Nel 1953 Stalin muore. Per l’Urss e per il mondo si chiude un’epoca.
Dopo una breve ma aspra lotta per il potere, alla guida del Pcus succede Nikita Kruscëv, il più antistalinista tra i membri Comitato centrale del partito. Kruscëv denuncia il terrore staliniano e i crimini commessi sotto il regime, e libera milioni di prigionieri dai gulag, fino a cambiare il nome della città di Stalingrad in Volgograd: si apre così la strada a un ammorbidimento internazionale che prende il nome di “disgelo”.
All’affievolirsi della repressione, gli Stati satelliti dell’Urss si trovano davanti a una situazione nuova. La maggior parte di questi si mantiene cauta e immobile, mentre altri sperimentano forme diverse di gestione politica sociale ed economica. In Polonia e in Ungheria è radicata la convinzione che la crescita economica proceda lenta e faticosa proprio a causa del peso dei legami con la Russia. A giugno del 1956 un’insurrezione di operai cattolici in Polonia scatena la repressione russa ma apre la strada a lunghe trattative che si concludono con un inedito compromesso: il Partito comunista rimane l’unico ammesso in Polonia, ma ottiene una certa autonomia rispetto a quello sovietico. Il Cominform viene sciolto. A ottobre dello stesso anno un’altra insurrezione scuote l’Ungheria. Stavolta studenti, donne e intellettuali si uniscono agli operai, che raccolgono un largo consenso popolare. Le aspirazioni dei ribelli sono più democratiche che socialiste: chiedono libere elezioni in cui siano riammessi i partiti liberali e vogliono l’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia. La reazione di Mosca è molto più dura che in Polonia: a novembre i carri armati dell’Armata Rossa reprimono nel sangue la rivolta. La stampa occidentale liberale parteggia per gli insorti ma né la Nato né l’Onu intervengono, per rispetto delle sfere d’influenza secondo cui la gestione delle questioni interne all’Europa orientale è di esclusiva competenza sovietica. I partiti comunisti invece, inclusi quelli dei Paesi capitalisti, difendono a spada tratta l’intervento russo: in Italia l’Unità (il giornale ufficiale del Partito comunista italiano) definisce gli operai ungheresi «spregevoli provocatori» e «teppisti controrivoluzionari», e il portavoce ufficiale del partito Giorgio Napolitano commenta i fatti sostenendo che «l’intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ma anche alla pace nel mondo».
Dopo la fine della II Guerra mondiale, in Cecoslovacchia si erano tenute libere elezioni che avevano dato il via a un sistema politico democratico, soppiantato nel 1948 da un colpo di Stato con cui la polizia e l’esercito avevano soppresso tutti i partiti, tranne quello comunista, e trasformato il Paese in una delle “democrazie popolari” obbedienti a Mosca. Eppure nella popolazione è rimasto radicato un sentimento democratico, silenzioso ma pur sempre vivo. La Cecoslovacchia è dunque il primo Paese a sperimentare la cosiddetta “via nazionale al Socialismo”, con l’intenzione di conciliare comunismo e democrazia. Sotto la guida di Alexander Dubček, comunista ma aperto ai cambiamenti e tollerante verso idee diverse, nel 1968 la Cecoslovacchia tenta una rivoluzione morbida: non si vuole abbandonare il socialismo né il Patto di Varsavia ma aprire la strada al pluralismo politico mantenendo il sistema socialista, teoria che Dubček chiama “Socialismo dal volto umano”. Seguono mesi di fermento politico e culturale, passati alla Storia come “primavera di Praga”. Con queste intenzioni Dubček annuncia la convocazione di un congresso straordinario del Partito per settembre 1968. A questa notizia il Pcus, capeggiato stavolta da Leonid Brežnev, decide di intervenire militarmente in Cecoslovacchia, nonostante le richieste siano molto più morbide di quelle che dodici anni prima avevano spinto Kruscëv a scatenare la repressione in Ungheria. I carri armati russi invadono l’intera Cecoslovacchia, stavolta lasciando sgomenti e spiazzati i comunisti dell’Europa occidentale: per la prima volta, il Pci italiano non solidarizza con l’Urss. Dubček si lascia arrestare e deportare, e invita la popolazione a opporre una resistenza passiva e disarmata, il che contribuisce a screditare Mosca a livello internazionale. La gente risponde scendendo nelle strade di Praga per fermare i carri armati a mani nude e dando vita a uno sciopero generale, tanto che il governo filosovietico cecoslovacco prende le distanze da Mosca e fa pressioni per la liberazione di Dubček. Questi viene rilasciato, ma in condizioni di salute tanto precarie da essere facilmente estromesso dalla vita politica. Dopo l’autunno del 1968, Praga subisce una lenta e morbida “normalizzazione”, ma ormai l’Unione Sovietica ha perso gran parte del suo carisma internazionale.
Articolo di Andrea Zennaro
Andrea Zennaro, laureato in Filosofia politica e appassionato di Storia, è attualmente fotografo e artista di strada. Scrive per passione e pubblica con frequenza su testate giornalistiche online legate al mondo femminista e anticapitalista.