alla riesumazione e alla successiva cremazione dei resti del giovane.
Dopo l’iniziale clamore il ricordo di Jan Palach, anche a causa del regime illiberale, cade nell’oblio e a lungo la società ceca fatica a relazionarsi con il suo gesto di protesta, giudicato spesso estremo e allo stesso tempo vano. Solo i dissidenti firmatari di Charta 77 si ostinano a tenerne viva la memoria e l’anelito alla libertà ed è proprio uno di loro, Vaclav Havel, che nel 1989 viene arrestato per aver voluto deporre una corona di fiori nel luogo in cui vent’anni prima si era dato fuoco il giovane Palach, dando inizio alla cosiddetta “settimana di Jan Palach”, anticipatrice della Rivoluzione di Velluto. Alla fine del 1989 Havel è eletto presidente della Cecoslovacchia e nel 1990 la tomba di Jan Palach è nuovamente installata al cimitero di Olšany e vi si svolgono regolari incontri commemorativi in occasione dell’anniversario della sua morte. Il 16 gennaio 2000 il sindaco di Praga 1, Jan Bürgermeister, inaugura il monumento a Jan Palach, che si trova a pochi metri dalla fontana davanti all’ edificio del Museo Nazionale in piazza San Venceslao a Praga, luogo del rogo del 16 gennaio 1969. Si tratta di un’installazione poco visibile tanto che, come osserva l’intellettuale ceco Václav Cílek: «In pochi conoscono questo monumento. Molti vi passano accanto senza neanche notarlo. Sulla croce c’è un’iscrizione poco leggibile. Il monumento non impone nulla alla vista di nessuno, è del tutto inadatto alle cerimonie commemorative. Non è celebrativo, si presta solo all’osservazione individuale». Viene realizzato dall’artista Barbora Veselá e dagli architetti Čestmír Houska e Jiří Veselý, che scelgono la forma orizzontale: dal lastricato del marciapiede emergono due bassi tumuli circolari collegati da una croce di bronzo, a simboleggiare una figura umana come torcia umana. La posizione della croce indica la direzione in cui Jan Palach cadde a terra e sul braccio sinistro della croce troviamo i nomi di Jan Palach e Jan Zajíc, datosi fuoco il 25 febbraio 1969, con le rispettive date di nascita e morte.

«Nella nostra cultura il sacrificio è sempre stato connesso al simbolo della croce. Nella tradizione cristiana la croce porta redenzione. Il significato della nostra croce si avvicina a quello delle croci usate come segno di riconciliazione, che erano di solito erette in spazi aperti come memoriali di riconciliazione, come confessione e rimedio a un evento infelice e possibilità di regolare i conti con esso. Non è tuttavia solo un simbolo consolatorio. Non si può dire con certezza se la nostra croce sia appena stata eretta o sia già stata abbattuta dalla nostra indifferenza. Allo stesso modo, le cime dei due tumuli, che sembrano emergere dal terreno potrebbero invece essere sul punto di affondarci – nel nostro subconscio, nella storia dimenticata e soppressa – e di fondersi con la terra» spiegano gli autori del monumento nel progetto presentato al bando di concorso.
Dagli anni Dieci del nostro secolo Palach è entrato definitivamente nella politica della memoria ufficiale, con un peso incomparabile rispetto agli altri protagonisti della Primavera di Praga. Oltre alla legge sul giorno di ricordo di Jan Palach approvata nel 2013 e all’acquisto da parte dello Stato della casa natale a Všetaty, il giovane cecoslovacco è stato oggetto di un numero crescente di studi ed eventi, compresi due film. Da simbolo degli studenti tuttavia si sta progressivamente trasformando in un piccolo santino della nuova Repubblica ceca che fa parte del Gruppo di Visegrad, sovranista e anti-Ue, con il conseguente svuotamento del personaggio storico, del suo profondo legame con la Primavera del ’68, con il dimenticato “socialismo dal volto umano” di Alexander Dubček, a favore di una versione leggendaria.
Gli esiti sono talora grotteschi; nel processo al primo “terrorista boemo”, un pensionato vicino al partito xenofobo Svpd che aveva posto dei tronchi d’albero su una linea ferroviaria locale, cercando goffamente di incolpare della manomissione il terrorismo islamico, l’accusato, un certo Jaromír Balda, ha rivendicato la similitudine del suo confuso gesto con Palach. «Come lui volevo scuotere le coscienze assopite dalla maggioranza della popolazione» ha detto ai giudici.
Appaiono senz’altro più adeguate e degne a ricordarlo, a cinquantuno anni dalla sua morte tragica e luminosa, le parole nette e ancora attuali con cui il 25 gennaio 1969, giorno dei suoi funerali, “L’Unità” lo commemora: «Oseremmo parlare di un eroico atto di speranza, o modo cosciente, nella sua violenza, di incitare a una strenua speranza. Speranza in che? Anzitutto e soprattutto nella dignità, nella risolutezza, nel coraggio degli uomini perché non si rassegnino, non accettino quello che è inaccettabile, la perdita della autonomia nazionale che non è soltanto un fatto politico. Il sacrificio di Palach obbliga in modo stringente, ultimativo, a scegliere fra un modo o l’altro di vivere e di costruire la nuova società al di fuori di schemi che proprio un così alto sacrificio torna a rivelarci nella loro miseria: e questa nuova società non può essere che una società di pace, non di guerra, di tolleranza, non di sopraffazione, di ragioni umane, non di naturalmente feroci ragioni di Stato, di vincoli internazionali che non violino le indipendenze nazionali, di socialismo e libertà, non di socialismo diviso da libertà. Sono ideali alti, mete difficili, ma la sorte di Jan Palach ha assunto per noi un significato inesorabile, non permette alibi, non pone alternative alle nostre scelte».

Articolo di Claudia Speziali
Nata a Brescia, si è laureata con lode in Storia contemporanea all’Università di Bologna e ha studiato Translation Studies all’Università di Canberra (Australia). Ha insegnato lingua e letteratura italiana, storia, filosofia nella scuola superiore, lingua e cultura italiana alle Università di Canberra e di Heidelberg; attualmente insegna lettere in un liceo artistico a Brescia.